Anonimo scientifico

Un numero recente di “Current science”  (111/2, 25 luglio 2016) ospita un testo di un ignoto, presumibilmente indiano, con una proposta apparentemente ingenua: rendere anonimi gli articoli scientifici e valutare i ricercatori non più per le loro pubblicazioni, ma per i loro discorsi e le loro azioni.

Non è però ingenua l’analisi che le sta alle spalle. Secondo Richard Horton, editor di “The Lancet”, una buona metà della letteratura scientifica potrebbe essere falsa.

Afflitta da studi con campioni piccoli, effetti minuscoli, analisi esplorative dei dati invalide e flagranti conflitti d’interesse, combinati con l’ossessione di inseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza si è avviata su una cattiva strada.

Questi vizi nel metodo e nella selezione dell’oggetto sono esaltati da una valutazione della ricerca che spinge a un’“insana competizione” a pubblicare in alcune riviste selezionate sulla base del fattore d’impatto e a una produttività pletorica, che ha ormai ben poco a che vedere con lo scopo di offrire scoperte e teorie rigorose all’uso pubblico della ragione. Lo spirito competitivo preso nella sua purezza – non da ora, non da oggi – è nemico della ricerca della verità.  Chi fa ricerca deve riconoscere che saper accettare la confutazione e il superamento è una parte importante del gioco della scienza. Così, per esempio, scriveva Max Weber all’inizio del secolo scorso:

Ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed esser ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza [corsivo mio].

Contro la crisi sono stati suggeriti rimedi amministrativi, deontologici e comunicativi, quali l’auto-pubblicazione e qualche forma di revisione paritaria aperta, allo scopo di riavvicinare la pubblicazione al fine implicito nel suo nome. Nel 2006, tuttavia, “Nature” provò a sperimentare la revisione paritaria aperta – ora oggetto anche di qualche progetto finanziato dell’Unione Europea – ottenendo una partecipazione poco numerosa e poco significativa.

Perché meravigliarsene? In un sistema competitivo di “pubblicazione” proprietaria partecipare a una discussione genuinamente pubblica – perfino sul sito di “Nature” – è ozioso.  In un mondo in cui la “competitività” – o vogliamo chiamarla pleonexia? – è favorita e spesso imposta in quanto incentivo unico alla “produttività” scientifica,  il proprio tempo va investito nella confezione di articoli da regalare a editori bibliometricamente significativi.  Finché le pubblicazioni non recupereranno il loro scopo originario – condividere e registrare teorie e scoperte, non prevalere in una gara eterodiretta fondata sul feticismo bibliometrico – iniettare regolamenti, protocolli e codici etici rischia di avere solo un effetto palliativo.

Le teorie e le scoperte diventano scientifiche se e quando si emancipano dall’inintelligibile genio individuale e si fanno patrimonio comune. Perché una teoria o una scoperta venga riconosciuta come scientificamente solida non occorre – dal punto di vista oggettivo – che sia firmata con un nome e un cognome. Dal punto di vista soggettivo, però, almeno per chi è influenzato da Thomas Hobbes o dall’astrazione dell’homo oeconomicus, le cose sembrano stare differentemente: se non fossimo posti in una competizione che ha variamente a oggetto gli onori accademici, o la misura degli indici H, o, più semplicemente, la sopravvivenza, non avremmo – così si crede – nessuna motivazione per dedicarci alla ricerca.

Eppure, di molti patrimoni artistici e culturali dell’umanità – dalle piramidi egiziane, al tempio di Thanjavur, alle caverne di Ajanta ed Ellora, all’epopea di Gilgamesh, a buona parte delle Sacre Scritture – non conosciamo gli autori, che si sono interamente risolti nelle opere. A maggior ragione, dall’altro lato, sono condannati all’impermanenza i nomi degli autori dell’inflazione di pubblicazioni in riviste proprietarie al servizio della causa della bibliometria più che di quella della scienza.

Anche in occidente la scienza è nata ed è fiorita indipendentemente dell’invenzione delle carriere accademiche e dell’enfasi sulla misura della loro “produttività”, per esempio – individualmente – nella vocazione di chi pensava che una vita senza indagine non fosse degna di essere vissuta, o – socialmente – nella ricerca pura sostenuta dal mecenatismo fiorita nell’Europa protomoderna.

Il concetto di nishkam karma – o azione disinteressata – appartiene alla cultura indiana. Così lo esprime, per esempio, la Bhagavad Gita:

È tuo dovere e competenza solo l’agire, ma che questo non sia motivato dal desiderio dei frutti dell’azione. E non sorga neanche in te l’adesione al non agire. (Bhagavad Gita, 2.47)

Ma qualcosa di simile si ritrova anche in luoghi per noi meno esotici – per esempio nella teoria morale di Kant  – ed è originariamente intrinseco allo stesso ethos scientifico, come può mostrare una lettura mirata della confutazione di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone. Se ci si facesse beffe del poco realistico ideale della ricerca disinteressata e si misurasse la qualità dei medici sulla loro capacità di farsi pagare, otterremmo esattamente quello i nostri pregiudizi hanno predeterminato: non più medici valenti, ma esperti nell’arte mercenaria.

Si può obiettare che l’anonimato delle pubblicazioni deresponsabilizza gli autori. Il sistema attuale, però, accetta l’anonimato in una funzione più delicata: quella della revisione paritaria, per la quale una critica simile potrebbe avere una forza ancora maggiore. Così, per esempio, scriveva il matematico Giorgio Israel:

L’anonimità dell’esaminatore è invece un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi. L’anonimato rischia invece di offrire coperture a comportamenti intellettualmente superficiali o eticamente scorretti (Chi sono i nemici della scienza?, 2013, grassetti miei).

Il sistema di valutazione basato sulle pubblicazioni è un modo per sottrarsi alla responsabilità di giudicare la ricerca spostandola su revisori paritari a loro volta protetti dall’anonimato. Si costruisce così una gabbia d’acciaio apparentemente impersonale in cui nessuno fra coloro che determinano le vite degli altri è davvero disposto a rendere conto delle decisioni – pur molto personali – che si trova a prendere.

Eclissi di soleL’anonimo indiano propone di sovvertire il sistema attuale, oscurando quanto oggi illuminiamo e illuminando quanto oggi oscuriamo. Non è neppure necessario che il nome dell’autore sia un segreto custodito meglio di quello che protegge la revisione paritaria: gli autori potrebbero anche essere contrassegnati da una sorta di ORCID anonimo, e potrebbe esser reso possibile corrispondere con loro tramite le piattaforme di pubblicazione, come si fa attualmente, per interposta persona, con i referee anonimi. Sarebbe sufficiente che l’anonimato fosse un accessorio in un combinato disposto che eliminasse dai criteri per valutare la ricerca e determinare le carriere il numero delle pubblicazioni e il loro peso bibliometrico.  Nelle varie fasi della carriera accademica si dovrebbero invece considerare le persone in luogo dei prodotti, tramite relazioni scritte e colloqui che abbiano a oggetto la tesi di dottorato, la capacità di insegnare e di guidare altri nella ricerca, le attività passate e gli interessi presenti e futuri.

I ricercatori non smetterebbero di pubblicare:  scriverebbero meno e meglio, perché sarebbero motivati solo dallo scopo di condividere la memoria di teorie e scoperte a loro giudizio meritevoli di attenzione. Allo stesso tempo, questa valutazione della ricerca alternativa, fondata sulla cultura delle persone e sulla loro capacità di selezionarla, trasmetterla e discuterla, farebbe emergere, fra i testi anonimi, quelli meritevoli di essere esaminati e studiati. Il denaro sottratto alle multinazionali editoriali e bibliometriche potrebbe essere meglio speso in un’infrastruttura di ricerca pubblica e accessibile a tutti che aiuti gli studiosi nella loro conversazione.

Utopia? Per niente: questa è semplicemente la soluzione antica di un problema altrettanto antico, che si ritrova nel Fedro di Platone. L’invenzione della scrittura – così racconta il mito di Theuth – è alla radice del feticismo della pubblicazione, perché rende possibile separare il prodotto dal processo, il risultato messo per iscritto dalla sperimentazione, dalla dimostrazione e dalla discussione. Si è così esposti alla tentazione di confondere il medium col messaggio: sono un valente scienziato non perché sono in grado di dimostrare le mie ipotesi e scoperte in una discussione pubblica, bensì perché le mie ipotesi e scoperte sono pubblicate in testi a cui si attribuisce variamente autorità scientifica.

Se questa confusione è socialmente e amministrativamente rinforzata, il ricercatore sarà a suo volta esposto alla tentazione di abbandonare la via della sophia per imboccare quella della doxosophia o apparenza di sapienza la quale, nel sistema attuale, equivale a perseguire non l’approssimazione alla verità, bensì la pubblicazione e il successo nella competizione bibliometrica.

Platone, per sottrarsi a questa tentazione, escogitò un rimedio molto simile a quella immaginata dall’anonimo del XXI secolo: non prendere i testi – i nostri figli illegittimi – troppo sul serio, se non come ausilio per la memoria, e dedicarsi invece alla costruzione di comunità di conoscenza che li facciano vivere scientificamente, selezionandoli, curandoli, discutendoli e confutandoli – in una parola, prendendosi la responsabilità di valutarli. Coerentemente, non si presentò mai come autore, ma, similmente al suo Socrate,  come un curatore al servizio di una verità che trascende le persone e le loro gare.

La scienza oggettivamente intesa può permettersi di essere anonima. Che la teoria eliocentrica sia di Copernico o di Aristarco da Samo ne influenza, forse, la plausibilità? Che importa chi parla? Però, soprattutto in un mondo di informazione sovrabbondante, la cura e la selezione dei testi – se vale la pena leggere, discutere e linkare articoli eliocentrici o geocentrici – è frutto di scelte personali. Proprio per la sua soggettività, essa richiede una assunzione di responsabilità con nome e cognome: in una valutazione scientifica della ricerca, chi sceglie deve render pubblicamente conto delle sue decisioni. Il suo stesso logon didonai è parte di quella discussione scientifica che ritrasforma la lettera morta in un vivo processo d’indagine.

Questo prassi desueta può sembrare aleatoria e bizzarra. Ma non è altrettanto bizzarro considerare normale – e non semplicemente normalizzante – un sistema in cui le scelte sociali sulla ricerca sono compiute irresponsabilmente da giudici che non osano mostrare la faccia e da algoritmi proprietari rappresentati come impersonali? Prima di concludere che non ci sono alternative forse vale la pena chiedersi se non siamo talmente abituati alla gabbia che nessuno vuol assumersi la responsabilità di cominciare a crearle.

Il testo mi è stato segnalato da Paola Galimberti.

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Richard Poynder: lo stato dell’accesso aperto

open access logo“La storia dell’accesso aperto, quando verrà scritta, narrerà la vicenda di un gruppo di spiriti nobili che, contro l’aspra resistenza degli editori, hanno demolito le barriere economiche attorno alla ricerca a finanziamento pubblico? O riferirà di come un’industria editoriale altamente innovativa abbia sfruttato gli effetti benefici della rete per rendere la ricerca libera?”

Richard Poynder è un giornalista indipendente, autore di una serie di interviste sullo stato dell’accesso aperto. Nell’ultimo dialogo della raccolta assume il ruolo dell’intervistato, lasciando a Björn Brembs quello dell’intervistatore. Il colloquio si conclude con un prospettiva sulla storia futura,  come la scriveranno i vincitori.

Se l’accesso aperto è inevitabile perché – dopo un quarto di secolo – è ancora minoritario?

Nel gioco dell’accesso aperto gli editori commerciali, da un lato, e i bibliotecari e i ricercatori, dall’altro, professano  visioni antagoniste della scienza e del mondo. Almeno per l’opzione cosiddetta “aurea”,  cioè la pubblicazione su riviste nativamente ad accesso aperto (p. 2),  ora l’antagonismo è in via di attenuazione: ma questo,  per Poynder,  è un signum prognostikon ambiguo (pp. 3-4).

Non posso fare a meno di notare che sono passati venticinque anni da quando è stato inventato il web, ventitré  dalla creazione dell’archivio di preprint di fisica arXiv, venti da quando Stevan Harnad ha pubblicato la sua Subversive Proposal, quattordici dalla fondazione del primo editore OA (BioMed Central),  e dodici dalla conferenza BOAI a Budapest. Ma l’accesso aperto sta entrando nel mainstream soltanto ora, e resta da fare un’enorme quantità di lavoro.  Senza considerare nient’altro, moltissimi ricercatori devono ancora essere convinti ad abbracciare l’OA,  e un buon numero ne è implacabile oppositore, in particolare fra gli studiosi di scienze umane e sociali – come dimostra l’intervista a Robin Osborne

Credo ci siano anche motivi per sostenere che, per le debolezze che vedo nel modo in cui si è sviluppato il movimento. l’OA rischia di essere occupato dagli editori – e sarà improbabile che questo sviluppo abbia esiti che compiaceranno molti sostenitori dell’accesso aperto.

Così mi sento obbligato a chiedere: se l’accesso aperto è inevitabile perché si è attuato così poco nell’ultimo quarto di secolo, perché il dibattito è divenuto così confuso e perché si sta evidentemente permettono agli editori di sovvertire il processo di transizione all’open access?

Secondo Poynder, la frammentazione  del movimento per l’accesso aperto – il suo essere una collezione variopinta di individui e interessi (p. 5) – gli rende difficile agire come un gruppo di pressione unitario in grado di influenzare gli stati e le università  (p. 6)  per creare politiche istituzionali comuni.  Per questo motivo si è anche sottovalutato il fenomeno dell’editoria cosiddetta predatoria, che adotta come unico criterio di selezione dei testi la disponibilità degli autori a metter mano al portafoglio.   Il compito importante e rischioso di identificare e indicare i predatori non può essere abbandonato nelle mani di un singolo come Jeffrey Beall. Occorrerebbe uno sforzo organizzato  (p.7).

Cercare alleanze con gli editori, anche ad accesso aperto, si è rivelato controproducente:  nel gioco della pubblicazione scientifica, gli editori non sono animati dagli stessi interessi dei ricercatori e dei bibliotecari. Lo ha mostrato il Finch Report britannico, che ha condotto a patrocinare pubblicazioni accessibili gratuitamente ai lettori, ma a pagamento per gli autori, e a tutto vantaggio degli editori (p. 8),  che continuano a intercettare grandi quantità di denaro pubblico. Anzi, il modello pay-to-publish rischia di replicare la crisi dei prezzi dei periodici, questa volta dal lato dei ricercatori come autori e non più da quello dei ricercatori come lettori.  Secondo Peter Suber, circa il 70% delle riviste elencate nella Directory of Open Access Journals sono gratis sia per il lettore sia per l’autore: ma questo, secondo Poynder,  è un fenomeno localizzato per lo più nei paesi del cosiddetto Sud del mondo.

Per quanto la massa degli studiosi rimanga indifferente al problema della pubblicazione,  alcune iniziative spiccano perché hanno avuto origine fra i ricercatori e non fra i bibliotecari (p. 11):  lo sciopero organizzato tramite il sito The Cost of Knowledge, e alcune iniziative di pubblicazione e referaggio in proprio come Episciences.org e l’overlay journal Annals of Mathematics, il cui scopo è mettere fuori gioco l’editoria tradizionale  (p. 11).

In rete è possibile disaggregare le funzioni dell’editoria scientifica – la revisione paritaria e la pubblicazione – che nella stampa erano unite, e costruire sui testi liberamente disponibili una serie di servizi a valore aggiunto, incentrati non sui contenuti, ma sugli strumenti analitici che li ri-trasformano in dati. Le mosse di Elsevier,  da Scopus fino all’acquisto di Mendeley, indicano che gli editori più attenti, pur non rinunciando a spremere il copyright fino all’ultima goccia, prendono già sul serio questa prospettiva (p. 12).

Il fatto che la pubblicazione sia sempre più connessa alla tecnologia della rete rende possibili forme di disintermediazione che la rimettano sotto il controllo degli studiosi: non per caso Internet non è nata come una produzione dell’impresa privata, ma come una creazione della ricerca pubblica. Fra i compiti che dovrebbero tornare nelle mani degli studiosi c’è anche l’amministrazione della revisione paritaria. Gli editori, però, sono una parte terza, anche se commercialmente ispirata, che media fra attori spesso aspramente rivali (p. 13):  gli autori, lasciati a se stessi, sono davvero in grado di cooperare?

La trasformazione degli enti di ricerca in revisori ed editori di se stessi è già ampiamente sperimentata, sia nelle riviste ad accesso aperto offerte dai servizi bibliotecari, in associazione ai loro archivi istituzionali, sia in iniziative di più ampio respiro, come Digital Commons, o l’incoraggiamento a fondare overlay journal  che insistono su un archivio istituzionale   (p. 14), secondo un’idea già praticata anche qui  in Italia –  in uno stato che, dal punto di vista della politica della ricerca, è indirizzato con decisione verso il Sud del mondo.  Rispetto al Nord c’è solo una differenza:  in un paese in via di sottosviluppo le iniziative restando individuali e difficilmente  sono raccolte da istituzioni impoverite non solo economicamente, ma soprattutto culturalmente e moralmente.  Offrono maggiore speranza i paesi emergenti SciELORedalyc e AJOL  sono molto più piattaforme di pubblicazione che archivi (p.  19) – e sono economicamente sostenibili perché  finanziate dal pubblico come parte dell’infrastruttura di ricerca.

Chi orienterà l’accesso aperto del futuro? I ricercatori o gli editori?

In questa prospettiva la via del deposito in archivi istituzionali e disciplinari di testi pubblicati altrove rimane quella più interessante, perché non replica in rete la rivista cartacea, ma,  separando l’accessibilità dell’articolo dalla sua pubblicazione ufficiale,  è un passo verso la disgregazione del monolito editoriale e l’emancipazione degli autori e delle biblioteche universitarie  (p. 16).

Siamo, dunque,  a un punto di svolta:  l’accesso aperto del futuro sarà indirizzato dalla ricerca o gestito e organizzato dagli editori (pp.17-20)? Secondo Poynder,  è essenziale che il movimento per l’accesso aperto prenda le distanze dagli editori:  lasciare a loro il controllo della pubblicazione significa non solo continuare permettergli di drenare una quantità sproporzionata di denaro pubblico, ma soprattutto limitare l’accessibilità alla prospettiva di chi legge senza considerare quella di chi scrive e quella delle istituzioni che finanziano la pubblicazione (pp. 21-25).   La scienza, come afferma  Jean-Claude Guédon,  è una grande conversazione, che richiede la libertà dell’uso pubblico della ragione entro una società cosmopolitica:  se offriamo un accesso passivo ai lettori,  ma permettiamo solo ai ricchi  di essere “scrilettori”,  avremo una scienza di ricchi  per i ricchi, con  tutti gli altri ad assistere in silenzio.

Soprattutto in paesi,  come l’Italia, in cui la legislazione è ancipite e in cui la valutazione della ricerca non solo ha un impianto autoritario, ma è costruita prevalentemente sugli interessi degli editori,  il momento decisivo è ora:  se università ed enti di ricerca non riusciranno a passare dalle parole ai regolamenti,  se il movimento per l’accesso aperto non riuscirà a svegliare le coscienze dei ricercatori, la storia del futuro sarà scritta nel modo peggiore. Vinceranno i feudatari e i burocrati, perderemo noi.

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CUN: consultazione pubblica per la costituzione dell’anagrafe nazionale nominativa dei professori e delle pubblicazioni scientifiche

E’ stata promossa dal Cun.  Serve a “comprendere quali siano le opinioni, le idee degli attori della ricerca circa i criteri in base ai quali  riconoscere anche le riviste scientifiche“. Rispetto alla scientificità per emanazione governativa, è un passo avanti, compiuto da un organo che è, differentemente dall’Anvur, elettivo.

Vale la pena spendere un po’ del nostro tempo del rispondere. Si può fare da qui.

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L’onore degli ambasciatori: citazioni ad accesso aperto

Chi pubblica i propri lavori ad accesso aperto fa un uso pubblico della ragione. Chi preferisce l’accesso chiuso ne fa un uso privato: anziché rivolgersi ai cittadini del mondo valendosi della miglior tecnologia di comunicazione disponibile al momento, parla a un gruppo ristretto, selezionato con criteri economici. La scelta dell’accesso chiuso è di solito dovuta o a un’adesione d’abitudine alla prassi della comunità accademica di riferimento, o alla cura per la propria carriera e al timore che una pubblicazione ancora percepita come poco tradizionale possa condurre a valutazioni negative. Qui il teatro dell’azione non è una sfera pubblica virtualmente universale, bensì istituzioni particolari.

La citazione è “la moneta corrente nel commercio della comunicazione scientifica ufficiale“. Serve, quando costruisco tesi su idee altrui, sia a pagare dei debiti, sia a esibire la solidità del mio credito: la mia voce suona più forte, sostenuta dal patrimonio di letteratura che ho prelevato dalla banca del sapere.

La citazione è anche la materia prima degli indici bibliometrici, che possono essere decisivi per la valutazione della ricerca, gli avanzamenti nella carriera e le politiche d’acquisto delle riviste nelle biblioteche. In questa seconda funzione, le citazioni non sono moneta soltanto metaforicamente, ma anche in un senso assai letterale.

In un’opera pubblicata in rete le citazioni, in forma di link, sono moneta anche nel senso dell’economia dell’attenzione: tutte le volte che faccio un collegamento a una risorsa, migliorando il suo ranking nei motori di ricerca e rendendola più visibile, aumento il suo valore. E dato che i testi ad accesso aperto sono citati di più, ottenervi citazioni significa ricevere un bellissimo regalo.

Se le risorse citate sono a loro volta ad accesso aperto, la citazione è un segno di gratitudine per il dono della loro presenza. Ma se sono ad accesso chiuso si può dire lo stesso?

George Monbiot, in un recente articolo sul Guardian, ha chiamato gli oligopolisti dell’editoria scientifica “i capitalisti più spietati del mondo occidentale”, perché sfruttano il lavoro, per loro gratuito, di ricercatori e revisori finanziati con fondi pubblici, privatizzandone il prodotto e imponendogli un prezzo esorbitante. Che senso ha, per chi sceglie l’accesso aperto, far loro pubblicità gratis e senza reciprocità, per il loro profitto?

Potremmo raccomandare a chi pubblica ad accesso aperto la soluzione radicale, ma ingiusta, di citare esclusivamente risorse ad accesso aperto. Il marketing dell’attuale oligopolio della comunicazione scientifica tende a farci credere che la validità di un contenuto dipenda dal luogo in cui viene pubblicato (Björn Brembs, What’s wrong with scholarly publishing today? slide 87): se escludessimo la possibilità che un’idea veramente buona appaia in una rivista ad accesso chiuso commetteremmo lo stesso errore. Si può allora pensare a una politica di riduzione del danno, con alcune innovazioni rispetto alla consuetudine.

1. Preferire sistematicamente la letteratura ad accesso aperto;

2. citare i documenti ad accesso aperto depositati negli archivi istituzionali e disciplinari anche quando ne è stata pubblicata una versione ad accesso chiuso;

3, quando il testo da citare è rilevante per le idee che contiene e non per l’autore, cercare un documento ad accesso aperto che riporti tesi analoghe, anche quando questo significhi menzionare il lavoro di un dottorando in luogo di quello di un’academic star;

4. se il testo ad accesso chiuso è insostituibile, non citarlo direttamente, ma citare le risorse ad accesso aperto che lo segnalano e lo schedano; se mancano, produrre una sua breve presentazione ad accesso aperto per l’uso della citazione, avendo cura di sottolineare, quando è il caso, che la risorsa è ad accesso chiuso e a pagamento, mentre avrebbe potuto non esserlo.

La citazione di seconda mano non solo lascia quasi invariato l’impatto citazionale del testo ma ha un altro, importante, pregio.

In un ambiente in cui l’informazione è fin troppo abbondante il curatore – o il battitore di piste alla Vannevar Bush – ha un ruolo creativo; indica da che parte voltarsi, riduce la complessità con criteri più raffinati e umani degli algoritmi basati sulla popolarità, produce idee nuove da nuove combinazioni di concetti già noti. Già soltanto per questo merita di essere riconosciuto.

Ma il curatore che segnala in accesso aperto una risorsa ad accesso chiuso, esponendone il contenuto, fa qualcosa di ancora più significativo: libera per l’uso pubblico della ragione una risorsa che era a uso privato, dice nella luce quanto è stato detto nelle tenebre, grida sui tetti quanto gli è stato sussurrato all’orecchio. In questo senso il vero studioso è lui: perché è lui che racconta ai cittadini del mondo quanto l’autore aveva riservato agli eletti selezionati da un carisma economico.

A tutti noi, quando abbiamo scritto la nostra tesi di laurea, è stato detto non era bello fare citazioni di seconda mano, perché ci si esponeva al sospetto di non aver letto i testi citati e al rischio di recepire le eventuali inesattezze della citazione copiata. La politica di citazione qui proposta innova questa regola, indicando una situazione in cui la citazione di seconda mano è doverosa, perché non è un segno della pigrizia del citante, ma di una scelta – spesso non del tutto consapevole – del citato, che parla a pochi e per interessi particolari quando potrebbe parlare a tutti e per interessi universali. La citazione di seconda mano renderebbe evidente che chi rinuncia a entrare in prima persona nella sfera pubblica deve rassegnarsi alla mediazione – non necessariamente benevola e accurata – di qualcun altro che si prende il suo merito. E che oggi l’uso pubblico della ragione, superati i limiti tecnologici ed economici dell’età della stampa, si fa nell’accesso aperto.

Questa proposta nasce dall’esperienza della comunicazione ancora prevalente nell’ambito umanistico e tenta di affrontare il problema della mancanza di reciprocità nel rapporto fra accesso aperto e accesso chiuso, in un mondo in cui buona parte della ricerca mainstream continua ad adottare la seconda opzione, spesso soltanto per mancanza di consapevolezza. Ci possono essere soluzioni migliori? La discussione è aperta.

–dnt

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Scholars, don’t disregard Wikipedia. Become Wikipedia

open access logoNel marzo 2012, la rivista ad accesso aperto PLoS Computational Biology ha compiuto l’esperimento di pubblicare, con la procedura normale, un articolo di stile enciclopedico, impegnandosi però a caricarne una versione sulla Wikipedia in lingua inglese.

Gli studiosi accademici sono affetti da una peculiare schizofrenia o, meglio, da un’idiozia specializzata. Tutti noi sappiamo, con Weber, che i nostri contribuiti individuali sono destinati a essere superati, e nella nostra ricerca usiamo senza ritegno opere dell’intelligenza collettiva come Wikipedia. Quando si tratta, però, di contribuirvi, ci comportiamo come se un’etichetta di professore ordinario sull’urna delle nostre ceneri esaurisse il senso della nostra vita: tendiamo, dunque, a “pubblicare” in luoghi più costosi e meno frequentati,  ma in grado di marchiare i nostri articoli con la nostra individualità.

Plos offre un rimedio a questa contraddizione: l’articolo sulla rivista ha i crismi della peer review tradizionale e rimane legato al suo autore, mentre la versione donata a Wikipedia, collettivizzata, potrà essere elaborata nei consueti modi dell’enciclopedia libera.  Nel lungo termine, un effetto collaterale di quest’operazione sarà la possibilità di vedere come, quanto e perché la versione collettiva si differenzierà da quella individuale. Gli auctores antichi – da Omero a Pitagora, da Ippocrate allo stesso Platone – fondavano comunità di conoscenza solo diluendo l’individualità propria e altrui; la rivoluzione telematica, di contro, rendendo facile il forkpermette di rimanere a un tempo autori in un senso moderno e di ambire a diventare auctores all’antica.

La qualità della Wikipedia italiana è oggetto di critiche fondate e di altrettanto fondate ipotesi di miglioramento, che invocano interventi “professionali”. L’espediente di Plos permette di offrirli senza diminuire o ostacolare la contribuzione cosiddetta “amatoriale” che, in un progetto come quello di Wikipedia, deve meritare il massimo rispetto.

Il Bollettino telematico di filosofia politica ha deciso di ripetere l’esperimento di Plos con la Wikipedia italiana e nell’ambito delle scienze umane, mettendo a disposizione le sue pagine per pubblicare, nelle modalità tradizionali, articoli disciplinarmente pertinenti una cui copia sarà destinata a essere donata a Wikipedia. Il nostro primo contributo è la traduzione italiana del saggio di Fichte di cui abbiamo già parlato. E’ inoltre in preparazione un articolo a esso dedicato e siamo pronti a considerare le proposte di altri colleghi.

Una simile iniziativa, già difficile di per sé, lo è a maggior ragione in Italia. Il modello di ricerca di stato confezionato dall’Anvur, perfino in un momento come questo, è costruito prevalentemente se non esclusivamente su database chiusi, editori commerciali, liste oligopolistiche imposte d’autorità. Ma proprio perché la sperimentazione è difficile, è necessario farla, e farla ora: perché l’uso pubblico della ragione applicato allo scopo di migliorare un bene comune dell’informazione dovrebbe essere “meno scientifico” di un marchio apposto da funzionari nominati dal governo?

ResearchBlogging.org Spencer Bliven, & Andreas Prlić (2012). Circular Permutation in Proteins PLoS Comput Biol, 8 (3) DOI: 10.1371/journal.pcbi.1002445

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Le riviste di scienze politiche

Anche per l’area 14 è stata resa nota la lista delle riviste da considerarsi eccellenti ai fini della valutazione della ricerca. Il documento dell’Anvur  contiene solo un elenco di riviste, costruito sulla base di alcuni criteri generali. La lista qui sotto è limitata alle riviste di scienze politiche. Il grassetto mette in evidenza le poche che non sono ad accesso chiuso. I link, naturalmente, sono stati aggiunti da noi.

Fascia A
Filosofia politica
Politica e Società
Rivista Italiana di Scienza Politica
Rivista Italiana di Politiche Pubbliche

Fascia B
Afriche e Orienti
Analisi e Diritto
Annali della Fondazione Luigi Einaudi
Ars Interpretandi
Comunicazione politica
Democrazia e diritto
Fenomenologia e Società
Filosofia e Questioni Pubbliche
Heliopolis
Hermeneutica
Il Pensiero politico
Iride
ISPI – Relazioni Internazionali
Journal of Constitutional History / Giornale di Storia Costituzionale
Jura Gentium
La Cultura
La Società degli Individui
Le Carte e la Storia
Materiali per una Storia della Cultura Giuridica
Meridiana. Rivista di storia e scienze sociali
Paradigmi
Parolechiave
Passato e presente
POLENA
Politica Internazionale
Quaderni di scienza politica
Quaderni fiorentini
Ragion Pratica
Storia amministrazione costituzione
Teoria politica
Vita e pensiero

Fascia C
Amministrare
Archivio Storico per la Calabria e la Lucania
Archivio Storico per le Province Napoletane
Bologna Center Journal of International Affairs
Clio. Rivista trimestrale di studi storici
Cosmopolis
Frontiera d’Europa
Il Politico
Istituzioni del federalismo
Millepiani
Metabasis
Notizie di Politeia
Pace Diritti Umani – Peace Human Rights
Quaderni dell’Osservatorio Elettorale
Quaderni di Relazioni Internazionali
Quaderni Stefaniani
Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto

Rivista Italiana di Comunicazione Pubblica
Rivista Trimestrale di Scienza dell’Amministrazione
Scienza & Politica
Storia in Lombardia

I valutatori affermano di aver prodotto questa selezione sulla base di una revisione paritaria da parte di referee stranieri in dialogo con le società di studi. Pur essendo socia della Società italiana di filosofia politica, non sono stata invitata a partecipare alla conversazione. Né, per l’avventurosa segretezza della gerarchia ministeriale, conoscerò mai i nomi e i giudizi dei revisori.

Fra il 2005 e il 2011 il “Bollettino telematico di filosofia politica” ha sperimentato una revisione paritaria in triplo cieco, più equa sia di quella in doppio cieco raccomandata dall’Anvur alle riviste, sia di quella praticata in prima persona dall’Anvur, nella quale gli unici ciechi sono i valutati. In entrambi i casi, il potere di chi sceglie i revisori anonimi è opaco e senza controllo.  Per temperarlo, il nostro sistema, Hyperjournal, permetteva agli autori di rivelarsi solo dopo il giudizio. Questo non è bastato a farci includere nella lista dell’Anvur.

Quanto al nostro esperimento, non solo è socialmente fallito – pochissimi desiderano davvero sottoporsi a un processo così rischioso – ma anche tecnologicamente superato. In rete la revisione paritaria si può fare ex post, all’aperto, anziché ex ante, al chiuso, come nell’accademia dei morti viventi. Per questo, mentre le riviste italiane venivano indotte d’autorità ad adottare un cerimoniale che la ricerca in rete sta lasciandosi alle spalle, siamo diventati un overlay journal. Ormai, fra le sette pubblicazioni in inglese più citate, a fare concorrenza a Nature o Science, ci sono tre archivi disciplinari privi di referaggio ex ante: Repec, ArXiv e Social Science Reseach Network.

Altri criteri imposti dalle gerarchie dell’Anvur possono però essere apertamente analizzati.  Sul requisito generico dell'”accessibilità” via rete devo purtroppo rimandare a quanto ho già scritto sulle riviste di filosofia: i valutatori dell’area 14 sono riusciti a fare di peggio, escludendo tutte le pubblicazioni italiane presenti nella Directory of Open Access Journals.  Ma a proposito del criterio degli indici h delle riviste, che l’Anvur dice di aver rilevato su Google Scholar tramite Publish or Perish, dobbiamo farci una domanda: perché non sono stati resi pubblici i dati usati per decidere?

Incuriosite da questa mancanza, Brunella Casalini e io abbiamo ricostruito quei dati e li abbiamo analizzati. Il frutto del nostro lavoro è in questo documento, ospitato presso l’archivio Marini,  che mettiamo a disposizione di tutti, assieme con il nostro database (csv, ods), e con una classifica delle riviste per indice h, che fa capire a colpo d’occhio quanto sia stato tenuto in conto nei diversi settori disciplinari. Abbiamo scoperto parecchie cose bizzarre – per esempio un conflitto d’interessi talmente clamoroso da essere spiegabile solo con un errore di calcolo. Per permettere a chiunque di verificare la nostra ricerca, abbiamo messo in questo enorme file zippato tutto quello che è comparso davanti ai nostri occhi quando abbiamo  interrogato Scholar.

Non c’interessa dimostrare, in conflitto d’interessi, che avremmo meritato di stare nella lista, ma che il principio stesso della lista è sbagliato, perché produce immobilismo, oligopolio e oligarchia, in un momento in cui fare esperimenti sulle pubblicazioni è parte della ricerca e della sua libertà, tutelata dall’articolo 33 della nostra Costituzione. L’ha spiegato benissimo Antonio Banfi recentemente su Roars,  l’avevo scritto anch’io in tempi non sospetti. Siamo, tuttavia, molto contente che la lista includa alcune riviste liberamente accessibili.  Per capire perché quelle sono scientifiche mentre la nostra no basta un piccolo click.

 

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