Scienza aperta: solo una questione di adempimenti?

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I would prefer not toPaola Galimberti ha reso pubblico su Zenodo.org un breve articolo, Open Science: cambiamento culturale cercasi, per offrire un resoconto ragionato del modo in cui  l’università statale di Milano ha perseguito e va perseguendo l’apertura della scienza.

La Statale, negli anni. ha reso disponibili strumenti, quali gli archivi istituzionali per il deposito di testi e dati della ricerca e una piattaforma per pubblicare riviste ad accesso aperto e gratuito sia dal lato del lettore sia da quello dell’autore, ha deliberato discipline, e ha monitorato e diffuso i dati sui loro effetti e sui loro costi. Buona parte delle amministrazioni universitarie si interessano di scienza aperta per lo più in virtù di quanto imposto dai bandi dell’Unione Europea, in Italia indebitamente assunti a surrogati del finanziatore ordinario. L’ateneo milanese ha dunque l’ulteriore merito di averla perseguita in un ambiente che le è indifferente se non ostile. L’articolo, però, non è stato scritto per celebrare l’efficienza milanese, bensì per chiedere se – a Milano e altrove – sia possibile superare la logica dell’adempimento amministrativo per trasformare la scienza aperta in una pratica di ricerca diffusa e condivisa.

Quando, all’inizio dell’età moderna, la scienza cominciò la sua rivoluzione, la  pubblicità – come strumento di discussione e di falsificazione –  s’impose senza aver bisogno di essere imposta. Perché oggi, invece, viene perseguita come un adempimento amministrativo esteriore – così esteriore che pochissimi si sono resi conto che certi contratti detti trasformativi trasferiscono semplicemente in scrittura l’oligopolio in lettura di una manciata di editori scientifici commerciali?

La scienza aperta, se presa sul serio, è tale non solo nel suo medium ma anche nei suoi fini, entro un orizzonte che supera la durata del corpo e del nome del singolo  studioso: la conversazione non può e non deve aver conclusione perché chi indaga è un essere finito destinato a essere superato.  Anche per questo  – perché agli esseri finiti è difficile fare i conti con la propria fine – è stato semplice addestrare i ricercatori alla logica dell’adempimento burocratico, con incentivi e disincentivi individuali a brevissimo termine, ancorché di valore scarso o addirittura controproducente. L’università di Milano persegue l’open science con un certo grado di democrazia – si pensi per esempio alla sua commissione per l’accesso aperto che, invece di essere emanazione di un rettore-monarca, è composta dai delegati dei dipartimenti – ma che cosa ci impedisce di rappresentarla, entro la camicia di forza burocratica che impoverisce e comprime la ricerca italiana, come un mero esempio di efficienza amministrativa, ancora interamente prigioniero della logica dell’adempimento?

A questa domanda, proposta da chi scrive, ha tentato di rispondere Roberto Caso:

L’università di Milano ha devoluto risorse e investito sistematicamente in un’organizzazione favorevole alla scienza aperta; l’ha fatto con un processo trasparente e, soprattutto, dedica tempo e spazio alla formazione e all’informazione dei ricercatori.
Ciò dovrebbe essere sufficiente a convincerli che la scienza aperta è l’unico modo di fare scienza. In altri termini, dovrebbe scavare la differenza tra adempimento burocratico e obbligo morale (o anche semplice opportunità per se stessi e per tutti). Ma i ricercatori vivono nel mondo dell’università-azienda e hanno ormai talmente metabolizzato la logica dei premi e punizioni da non riuscire a concepire un mondo diverso. Anche quando premi e punizioni non sono istituzionalizzati a livello di ateneo il maggior incentivo a pubblicare in OA è la speranza di essere più citati.
Paola Galimberti ha più volte evidenziato che a Milano molte cose sono state fatte perché l’ateneo aderisce a LERU che applica ai suoi soci la logica di premi, punizioni e misure [ancorché solo reputazionali – N.d.R.]. Il che non sorprende e chiude il cerchio.

La discussione sull’articolo di Paola Galimberti, anteriore alla sua pubblicazione, è qui riportata sia perché rientra nella nostra prassi di revisione paritaria aperta, sia perché chi vi ha partecipato è convinto che la questione dell’open science, se emancipata  dalla logica dell’adempimento burocratico, potrebbe aiutare a ridiscutere il senso e il ruolo dell’università, almeno per chi non si accontenta di ridurla “a una mera strutture contabile, dove alla gerarchia priva di autorità di gruppi accademici che si azzuffano nella difesa d’interessi minimali si affiancano la degenerazione e la corruzione caratteristiche degli apparati aziendali e amministrativi“.

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Dissonanze: Giuseppe Valditara e la valutazione dell’università e della ricerca

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MusicistiIl Circolo universitario “Giorgio Errera” ha messo a disposizione di tutti un testo che il senatore Valditara, capo dipartimento per la formazione superiore e la ricerca presso il MIUR, aveva inviato ai rettori per chiedere loro osservazioni e suggerimenti. Il documento, nato come corrispondenza di un funzionario con un’associazione privata di funzionari governativi de facto, è un atto di uso della ragione soltanto privato. Chi desidera discuterlo pubblicamente dovrà essere consapevole che, anche in questo caso, il suo uso pubblico della ragione potrebbe rimanere unilaterale.

1. Ricercatori da competizione

I sistemi di valutazione rappresentano uno strumento indispensabile per il Decisore politico, sia per il governo del sistema sia per la corretta allocazione delle risorse, sia, infine, per la competizione sulla platea internazionale.

Reso in termini meno impersonali questo preambolo informa che il “decisore politico” governa il sistema dell’università e della ricerca, finanzia i suoi vari rami – ”risorse scarse vanno attribuite premiando chi le usa in modo virtuoso” – e persegue la competizione internazionale, impiegando la valutazione della ricerca per attuare tali scopi.

La valutazione della ricerca è dunque valutazione di stato, in primo luogo in quanto strumento al servizio del governo per i suoi scopi amministrativi e gestionali, e in secondo luogo in quanto processo estrinseco alla ricerca stessa tanto da essere deputato a organi specifici. A questa valutazione di stato corrisponde una scienza di stato il cui fine è “la competizione”.

In verità la premessa del documento annovera fra i fini anche i “soddisfacenti risultati in termini di qualità della ricerca e della didattica”. Ma se chiediamo: “soddisfacenti per chi?” “soddisfacenti secondo quali criteri?” ci rendiamo conto che la misura pubblica della soddisfazione è principalmente l’attitudine alla competizione. Secondo Valditara, gli effetti benefici della valutazione di stato della ricerca come si è svolta finora in Italia sono stati infatti i seguenti:

  • una maggiore conoscenza del sistema;
  • il fatto che “la ricerca scientifica italiana risulta in posizione elevata nei Ranking internazionali”;
  • il risanamento dei bilanci delle università “con fra l’altro una spesa per il personale che è nella pressoché totalità dei casi inferiore all’80% in rapporto all’FFO”.

I dati grezzi su cui si è basata la valutazione di stato non sono liberamente disponibili: agli italiani sono arrivate classifiche basate su dati e responsi prevalentemente riservati, comprendenti opere ad accesso chiuso temporaneamente ospitate da archivi neri, indici citazionali ricavati da banche dati estere, oligopolistiche e proprietarie come Clarivate Analytics e Scopus; ai ricercatori sono pervenuti giudizi immotivati di anonimi funzionari d’indiretta nomina governativa, per accedere ai cui atti è stato necessario ricorrere alla giustizia amministrativa. La maggior conoscenza del sistema, se mai c’è stata, è rimasta nei forzieri dell’amministrazione, inaccessibile ai cittadini in generale, e ai ricercatori indipendenti in particolare.

Quanto alle classifiche internazionali – quali delle molte? – la posizione italiana è pressoché invariata negli ultimi due decenni: nelle serie storiche di Scimago, per esempio, che cominciano nel 1996 per estendersi fino ai nostri giorni, l’Italia oscilla costantemente fra il settimo e l’ottavo posto.

Il “risanamento” dei bilanci delle università italiane, infine, non è certo dovuto alla valutazione di stato, ma a una politica di drastici tagli e blocchi delle assunzioni destinata a persistere: il documento Valditara, infatti, tratta la “scarsità delle risorse” non come l’effetto di una decisione politica a cui egli stesso ha contribuito, bensì come una condizione naturale.

Resta, dunque, la competizione: ma in che senso e a quale scopo? Nel documento si parla di “competizione sulla platea internazionale”, subito prima di menzionare, genericamente, i “ranking”; si dice che la valutazione di stato ha stimolato “la competizione identificando i cosiddetti ‘inattivi’”,1 che la farraginosità e incoerenza della normativa attuale rende “non competitiva” la ricaduta della ricerca sulla società, vale a dire la “competitività e sviluppo da essa derivati”, e che però non si dovrebbero “pretendere gli eccessi di competitività della ricerca e dirigismo di oltreoceano”.

Per Adam Smith la competizione sul mercato non era fine a se stessa, ma serviva a mantenere i prezzi sotto controllo, evitandone la massimizzazione a danno degli acquirenti che sarebbe seguita al monopolio.2 Il documento Valditara sembra invece usarla in un senso generico, orientandola su criteri differenti e senza preoccuparsi di indicarne i fini. Il professore “inattivo” sarebbe incentivato a scrivere qualcosa, distogliendosi dall’eventuale lucrosa libera professione che assorbe il suo tempo, in virtù della gara indetta dalla valutazione di stato; la prevalenza nella competizione internazionale viene misurata da indeterminate classifiche che vengono assunte come autorevoli; la ricerca, ricadendo sulla società, la rende “competitiva”.3

Per che cosa si competa, un bollino da parte della valutazione di stato italiana, un avanzamento in classifiche internazionali stilate da intraprese commerciali private in base a dati e criteri discutibili,4 la preponderanza militare o la supremazia commerciale, e se la competitività sia effettivamente in grado di produrre ricercatori la cui specialità non si riduca all’abilità di soverchiare gli altri, sembra indifferente: la competizione, movente universale del genere umano, è in se stessa uno scopo. “Guerra è sempre”. Quanto per il padre dell’economia politica contemporanea era solo un mezzo da applicarsi in un mercato di oggetti fungibili5 qui diventa un fine non bisognoso di giustificazione. Con un’evoluzione familiare ai lettori di Weber,6 mezzi e fini si sono invertiti: dobbiamo – pur senza eccessi transatlantici – essere competitivi anche se non sappiamo perché.

2. L’autonomia è eteronomia

Il documento di Valditara – già relatore della cosiddetta legge Gelmini – è stato apprezzato per le sue critiche all’ANVUR, l’ente “inquisitorio e burocratico” attualmente preposto alla valutazione di stato, e alla sua “dittatura dell’algoritmo”, pur instaurata su un sistema come quello italiano, che avrebbe una “scarsa attitudine alla valutazione dei risultati” e una “scarsa attenzione al merito”, secondo il principio “ti do poco, pretendo poco e non ti controllo”.

L’introduzione dell’ANVUR avrebbe condotto dalla passata “autonomia irresponsabile” a una “autonomia controllata” ipernormata e deresponsabilizzante, che ha irrigidito, appesantito e distorto i processi, alimentando comportamenti opportunistici e rinchiudendo la ricerca entro perimetri disciplinari impermeabili. Il passo successivo dovrà essere un’”autonomia responsabile”, a cui dovrà corrispondere:

una valutazione non solo prescrittiva, ma con una prevalenza di indicazione di buone pratiche, fatta di poche prescrizioni, che abbia nella flessibilità il suo scopo e nella certezza del premio e della sanzione il suo strumento forte di induzione al risultato positivo, con regole ed indicazioni legate alle diversità delle singole Aree scientifiche e dei singoli Territori in cui la formazione e ricerca incidono e si sviluppano, che tenga conto anche delle variabili legate alle differenti situazioni e modalità di espressione della scienza e di produttività e redditività immediata o dilazionata nel tempo della stessa.

Per autonomia di solito s’intende la capacità di darsi leggi proprie e d’imporsene il rispetto. Chi, infatti, non riesce a seguire le norme che si è dato da sé, perché deviato da forze esterne, cessa di essere autonomo per diventare eteronomo. Nella prosa ministeriale l’autonomia cosiddetta irresponsabile designa però uno stato di violazione della norma amministrativa che limita la spesa per il personale all’80% del finanziamento ordinario, l’autonomia cosiddetta controllata è la sottomissione dell’università a un regime “iper-normato e iper-controllato”, e l’autonomia cosiddetta responsabile sembra una specie di sintesi dialettica nella quale vigeranno norme più flessibili e variamente adattate a discipline e territori, del cui rispetto però gli enti saranno chiamati a rispondere. In nessuno di questi tre casi le università operano secondo leggi proprie: la loro condizione può essere detta autonoma solo se la parola “autonomia” viene intesa come sinonimo di una “sregolatezza” disciplinabile solo tramite l’imposizione di norme esterne. Ma se le regole a cui le università sono soggette nei loro tre tipi di “autonomia” sono esterne, la loro condizione propriamente non è di autonomia, bensì di eteronomia.

Anche nella cosiddetta autonomia responsabile la “certezza del premio e della sanzione” è possibile solo in presenza di norme esterne non del tutto flessibili né esclusivamente indicative, bensì con un nucleo imperativo e rigido, in modo tale che non vi siano margini d’arbitrio nel riconoscimento di castighi e regalie. Coerentemente, nel progetto ministeriale di autonomia eteronoma, l’unica differenza fra il regime del controllo e quello della responsabilità potrà dunque essere nel grado e non nella specie: la ricerca pubblica rimarrà soggetta alla valutazione di stato, ma verrà sottoposta a una quantità minore di regole, eventualmente adattate su base disciplinare e territoriale.

3. Il ministero dell’amore

Valditara riconosce che la valutazione di stato, indifferentemente imposta da governi di destra e di centro-sinistra,7 ha danneggiato la ricerca italiana, sottoponendola a norme che hanno ben poco a che vedere con la scienza.8 Allo stesso tempo, però, il suo documento assume che la qualità della ricerca non possa essere apprezzata informalmente dalle comunità degli studiosi, ma vada determinata da un’autorità esterna e secondo scopi diversi dall’avanzamento del sapere, quali il perseguimento di un’indeterminata competitività. Forse la sua autonomia eteronoma soggetta a un morbido e duro regime di premi e di castighi è molto più l’espressione di una dissonanza cognitiva che un consapevole espediente propagandistico.

Valditara ha contribuito a disegnare un’università nella quale i tre principi della riforma humboldtiana sono applicati a rovescio: nel sistema della valutazione di stato chi fa ricerca non è più solo, perché “iper-normato e iper-controllato” e non è più libero, perché la bibliometria lo condiziona a scegliere argomenti alla moda,9 o comunque prediletti nelle riviste delle liste sanzionate dal governo, e, soprattutto, non può essere più cooperativo, perché – immerso in una competizione bandita e giudicata da autorità amministrative e commerciali esterni – non può più sentirsi impegnato assieme agli altri per uno scopo comune in un comune spazio di discussione e di esperienza. In cambio, però, alle università italiane viene riconosciuto proprio quanto Humboldt negava loro, vale a dire un margine di discrezionalità amministrativa nelle assunzioni di professori e ricercatori.

Se, nel documento ministeriale, sostituiamo al termine “autonomia” l’espressione “discrezionalità amministrativa in materia di reclutamento” otteniamo un argomento più coerente di quello esposto dalla sua lettera: una discrezionalità irresponsabile aveva trasformato le università in stipendifici, una discrezionalità controllata ha costretto le loro amministrazioni in una gabbia burocratica, una discrezionalità responsabile lascerebbe un margine di libertà maggiore, per poi chiamare le istituzioni a rispondere non sui processi, bensì sui loro esiti. In questo impianto teorico non si può pretendere di più: il principio della competitività induce a guardare con sospetto l’autovalutazione intrinseca alla ricerca stessa, compiuta in seno a una comunità scientifica vigile e aperta, e proprio per questo consapevole che l’intento di elaborare teorie scientifiche solide non è affatto identico a quello di prevalere sugli altri.

4. Il capro espiatorio

Come prendere le distanze da una valutazione istituita con la cooperazione della propria parte politica e della cui natura dispotica e retrograda si è forse interiormente consapevoli, senza però mettere in discussione la valutazione di stato in generale?

Il documento Valditara emancipa l’Anvur, autorità amministrativa di nomina governativa i cui criteri e parametri sono oggetto di decreti ministeriali, dalla sua dipendenza dal potere esecutivo, per attribuirle la responsabilità delle “distorsioni” e dei “costi materiali e umani” dovuti alla valutazione di stato: dalla moltiplicazione di articoli inutili finalizzati esclusivamente a superare soglie quantitative, alla predisposizione di indici di riviste che recintano campi disciplinari artificiosi e sterili, all’impiego di algoritmi aleatori e spesso incomprensibili che solo accidentalmente dicono qualcosa della qualità della ricerca, fino all’enorme spreco di tempo inflitto da un coacervo di adempimenti designati in forma di acronimi. Se la valutazione di stato, anziché limitarsi, ex post, agli esiti o ai prodotti, ha insistito con invadenza sui processi, la colpa è dell’Anvur e del modo in cui è stata intesa e costruita.

L’Agenzia, per una serie di errori concettuali, in parte dovuti appunto ad una declinazione Regolamentare molto articolata e complessa rispetto alla legge istitutiva (DPR 1 febbraio 2010 n 76) ed in parte a comportamenti opportunistici atti a scaricare su un soggetto tecnico e non politico le decisioni sgradevoli di premialità e sanzione, si è trasformata nel tempo in un ente inquisitorio e burocratico sempre più legato alla valutazione dei processi (valutazione ex ante ed in itinere) piuttosto che a quella dei prodotti (valutazione ex post).

Nelle leggi 1/2009 e 240/2010 di riforma del sistema universitario e della ricerca, l’allora Governo in carica, aveva chiaramente indicato che un sistema di valutazione del prodotto era lo scopo dell’intero sistema di analisi della formazione e ricerca scientifica e della competitività e sviluppo da esse derivanti. Un OdG dell’allora sen. G. Valditara (relatore per il Governo della L 240/10) identificava, come si è anticipato, proprio nella valutazione di prodotto (ex post) il significato di tutto il sistema di valutazione.

Anche chi condivide, da tempi non sospetti, buona parte delle critiche di Valditara all’Anvur può però chiedersi se questo ordinamento inquisitorio dipenda soltanto dal particolare modo in cui si è costruita e usata l ’agenzia, e non sia invece l’esito difficilmente evitabile di una valutazione di stato fondata su criteri esterni  alla ricerca stessa, da determinare e imporre amministrativamente .

L’Anvur, a differenza del Consiglio Universitario Nazionale, non solo non viene eletta dalla comunità dei ricercatori, ma chi è al vertice della sua piramide, nominato dal governo, nomina a sua volta i valutatori disciplinari che popolano i suoi gradini inferiori, sulla base di un Führerprinzip che discende via via dall’apice fino all’ultimo dei referee anonimi da trenta euro al colpo. E in tutta la sequenza il rapporto dei nominati con l’autorevolezza scientifica, o almeno con la competenza nel campo della valutazione o con l’assenza di conflitti d’interessi, è soltanto accidentale, come scriveva, in tempi non sospetti, il sociologo Pier Paolo Giglioli nella sua lettera di rifiuto all’Anvur. Anche la divisione delle riviste in fasce gerarchiche e disciplinarmente segregate non è frutto di un abuso dell’agenzia, bensì di decisione politica imposta da decreti ministeriali: una decisione politica pensata per valutare non dei processi, bensì dei “prodotti della ricerca” – i testi – avulsi dai loro contesti di discussione e sottoposti a computi numerici variamente oscuri e contestabili .

L’ erezione dell’Anvur a – poco innocente – capro espiatorio è una mossa felice. Ha infatti indotto alcuni rettori a difenderla pubblicamente in quanto autorità indipendente in grado di produrre una “verifica affidabile, priva di logiche di arbitrarietà locali”,10 e a dar dunque involontariamente conferma a una rappresentazione altrimenti discutibile.

Valditara, includendo fra gli esiti della valutazione di stato la “deresponsabilizzazione completa del singolo e del sistema”, ha toccato un nervo scoperto. Uno studioso maggiorenne dovrebbe capire da sé se un testo è scientifico o no; e, a maggior ragione, un rettore legittimato da un’elezione libera e da un dibattito pre-elettorale franco e leale non dovrebbe aver bisogno di bollini governativi per giustificare scelte presumibilmente già discusse e apprezzate dalla maggioranza che ha votato a suo favore.

5. Un cerchio da quadrare

Alcune delle proposte di riforma del documento Valditara comportano solo un trasferimento di funzioni: di per sé, far passare la competenza sull’accreditamento dei corsi di studio e sulla definizione delle soglie per l’abilitazione scientifica nazionale dall’Anvur al Miur non cambia granché se è il padre a farsi ministro della medesima dittatura dell’algoritmo prima delegata al figlio. Altre, invece, meritano di essere classificate analiticamente, non tanto per i loro dettagli tecnici, quanto perché possono essere lette come ispirate a premesse teoriche diverse e contrastanti.

La tabella che segue contiene esclusivamente citazioni letterali del documento, in modo da ridurre la mediazione interpretativa esclusivamente a quella compiuta da selezione e tassonomia.

A B
“Occorre rivedere le modalità di composizione del comitato direttivo dell’Anvur. A questo riguardo si dovrebbe passare ad una agenzia di valutazione del sistema universitario con un CdA strategico che imposti (in accordo con il Decisore politico) le regole e gli indirizzi di gestione e che sostituisca l’attuale CD (in cui componenti diventano di fatto esclusivamente dediti alla valutazione del sistema di cui hanno fatto parte). Il CdA invece dovrebbe avere anche compiti di riflessione sul sistema di valutazione. A questo si dovrebbe aggiungere una componente Tecnico-Amministrativa che dovrebbe essere gestita da un Direttore Generale competente e che dovrebbe sviluppare le modalità di attuazione del controllo e di verifica.” “Riconoscimento dell’esclusiva competenza sulla valutazione dei singoli docenti e ricercatori e del personale accademico alle istituzioni universitarie e agli enti di ricerca, nel rispetto dell’autonomia didattica, scientifica e organizzativa riconosciuta dalla Costituzione.”
“Valutazione della ricerca dei dipartimenti in base a tutta la produzione scientifica, fatta in modo automatico (vedi ANPRePS)” Riconoscimento “dell’esclusiva competenza del docente sulla valutazione degli apprendimenti e dei comportamenti del singolo studente, quale espressione irrinunciabile e qualificante della professionalità e della libertà di insegnamento”.
“Si dovrebbero, inoltre, riformare gli organismi di consulenza sulla ricerca come il CNGR (ed il mai attivato CEPR) e di conseguenza modificare il sistema di valutazione dei progetti di ricerca (PRIN, PON ecc) anche al fine di costituire un coordinamento (Cabina di Regia) dell’allocazione delle risorse per la ricerca scientifica (vedi allegato)” “Si dovrebbe attivare l’Anagrafe dei Professori, Ricercatori e Prodotti Scientifici (ANPRePS prevista dalla legge 1/2009 e basata sulla consultazione pubblica svolta su tutti i docenti e ricercatori nel 2013-14) che con un unico strumento consentirebbe in automatico di avere tutti i dati di tutti i docenti e della loro produzione scientifica.”
“Revisione e depotenziamento degli strumenti valutativi basati su esclusivi indicatori numerici” “Introduzione di strumenti di semplificazione volti a una significativa riduzione degli adempimenti amministrativi a cui sono soggetti i professori e ricercatori .“
“Una rivista dotata di comitato scientifico internazionale è già idonea ad accreditare le pubblicazioni ospitate.” “Si deve eliminare la distinzione fra fasce di riviste.”
“Si dovrebbe imporre a tutti i docenti e ricercatori l’iscrizione obbligatoria alla banca dati dei valutatori REPRISE al fine di avere costantemente a disposizione per le varie finzioni tutti gli attori del sistema e di avvicinare tutti al sistema valutazione della ricerca.” “L’attuale sistema dei PRIN non garantisce l’imparzialità della valutazione che deve essere trasparente, fatta cioè da valutatori che siano conoscibili ed eventualmente ricusabili e che non si limitino a discrezionali giudizi sintetici senza una motivazione puntuale, coerente e chiara.”
“Un sistema di governo/coordinamento centrale del sistema ricerca dovrebbe, senza pretendere gli eccessi di competitività della ricerca e dirigismo di oltreoceano, adattare al modello italiano il modello EU, in cui la politica di governo ha da un lato la visione complessiva delle risorse finanziarie e umane disponibili e dall’altro ha il diritto e il dovere di assegnare risorse in funzione delle esigenze del sistema Paese. A titolo di esempio con una percentuale rilevante (tra il 70 e l’80%) alla ricerca strategica, che risponda alle esigenze del Paese, alle sue capacità, alle sue potenzialità e alle sue sfide sociali;” “lasciando la restante percentuale a bandi competitivi legati alla ricerca di base (curiosity driven) dalla quale, come detto, provengono le così dette grandi innovazioni ed avanzamenti scientifici e sociali.”

 

I brani della colonna B, separatamente presi, disegnano un sistema per lo più compatibile con l’articolo 33 della Costituzione, che riconosce l’autonomia della didattica e della ricerca e riduce il carico amministrativo gravante sugli studiosi, ma preoccupandosi di assicurare una legalità e trasparenza dei processi assente nel regime della valutazione anonima e degli archivi inaccessibili: perfino l’ANPRePS potrebbe essere uno strumento per questo scopo, se venisse finalmente attivata, col ricongiungimento di quanto già esiste, e fosse aperta al pubblico.

I brani della colonna A, parte del medesimo documento, disegnano un sistema della ricerca concepito come un’impresa di capitalismo di stato al servizio di scopi determinati di volta in volta dal governo, sottoposto a metodi di valutazione automatici e controllato da un consiglio d’amministrazione. Il fine, qui, è la soluzione di problemi esterni alla ricerca, individuati dal “decisore politico” e non l’edificazione di nuove prospettive e cornici concettuali o la definizione di nuovi e vecchi oggetti di conoscenza.11 Questa tecnologia di stato,12 che concede alla ricerca di base uno spazio ridotto, non superiore al 30% del finanziamento complessivo, cerca la sua legittimazione nelle politiche europee della conoscenza e ne condivide i limiti.13 Essa, inoltre, essendo al servizio di utilità definite dal governo, è esposta al rischio di delegittimare sia se stessa sia lo stato,14 proprio perché la sua valutazione è affidata a un consiglio d’amministrazione le cui mire sono in primo luogo politico-economiche mentre l’interesse per il sapere è trattato come una “curiosità” da confinarsi in un ristretto recinto.

Il documento Valditara è dissonante perché non si ispira esclusivamente all’ideale della scienza di stato (A), bensì contiene anche significativi riconoscimenti (B) di un modello più antico, fondato sull’autonomia della ricerca. Ma proprio questa sua incoerenza – non si sa se dovuta a dissimulazione propagandistica o a un principio di palinodia – lo rende politicamente interessante e meritevole di essere preso sul serio.15

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Wilhelm von Humboldt: un frammento di università

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Brett Jordan, Central library of the Humboldt University of Berlin Dopo la traduzione ad accesso aperto del celebre frammento di Wilhelm von Humboldt dedicato all’università, rendiamo ora disponibile un ipertesto che lo spiega passo passo. Lo scopo del lavoro, pensato per gli studenti dell’università di Pisa ma allo stesso tempo parte di un progetto più ampio, è qualcosa di più umile dell’originalità: aiutare chi non è particolarmente familiare con la filosofia classica tedesca a leggere uno scritto la cui raffinatezza e complessità è stata più oscurata che rischiarata dal suo mito. La presenza di una traduzione sotto licenza Creative Commons pubblicata in modo da essere commentabile capoverso per  capoverso facilita di molto questo compito

Il progetto di Humboldt  è filosofico in un senso non disciplinare, senza essere un saggio di  filosofia. Può, anzi, interessare chiunque, oggi, faccia ricerca: prima di trattare i princìpi di solitudine e libertà come relitti di un’università elitaria e autoreferenziale converrebbe forse spendere del tempo a riflettere sul loro significato e a chiedersi se vale ancora la pena discuterli e negoziarli, o se invece dobbiamo semplicemente occuparci, attivamente e soprattutto passivamente, di efficienza organizzativa.

Maria Chiara Pievatolo Wilhelm von Humboldt: un frammento di università

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Valutazione di stato e libertà della ricerca: una riflessione filosofico-giuridica

Particolare della Scuola di Atene di RaffaelloLa revisione paritaria (peer review) è una parte importante della procedura che conduce alla pubblicazione di un articolo in una rivista scientifica tradizionale, costruita e pensata per la tecnologia della stampa. A due o più studiosi di campi disciplinarmente pertinenti, selezionati discrezionalmente dalla redazione della rivista e protetti dall’anonimato, viene chiesto di pronunciarsi ex ante sulla pubblicabilità di un articolo. Quanto i revisori scartano non vede la luce; e, analogamente, rimangono nell’ombra i loro pareri e la loro eventuale conversazione con gli autori, che ha luogo solo per interposta persona. La revisione paritaria aperta ed ex post consente invece di rendere pubblica l’intera discussione e di riconoscere il merito dei revisori, i quali, come gli autori, rinunciano all’anonimato.
In questo spirito, il Bollettino telematico di filosofia politica propone due articoli:

Il primo testo critica la tesi esposta da Andrea Bonaccorsi nel recente La valutazione possibile. Teoria e pratica nel mondo della ricerca, Il Mulino, 2015, condensabile nella seguente affermazione: la valutazione è espressione degli imperativi istituzionali della scienza così come teorizzati da R.K. Merton. Per Roberto Caso, l’autore legge l’opera mertoniana in modo distorto e parziale e trascura la dimensione giuridica del rapporto tra norme formali poste dallo Stato nel processo valutativo e regole informali della scienza: è difficile trasformare quanto in Merton era l’ethos condiviso di una comunità scientifica autonoma in norme di diritto amministrativo senza alterarne profondamente la natura.  Infatti, il disegno della valutazione che Bonaccorsi rappresenta  come democratico, dialogico, condiviso e trasparente collide frontalmente con la prassi italiana dell’ANVUR, motore immobile di orrori giuridici nonché di un gigantesco contenzioso che consegna la vera e ultima valutazione ai giudici.

Il secondo testo si interroga sulle radici filosofiche di questi orrori. Per distinguere la riflessione della ragione teoretica e pratica dagli elementi empirici, prende le mosse da una concessione: fa finta  che il sistema di valutazione teorizzato da Bonaccorsi sia una fotografia – mertonianamente – fedele del modo in cui la comunità scientifica valuta se stessa. Ma, perfino con questa assunzione, la sua costruzione ha come esito un sistema di valutazione praticamente dispotico e teoreticamente retrogrado. Il sistema è dispotico perché trasforma un ethos informale e storico in una norma di diritto amministrativo fissa, che cessa di essere oggetto di scelta da parte della comunità scientifica; ed è retrogrado perché, stabilendo questa norma, cristallizza, come nel castello incantato della Bella addormentata nel bosco, l’evoluzione in un fermo-immagine non più superabile senza ulteriori interventi amministrativi. A questo argomento principale si aggiungono alcune parti accessorie: la prima si occupa della questione, proposta da Bonaccorsi, della verificabilità empirica di alcune tesi dei suoi critici; la seconda prende in esame un campione di citazioni addotte dall’autore a sostegno di alcuni passaggi argomentativi importanti.

Entrambi i contributi sono ispirati dalla prospettiva ideale e critica della scienza aperta, che è già in grado di orientare, perfino con gli strumenti attualmente esistenti, un sistema di valutazione più conforme al principio costituzionale della libertà  delle arti, delle scienze e del loro insegnamento.

Le istruzioni per chi desidera partecipare alla revisione paritaria aperta si trovano qui.

È ora possibile commentare entrambi gli articoli anche su SJScience.org, qui e qui.

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Molto, in fretta, male: una carta per l’ineccellenza

Toccato più tardi degli altri settori, il mondo universitario ha adottato l’ideologia dell’ “eccellenza” col fervore dei neofiti. Nella scia degli accordi di Bologna, che sancivano, principalmente, l’introduzione del principio della concorrenza nelle università europee, sembrava cruciale curare la propria immagine, trasformare la propria istituzione in una macchina da guerra in grado di assorbire i migliori crediti, i migliori docenti e ricercatori, il maggior numero di studenti e di rafforzare il proprio posizionamento nazionale e internazionale. In un contesto di penuria e di crisi, la preoccupazione di un rapido ritorno sugli investimenti contribuiva inoltre a rendere sistematica una amministrazione della ricerca e dell’insegnamento basata su indicatori. [Charte de la désexcellence. 2014]

Antonello_da_Messina_-_St_Jerome_in_his_study, Wikimedia commons L’ondata di “riforme” che tuttora investe l’università ha condotto gli studiosi a occuparsi di più di comunicazione e di bibliometria, sacrificando – in una sorta di feticismo – al culto dell’eccellenza misurata da indicatori esterni, il perseguimento della qualità oggettiva e soggettiva del lavoro di ricerca.  Fare ricerca innovativa, però, non è identico ad avere molte citazioni; essere ricercatori di successo non equivale a essere buoni ricercatori, disporre di molto tempo libero non è identico a essere degli oziosi.

La Charte de la désexcellence, di cui offriamo un adattamento italiano, è un progetto di un gruppo di ricercatori dell’Université libre de Bruxelles, reso pubblico nel 2014. Rispetto alla molte critiche che vedono nell’iper-organizzazione un consapevole impedimento alla ricerca e all’innovazione, questo testo è una proposta d’azione. Non basta, infatti, dissentire dall’ideologia dell’eccellenza a parole e però continuare a pubblicare negli stessi circuiti in cui essa viene praticata e verificata. Occorre prenderne le distanze nel comportamento quotidiano – cosa, oggi, ancora relativamente più facile che nella scienza di stato della prima metà del secolo scorso.

L’idea che la ricerca possa rimanere tale solo se animata da spirito di condivisione, disinteresse e onestà e da piaceri non identici a quelli contabili non è certo nuova. I fautori dell’ineccellenza vogliono però impegnarsi e far impegnare in qualcosa di più di una presa di posizione teorica da macinare nei circuiti proprietari della comunicazione e della valutazione accademica. Vogliono che chi ancora oppone all’ideologia dell’eccellenza l’onore del proprio lavoro usi gli interstizi che  rimangono nell’accademia iper-organizzata dal big business e dal big government per creare zone di resistenza e gettare – o conservare – il seme di un’università pubblica fondata sul dialogo e sulla solidarietà.

Socrate, nel Simposio, riesce a spostare la discussione dalla retorica alla dialettica – e dall’economia alla filosofia – semplicemente avendo il coraggio di dichiararsi non competitivo e di pretendere di discutere alla sua maniera. Gli ineccellenti pensano che anche noi dobbiamo avere un simile coraggio, nei fatti prima che nelle parole.

Insegnamento

L’insegnamento è una missione essenziale dell’università. Non è oggetto di consumo e non deve essere redditizio. Gli ineccellenti, di conseguenza, s’impegnano a:

  • promuovere, nell’organizzazione degli insegnamenti, la logica del sapere e non quella dell’aumento del numero di iscritti;
  • difendere l’accesso libero all’università da parte degli studenti;
  • opporsi a una amministrazione delle materie d’insegnamento sottomessa alle mode e al numero degli iscritti;
  • criticare pubblicamente i discorsi e i processi che trasformano le università in istituzioni strettamente professionalizzanti, promettendo l’acquisizione di competenze immediatamente operative;
  • rifiutare di trattare gli studenti come “clienti” o “consumatori”, e dunque
    • considerare la ricerca nella sua natura attiva e interdisciplinare come il cuore dell’insegnamento;
    • combattere l’infantilizzazione degli studenti, dovuta, fra l’altro, alla standardizzazione dei contenuti e delle aspettative, e proporsi invece di formare adulti curiosi e critici;
  • evitare di ricorrere a sistemi di valutazione precostituiti e standardizzati;
  • promuovere, nei propri corsi, una riflessione che permetta, a un tempo, l’acquisizione e lo sviluppo di utensili e una migliore comprensione del mondo e della sua evoluzione;
  • rifiutare di elaborare dei repertori di competenze [référentiel des compétences] il cui obiettivo principale non sia la fioritura intellettuale e personale degli studenti e dei docenti nell’indagine teoretica e pratica;
  • promuovere riflessioni pedagogiche collettive per attenuare le scandalose deficienze della valutazione standardizzata dei nostri insegnamenti;
  • vigilare perché gli ausili pedagogici standardizzati e il loro eventuale tecnicismo non aumentino l’uniformità e il livellamento dei corsi;
  • rifiutare di promuovere, partecipare o organizzare corsi e tirocini economicamente discriminanti;
  • rifiutare di assumere o promuovere docenti-ricercatori esclusivamente in base alla loro ricerca o alla loro capacità di ottenere dei fondi;
  • valorizzare l’esperienza professionale al momento dell’assunzione solo se è in grado di alimentare le missioni universitarie dell’insegnamento e della ricerca;
  • pretendere che ogni valutazione dell’insegnamento interna ed esterna renda espliciti i suoi criteri e i suoi obiettivi e che permetta di esprimere pareri fondati su criteri diversi.

Ricerca

Fare ricerca significa creare conoscenze aperte e diversificate. Non è un’intrapresa produttivista e utilitarista, né ha per scopo la fabbricazione di prodotti finiti. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • considerare didattica e ricerca come teoricamente e praticamente inseparabili e interdipendenti;
  • difendere la libertà di scegliere i temi di ricerca, al di fuori di ogni criterio di redditività;
  • rifiutare l’attuale logica della valutazione, che mette in competizione ricercatori ed enti di ricerca e mortifica la collaborazione, e quindi:
    • non dare nessun credito ai ranking internazionali e denunciare incessantemente le loro finalità e i loro metodi;
    • partecipare e sottoporsi a valutazioni solo a condizione che promuovano l’auto-valutazione dei gruppi di ricerca e la discussione di criteri stabiliti collegialmente;
    • rifiutare di importare criteri di valutazione standardizzati nel dominio della ricerca;
    • render conto alla società, senza per questo essere dipendenti dalla domanda sociale o privata. La ricerca deve ascoltare il mondo, ma essendo abbastanza autonoma da non farsene dettare l’agenda;
  • rispettare, nelle procedure di assunzione  e di promozione, queste regole:
    • non accettare metodi di reclutamento che sfavoriscano implicitamente i candidati locali;
    • sottrarsi all’egemonia di criteri quantitativi (rango accademico, numero di pubblicazioni, fattore d’impatto, indice H…) e dar priorità alla valutazione dei contenuti;
    • non usare il post-dottorato all’estero come criterio di selezione (discrimina i poveri e le donne);
    • pretendere formulari di candidatura e di valutazione che comprendano criteri qualitativi e lascino spazio ad argomentazioni circostanziate;
    • esigere che, in tutta la catena di selezione, vi siano posti accessibili anche a candidati che si scostino dai criteri quantitativi;
    • non dare priorità all’unità o al centro di ricerca di provenienza nei criteri di selezione delle domande individuali;
    • rifiutare la mobilità non sostenuta da un programma finanziario adeguato;
  • per quanto concerne  le pubblicazioni, non sottomettersi all’ossessione produttivista ma prendersi il proprio tempo e diffondere il frutto della propria ricerca anche fuori dal mondo accademico, vale a dire:
    • non accordare credito agli indicatori bibliometrici nella gestione delle carriere e nella selezione dei progetti di ricerca;
    • non cercare mai di conoscere gli indicatori bibliometrici propri e dei colleghi e creare zone bibliometricamente libere;
    • attirare l’attenzione dei giovani ricercatori sui pericoli dell’ideologia dell’eccellenza che dà priorità alla quantità e alla velocità rispetto al contenuto;
    • preferire la pubblicazione di testi sintetici – libri, articoli, saggi – piuttosto che la loro segmentazione e ripetizione;
    • rifiutare di aggiungere la propria firma ad articoli alla cui stesura non si sia  partecipato attivamente;
    • favorire termini di consegna abbastanza lunghi da permettere una scrittura di qualità;
    • favorire la composizione comune di opere pubblicate a firma collettiva;
    • non limitarsi all’inglese come lingua di pubblicazione;
    • stare attenti a non firmare contratti d’edizione che permettano l’espropriazione mercantile del proprio lavoro;
    • pubblicare in riviste ad accesso aperto quanto più sistematicamente possibile;
    • continuare a pubblicare in riviste locali, regionali, nazionali e per gli editori universitari che si impegnano alla diffusione pubblica dei risultati di ricerca;
    • promuovere la discussione collettiva delle proprie ricerche, dentro e fuori l’accademia;
    • continuare a comporre testi che rendano disponibile il frutto della propria ricerca anche a un pubblico non accademico;
    • rifiutare di trasformare il lavoro di pubblicazione in un pretesto esplicito o implicito per sottrarsi o trascurare l’impegno in altri settori della vita universitaria;
  • opporsi alla trasformazione di dipartimenti e laboratori in cellule manageriali:
    • favorendo la loro gestione collegiale e democratica e l’alternanza nelle cariche direttive, o, se risulta impossibile, creare altre strutture che la permettano;
    • pretendendo il riconoscimento di strutture di ricerca interdisciplinari nelle università;
    • autorizzando modalità differenti di collegamento, o anche di scollegamento, delle persone dalle unità di ricerca;
    • condividendo la propria ricerca con chi vogliamo noi, anche oltre i limiti imposti da raggruppamenti e reti istituzionali:
    • considerando i dottorandi, in qualsiasi circostanza, come compagni di ricerca;
    • proteggendo la libertà accademica dei dottorandi nella loro ricerca;
    • informando con sincerità i candidati al dottorato sulle loro effettive prospettive future;
    • impegnandosi, malgrado la precarizzazione e la pressione salariale, a rispettare la dignità del lavoro e dei lavoratori:
    • rifiutando di sfruttare a fini personali i risultati di una ricerca compiuta collaborativamente;
  • rifiutare gli incarichi amministrativi che danneggiano il proprio insegnamento e la propria ricerca (relazioni di tutti i tipi, valutazioni a ripetizione, redazione di progetti di ricerca);
  • trattare i frutti della ricerca finanziata in tutto o in parte dal pubblico come patrimonio della società;
  • pretendere che i contratti di ricerca conclusi con attori pubblici  e privati non ostacolino l’uso e la diffusione dei risultati a tutti.

Amministrazione

L’amministrazione è una componente essenziale del funzionamento dell’università, e non l’attrezzatura malleabile e passiva dei nuovi manager dell’istituzione. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • pretendere che sia assunto personale strutturato in quantità adeguata, con condizioni di lavoro soddisfacenti. Questo implica che:
    • non si debbano intraprendere nuove iniziativi didattiche e di ricerca senza aver prima accertato che i mezzi amministrativi ne permettano l’esecuzione;
    • si richieda e si ascolti il parere del personale amministrativo;
    • si riconosca l’importanza dell’amministrazione nei processi decisionali;
  • valorizzare e mobilitare le risorse interne piuttosto che ricorrere a competenze e tecniche (amministrative, informatiche etc.) esterne, inadatte alle specificità dell’università;
  • permettere agli amministratori di trattare gli studenti come uguali, senza considerazioni strategiche legate al loro profilo (nazionalità etc.).

Servizio alla collettività

Per gli ineccellenti la missione delle università è il servizio alla collettività. Gli atenei sono e devono restare luoghi aperti e connessi alle questioni sociali. Il loro servizio, però, non deve ridursi né a una ricerca che risponda alle esigenze immediate delle autorità e del mercato – compreso quello del lavoro -, né all’offerta di vuote competenze mediatiche piegate alla logica della visibilità personale e istituzionale. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • difendere la libertà d’espressione dei membri dell’università sulle questioni sociali, comprese quelle che implicano una critica all’istituzione;
  • promuovere l’impegno nella società di attori, saperi e valori dell’università (tramite associazioni, movimenti, collettivi impegnati, società scientifiche locali e così via), per reciproco insegnamento ed emancipazione collettiva;
  • rispondere positivamente alle richieste delle abilità universitarie da parte della società civile;
  • creare strumenti di contatto e di discussione fra scienziati e non specialisti – quali luoghi, eventi, organi di stampa, modalità di comunicazione e così via;
  • sottrarsi al richiamo della visibilità a tutti i costi, declinando in particolare gli inviti mediatici che impongono scansioni temporali incompatibili con le spiegazioni complesse e non danno luogo a un diritto d’accesso ai contenuti diffusi.

Il documento mi è stato segnalato da Brunella Casalini. I proponenti originali sono: Emmanuelle Bribosia, Brigitte D’Hainaut-Zveny, Jean-Michel Decroly, Chloé DeligneOlivier Gosselain, Jean-Jacques Heirwegh, Pierre Lannoy, Guy Lebeer, Alexandre Livingstone Smith, Jacques Moriau, Valerie Piette, Barbara Truffin, Mathieu Van Criekingen, Eléonore Wolff.

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