Politiche della scienza: Francesca Di Donato, Giovanni Molteni Tagliabue

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scriba Sottoponiamo alla revisione paritaria aperta due articoli dedicati a dei progetti di riforma politica della scienza istituzionale – una esterna e l’altra interna.
“Rationalized and Extended Democracy”: Inserting public scientists into the legislative/executive framework, reinforcing citizens’ participation di Giovanni Molteni Tagliabue suggerisce di inserire degli scienziati nei processi decisionali della democrazia, così da renderli meno esposti al rischio strutturale di produrre classi politiche autoreferenziali e corruttibili. Un simile inserimento, sostiene l’autore, non trasformerebbe la democrazia in tecnocrazia se avesse luogo tramite una seconda camera legislativa composta da scienziati provenienti da enti pubblici o pubblicamente riconosciuti ed eletti per non più di due mandati, e, per quanto concerne il potere esecutivo, tramite l’affiancamento dei ministri politici con esperti nominati dalla camera scientifica. In caso di conflitti fra le due camere un referendum popolare interverrebbe a risolverli.
Questo disegno dipende dalla convinzione che i difetti della democrazia siano intrinseci alla stessa competizione elettorale, la quale restringe e influenza gli orizzonti della classe politica, e che inserirvi degli scienziati – meno esposti ai vizi dei politici di mestiere grazie anche al limite dei mandati – possa renderla più capace di rispondere alle sfide che le si presentano.

1. Integrità e autonomia della ricerca

Uno dei revisori, Antonino Palumbo, ha osservato che la scienza istituzionale non è immune dai difetti della politica, né da essa indipendente. Molteni Tagliabue, da parte sua, individua nelle riviste predatorie (II.18. 6) il problema principale della pubblicazione scientifica contemporanea, lo connette all’uso del publish or perish come motore della carriera accademica, e lo pensa superabile tramite un mutamento del sistema degli “incentivi”.
Che i ricercatori abbiano bisogno di bastoni e carote per evitare di produrre opere senza qualità esclusivamente allo scopo di far numero è però solo una delle conseguenze di una valutazione della ricerca divenuta amministrativa, fondata non più sulla lettura dei testi bensì sul conteggio delle pubblicazioni e delle citazioni. In questo modo un aspetto decisivo, prima che per le carriere, per l’autodeterminazione della discussione scientifica è stato dato in outsourcing ad editori commerciali che continueranno ad accrescere i loro oligopoli e a drenare quantità astronomiche di denaro pubblico, finché ne sarà loro lasciato il controllo. Più che con “mele marce” e “riviste predatorie”, abbiamo a che fare con una generale editoria parassitaria, che vive e prospera soltanto in virtù della valutazione amministrativa.
La valutazione amministrativa della ricerca è a sua volta un esito dell’erosione dell’autonomia della scienza istituzionale che già Max Weber vedeva in atto all’inizio del secolo scorso. I danni che ha inflitto alla qualità della ricerca sono talmente noti che pochi, ormai, li liquidano, impropriamente, come “aneddotica”. La stessa Commissione europea, all’inizio del 2021, ha avviato un processo che si è concluso con un Agreement on Reforming Research Assessment. Di questo si occupa l’articolo di Francesca Di Donato, anch’esso proposto alla revisione paritaria aperta, Una questione di qualità o una formalità? L’Agreement on Reforming Research Assessment e il processo di riforma della valutazione della ricerca in Europa.
L’accordo si propone di concordare forme di valutazione che, facendo tesoro delle pratiche della scienza aperta, riconoscano la qualità e la molteplicità delle attività di ricerca senza esaurirle nelle pubblicazioni e senza pretendere di misurarle con metriche basate sulla sede di pubblicazione, quali il JIF e l’H-index, o con classifiche di università ed enti ricerca stilate da aziende secondo i propri criteri e per il proprio lucro. La riforma europea si è resa necessaria perché la valutazione amministrativa, avendo sottratto alle comunità scientifiche la capacità di valutarsi da sé tramite l’uso pubblico della ragione, deve ora por rimedio a ciò che essa stessa ha determinato. In Italia ne sarà protagonista l’ANVUR, a cui ha fatto capo la valutazione quantitativa che l’accordo prevede di superare. Quale sarà il suo esito? Proprio perché, in particolare in Italia, il rischio di cambiare tutto per non cambiare nulla è elevato, l’articolo di Francesca Di Donato – testimonianza di chi ha partecipato direttamente al processo – merita una lettura attenta.

2. Scienziati applicati

Una scienza istituzionale soggetta a valutazione amministrativa e inserita in un sistema di oligopoli editoriali e mediatici può difficilmente offrire al pubblico un punto di vista indipendente e non autoreferenziale. Una seconda camera scientifica, senza un cambiamento radicale nella valutazione della ricerca, sarebbe probabilmente composta da ricercatori con un accesso privilegiato ai finanziamenti pubblici e ai media, scienziati che hanno ricevuto visibilità grazie agli algoritmi commerciali di Facebook, academic star finanziate dai monopolisti del capitalismo della sorveglianza in conflitto d’interessi, o intellettuali che, invece di confutare un pensatore eterodosso con l’uso pubblico della ragione, firmano lettere contro di lui. Secondo Kant, trasformare il filosofo in funzionario, mettendogli in mano la spada del potere, lo espone alla tentazione di ricorrere a quella stessa spada per troncare le discussioni scientifiche: questo rischio vale a maggior ragione se la spada è già stata usata a monte, nella valutazione amministrativa della ricerca, per attribuire visibilità e promozioni.
Molteni Tagliabue, quando deve indicare quali scienziati prestare alla politica, produce una lista esemplificativa che comprende giuristi, sociologi e politologi e scienziati applicati come gli esperti di pianificazione territoriale e urbana, di organizzazione industriale e infrastrutturale, di agricoltura, istruzione e sanità, ambiente, cultura, università e ricerca, nonché filosofi morali studiosi di bioetica. L’elenco pare escludere chi si occupa ricerca di base: non ci sono storici, linguisti, teologi, matematici, informatici, fisici teorici e scienziati naturali. Fra le discipline filosofiche si salva solo la filosofia morale, che, come mostra il caso della cosiddetta AI ethics, più facilmente si presta al servizio di interessi commerciali, o a “risolvere problemi che non pone, ma che le sono posti”. Questa selezione è casuale, o presuppone una prospettiva da “fine della storia”, per la quale tutti i problemi da affrontare sono ormai soltanto amministrativi?
La costituzione della repubblica islamica d’Iran, approvata nel 1979 con un referendum popolare, riconosce la separazione dei poteri, il carattere elettivo del potere legislativo, le garanzie giudiziarie e i diritti civili. Ma lo stato iraniano non è una semplice democrazia: è una democrazia teocraticamente custodita. Un consiglio dei guardiani di dodici membri, in cui sei giuristi islamici (fuqaha) sono nominati dalla guida suprema e sei giuristi civili di fede islamica sono eletti dal parlamento, esamina la compatibilità delle norme approvate dal potere legislativo con l’Islam e vaglia le candidature alle cariche elettive. La guida suprema, a sua volta, è, finché il dodicesimo Iman non uscirà dall’occultamento, un giurista islamico giusto e virtuoso nominato da un consiglio degli esperti, a sua volta composto da giuristi islamici eletti dal popolo. Abbiamo così un regime a duplice – e precaria – legittimazione, nel quale la custodia della democrazia usa strumenti curiosamente consonanti col progetto di Molteni Tagliabue: il riconoscimento costituzionale di una categoria di esperti che si sono affermati come tali in istituzioni diverse dallo stato democratico e la limitazione dell’elettorato passivo. A differenza di quella islamica, tuttavia, la costituzione della repubblica scientista presuppone una gerarchia esplicita fra la fonte di legittimazione democratica e quella scientifica, prevedendo referendum per risolvere i conflitti fra la camera dei politici e quella degli esperti, ammesso e non concesso che quest’ultima abbia l’integrità e il coraggio di crearli.

3. Crisi nella democrazia o crisi della democrazia?

La corruzione e l’autoreferenzialità della classe politica sono un aspetto strutturale della procedura democratica, o sono l’esito della sua impotenza?
Dopo la crisi del 1929, la democrazia statunitense ebbe l’elasticità di reagire e di intraprendere cambiamenti radicali senza aver bisogno di trasformarsi in una repubblica scientista.

Con la presidenza Roosevelt si abbandona il capitalismo a briglia libera del laissez-faire e laissez-passer, il liberismo delle grandi diseguaglianze e delle grandi ingiustizie, stravolgendone i presupposti e inaugurando il più grande intervento dello Stato nell’economia mai concepito fino ad allora: il New Deal. Si rimette a lavoro una nazione, si costruiscono strutture di sostegno al reddito e di sicurezza sociale, si fa ripartire l’economia con una più equa ripartizione delle risorse, si pone un freno al dominio della speculazione finanziaria separando banche di investimento e di deposito. Si mette così in sicurezza il sistema americano tramite un cambiamento profondo dei suoi presupposti. La democrazia viene in sostegno al capitalismo, garantendo l’elasticità necessaria per uscire da un sistema morente con una nuova visione e una grande trasformazione. Anche a costo di attaccare i privilegi acquisiti della classe dominante.1

Nel 2015, in una situazione paragonabile a quella del 1929, la Grecia, oppressa sia da una sua propria crisi del debito, sia dalle soluzioni imposte dall’esterno per risolverla, tentò di proporre una via d’uscita dallo status quo della politica economica dell’Unione Europea.

La richiesta non è quella di contribuire alla spesa pubblica di un paese in bancarotta. Si tratta di chiedere, più radicalmente, una diversa soluzione alla stagnazione economica, alla disoccupazione e al ricatto del debito per tutti gli europei. Si tratta di trovare soluzioni comuni al debito pubblico crescente (una conferenza sul debito), alla mancanza di investimenti e all’economia stagnante (un New Deal per l’Europa), alle banche zombie (una vera unione bancaria) e alla disoccupazione a due cifre (un piano straordinario di occupazione) come problemi che riguardano tutta l’Unione. È una battaglia, in una parola, condotta per ottenere una diversa politica economica europea.2

Sappiamo com’è andata a finire:

le banche greche vengono strangolate, la popolazione ridotta allo stremo, i ricatti e l’intransigenza delle tecnocrazie europee raggiungono un apice mai visto fino ad allora e senz’altro mai applicato nei riguardi dei nazionalismi autoritari dell’Est Europa. La stessa BCE […] scende in campo con tutte le armi di cui dispone, anche se questo significa violare il proprio mandato e rinunciare a garantire la stabilità del sistema bancario europeo. La guerra viene vinta. Nonostante una schiacciante maggioranza respinga nel referendum del luglio 2015 l’accordo offerto dalla Troika, Syriza finisce per capitolare e accettare le condizioni imposte dall’Eurogruppo: austerità draconiana e la piena garanzia del proseguimento della Grande Depressione a fronte di un rifinanziamento del debito del paese e vaghe promesse di un possibile sconto di pena per buona condotta.3

Se la Grecia fosse stata una repubblica scientista, sarebbe cambiato qualcosa? L’economista Yanis Varoufakis non aveva avuto bisogno di un elettorato passivo privilegiato per proporre un New Deal. Ma i vertici politici e tecnocratici dell’Unione europea, rivelando quale fosse la loro effettiva gerarchia di valori, schiacciarono la democrazia greca con durezza estrema. In un quadro come questo, in cui le decisioni degli stati sono dettate dall’esterno perfino per quanto concerne la pace e la guerra, l’unica classe politica che può sopravvivere è quella che non si propone di cambiare il mondo, ma di perseguire il proprio “particulare”; e l’unico elettore a cui rimangono dei motivi per andare a votare è quello che spera di ottenere un favore o una vendetta per qualche suo piccolo risentimento, in un orizzonte altrettanto ristretto.
Wilhelm von Humboldt, in un momento di gravissima crisi, inventò un sistema che affidava la garanzia dell’autonomia delle istituzioni di ricerca a uno stato problematicamente assunto come capace di autolimitarsi. Era infatti convinto che, in una società aperta, una ricerca libera, sola e cooperativa avrebbe avuto ricadute politiche, sociali e culturali che si sarebbero realizzate come effetti collaterali e non nella forma burocratica di incarichi da assumere e di prodotti da consegnare. Si tratta, ora, di capire se, dalla gabbia d’acciaio che tiene oggi prigioniere sia la scienza sia quel che resta della democrazia, sia possibile immaginare vie d’uscita amministrative che non siano esenti dal rischio di renderne più fitte e complesse le sbarre.

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Pierpaolo Ciccarelli, Hobbes schmittiano o Schmitt hobbesiano? – Invito alla revisione paritaria aperta

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The frontispiece of the book Leviathan by Thomas Hobbes; engraving by Abraham BosseL’interpretazione di Thomas Hobbes come il fondatore del liberalismo, in quanto teorico del superamento politico di uno stato di natura dominato dalla disposizione alla guerra, ha ricevuto, nel pensiero di Leo Strauss, due sensi differenti:

1. in una prospettiva di filosofia della storia, ripartire dalla sua fondazione hobbesiana aiuta a recuperare, con una mossa rivoluzionaria in senso astronomico, quella base naturale che il liberalismo con il suo artificio culturale aveva sistematicamente obliato;

2. senza la speranza “rivoluzionaria” della filosofia della storia tornare a Hobbes significa invece condividerne i presupposti, e quindi in ultima analisi accettare il superamento della natura e contribuire a quell’oblio culturale di cui si accusa il liberalismo e dal quale ci si vorrebbe distanziare criticamente.

L’articolo proposto da Pierpaolo Ciccarelli alla revisione paritaria aperta vuol mostrare, con un’analisi testuale raffinata, che la transizione fra questi due sensi ha luogo in un medesimo testo, lo scritto giovanile  apparso nel 1932 con il titolo Note a Carl Schmitt, «Il concetto del politico» (Anmerkungen zu Carl Schmitt, Der Begriff des Politischen) nel quale, un trentennio dopo, lo stesso Leo Strauss ravvisò il momento di un cambio d’orientamento.

Chi volesse cimentarsi in un compito reso più difficile dall’impossibilità di linkare e annotare in rete i testi di Leo Strauss e Carl Schmitt, morti da tempo ma soggetti a un diritto d’autore la cui scadenza supera ormai di molto i limiti della loro esistenza fisica, può seguire le indicazioni esposte qui.

Pierpaolo Ciccarelli, Hobbes schmittiano o Schmitt hobbesiano?
Sul «cambio di orientamento» nelle «Note a Carl Schmitt» di Leo Strauss

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Humboldt e l’idea di università: invito alla revisione paritaria aperta

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Bust of Wilhelm von Humboldt, by Bertel Thorvaldsen, 1808L’ università disegnata da Wilhelm von Humboldt all’inizio del XIX secolo, con la sua unione di didattica e ricerca per il superamento del sapere cristallizzato dei manuali scolastici, è qualcosa che molti pensano di conoscere già. Non tutti, però, hanno letto il testo classico di cui il Bollettino telematico di filosofia politica propone alla revisione paritaria aperta una nuova traduzione sotto licenza Creative Commons by-sa. La versione di Pia Di Fidio, curata da Fulvio Tessitore e stampata  ben 47 anni fa, è, infatti, ad accesso chiuso – pur essendo parzialmente visibile qui.

L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino  è un frammento inedito scritto nel 1809-10 che fu fatto circolare  informalmente e venne riscoperto in archivio solo alla fine del XIX secolo da parte dello storico Bruno Gebhardt. Oggi, a dispetto della sua influenza, non avrebbe meritato il rango di  “pubblicazione scientifica” per la valutazione di stato della ricerca italiana.

Il documento ufficiale di fondazione dell’università di Berlino fu il più ministeriale Antrag auf Errichtung der Universität Berlin, indirizzato a Federico Guglielmo III. Questa proposta non menziona né la solitudine e libertà dell’istituzione universitaria, né l’unione di ricerca e didattica: più pedestremente, suggerisce di rendere l’università finanziariamente indipendente dal potere esecutivo tramite la concessione di beni demaniali e la contribuzione della cittadinanza. Non è però pedestre l’idea di unificare le varie istituzioni e accademie berlinesi in una nuova università – in un momento di gravissima crisi che aveva costretto lo stato prussiano, sconfitto a Jena e ad Auerstädt, all’umiliante pace di Tilsit.

Edite o no, le idee di Humboldt erano nell’aria. La contemporanea Madame de Staël, nel XVIII capitolo del suo De l’Allemagne, metteva in relazione il genio filosofico dei tedeschi proprio con l’indipendenza della loro università e la libertà di pensiero conferita dalla distanza dei suoi studiosi dalla carriera politica e dalla formazione professionale.

Nell’Europa del processo di Bologna, con la sua burocrazia, i suoi controlli e il suo linguaggio economicistico, queste idee sono rappresentate ora come le armi della reazione di un’élite di privilegiati, ora come un mito di resistenza per chi non si piega a ridurre l’istruzione superiore a mero addestramento professionale. Quale delle due letture è la più pertinente? E che cosa le rende così ostili e reciprocamente impermeabili?

Non risponderemo, qui, a queste domande. Lo faremo separatamente, per non imporre un’interpretazione pregiudiziale  ai revisori che vogliono commentare questa versione, la quale, senza nulla togliere alla traduzione del 1970 di cui si riconosce debitrice, ha un unico pregio ulteriore: quello di essere aperta e dunque migliorabile e aggiornabile.

Per un sommario ma essenziale inquadramento storico e filosofico merita, tuttavia, di essere letto un articolo recente di Volker Gerhardt, che si conclude così:

La sua idea presupponeva un distacco deciso dalla concezione francese della scuola superiore professionale e realizzava, del progetto di Kant, solo quanto egli aveva sperato per la facoltà filosofica – tuttavia tramite l’inclusione delle discipline professionalizzanti. Queste si dovevano praticare nello spirito della ricerca e dell’auto-educazione del singolo, e precisamente in un modo tale che anche gli studenti potessero prender parte all’apprendimento e all’indagine. Dai professori ci si aspettava che, in “solitudine e libertà”, dessero un esempio di indipendenza individuale. L'”autonomia”, così, non era solo un ideale per la costituzione dell’istituzione, ma anche una massima per tutti i membri dell’università.

La rifondazione concepita da Humboldt ebbe un successo scientifico esemplare, anche perché riuscì a integrare le scienze sperimentali emergenti e a realizzare forme di cooperazione con l’accademia e altri collaboratori scientifici. Assurse a modello per la rifondazione delle università non solo in Germania, ma in tutto il mondo.

A questo la cosiddetta riforma di Bologna ha posto definitivamente fine.

Wilhelm von Humboldt, L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino

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Pierpaolo Ciccarelli, Laicismo e persecuzione

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Il Bollettino telematico di filosofia politica propone alla revisione paritaria aperta l’articolo di Pierpaolo Ciccarelli, Laicismo e persecuzione. Abbozzo di una fenomenologia dello «spazio assiologico».

Ne anticipiamo, qui, la conclusione.

Se veramente, dunque, ci sta a cuore l’assolutezza dei valori, e non quella della forza, non c’è altro modo che salvaguardare laicamente lo spazio assiologico. Una volta, infatti, che questa sia stato limitato o annientato, all’espressione discorsiva dei valori rimarrà soltanto un’alternativa: o quella, nobile ma necessariamente relativizzante, del loro studio teorico e storico, oppure quella, ignobile eppure sempre più in voga quando si sollevano i problemi etici, dell’uso strumentale del discorso a fini propagandistici.

Chi desidera conoscere e discutere l’argomentazione dell’autore trova una versione commentabile  del testo qui.

Le istruzioni per partecipare alla revisione paritaria aperta si leggono, come sempre, qui.

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Valutazione di stato e libertà della ricerca: una riflessione filosofico-giuridica

Particolare della Scuola di Atene di RaffaelloLa revisione paritaria (peer review) è una parte importante della procedura che conduce alla pubblicazione di un articolo in una rivista scientifica tradizionale, costruita e pensata per la tecnologia della stampa. A due o più studiosi di campi disciplinarmente pertinenti, selezionati discrezionalmente dalla redazione della rivista e protetti dall’anonimato, viene chiesto di pronunciarsi ex ante sulla pubblicabilità di un articolo. Quanto i revisori scartano non vede la luce; e, analogamente, rimangono nell’ombra i loro pareri e la loro eventuale conversazione con gli autori, che ha luogo solo per interposta persona. La revisione paritaria aperta ed ex post consente invece di rendere pubblica l’intera discussione e di riconoscere il merito dei revisori, i quali, come gli autori, rinunciano all’anonimato.
In questo spirito, il Bollettino telematico di filosofia politica propone due articoli:

Il primo testo critica la tesi esposta da Andrea Bonaccorsi nel recente La valutazione possibile. Teoria e pratica nel mondo della ricerca, Il Mulino, 2015, condensabile nella seguente affermazione: la valutazione è espressione degli imperativi istituzionali della scienza così come teorizzati da R.K. Merton. Per Roberto Caso, l’autore legge l’opera mertoniana in modo distorto e parziale e trascura la dimensione giuridica del rapporto tra norme formali poste dallo Stato nel processo valutativo e regole informali della scienza: è difficile trasformare quanto in Merton era l’ethos condiviso di una comunità scientifica autonoma in norme di diritto amministrativo senza alterarne profondamente la natura.  Infatti, il disegno della valutazione che Bonaccorsi rappresenta  come democratico, dialogico, condiviso e trasparente collide frontalmente con la prassi italiana dell’ANVUR, motore immobile di orrori giuridici nonché di un gigantesco contenzioso che consegna la vera e ultima valutazione ai giudici.

Il secondo testo si interroga sulle radici filosofiche di questi orrori. Per distinguere la riflessione della ragione teoretica e pratica dagli elementi empirici, prende le mosse da una concessione: fa finta  che il sistema di valutazione teorizzato da Bonaccorsi sia una fotografia – mertonianamente – fedele del modo in cui la comunità scientifica valuta se stessa. Ma, perfino con questa assunzione, la sua costruzione ha come esito un sistema di valutazione praticamente dispotico e teoreticamente retrogrado. Il sistema è dispotico perché trasforma un ethos informale e storico in una norma di diritto amministrativo fissa, che cessa di essere oggetto di scelta da parte della comunità scientifica; ed è retrogrado perché, stabilendo questa norma, cristallizza, come nel castello incantato della Bella addormentata nel bosco, l’evoluzione in un fermo-immagine non più superabile senza ulteriori interventi amministrativi. A questo argomento principale si aggiungono alcune parti accessorie: la prima si occupa della questione, proposta da Bonaccorsi, della verificabilità empirica di alcune tesi dei suoi critici; la seconda prende in esame un campione di citazioni addotte dall’autore a sostegno di alcuni passaggi argomentativi importanti.

Entrambi i contributi sono ispirati dalla prospettiva ideale e critica della scienza aperta, che è già in grado di orientare, perfino con gli strumenti attualmente esistenti, un sistema di valutazione più conforme al principio costituzionale della libertà  delle arti, delle scienze e del loro insegnamento.

Le istruzioni per chi desidera partecipare alla revisione paritaria aperta si trovano qui.

È ora possibile commentare entrambi gli articoli anche su SJScience.org, qui e qui.

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Anonimo scientifico

Un numero recente di “Current science”  (111/2, 25 luglio 2016) ospita un testo di un ignoto, presumibilmente indiano, con una proposta apparentemente ingenua: rendere anonimi gli articoli scientifici e valutare i ricercatori non più per le loro pubblicazioni, ma per i loro discorsi e le loro azioni.

Non è però ingenua l’analisi che le sta alle spalle. Secondo Richard Horton, editor di “The Lancet”, una buona metà della letteratura scientifica potrebbe essere falsa.

Afflitta da studi con campioni piccoli, effetti minuscoli, analisi esplorative dei dati invalide e flagranti conflitti d’interesse, combinati con l’ossessione di inseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza si è avviata su una cattiva strada.

Questi vizi nel metodo e nella selezione dell’oggetto sono esaltati da una valutazione della ricerca che spinge a un’“insana competizione” a pubblicare in alcune riviste selezionate sulla base del fattore d’impatto e a una produttività pletorica, che ha ormai ben poco a che vedere con lo scopo di offrire scoperte e teorie rigorose all’uso pubblico della ragione. Lo spirito competitivo preso nella sua purezza – non da ora, non da oggi – è nemico della ricerca della verità.  Chi fa ricerca deve riconoscere che saper accettare la confutazione e il superamento è una parte importante del gioco della scienza. Così, per esempio, scriveva Max Weber all’inizio del secolo scorso:

Ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed esser ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza [corsivo mio].

Contro la crisi sono stati suggeriti rimedi amministrativi, deontologici e comunicativi, quali l’auto-pubblicazione e qualche forma di revisione paritaria aperta, allo scopo di riavvicinare la pubblicazione al fine implicito nel suo nome. Nel 2006, tuttavia, “Nature” provò a sperimentare la revisione paritaria aperta – ora oggetto anche di qualche progetto finanziato dell’Unione Europea – ottenendo una partecipazione poco numerosa e poco significativa.

Perché meravigliarsene? In un sistema competitivo di “pubblicazione” proprietaria partecipare a una discussione genuinamente pubblica – perfino sul sito di “Nature” – è ozioso.  In un mondo in cui la “competitività” – o vogliamo chiamarla pleonexia? – è favorita e spesso imposta in quanto incentivo unico alla “produttività” scientifica,  il proprio tempo va investito nella confezione di articoli da regalare a editori bibliometricamente significativi.  Finché le pubblicazioni non recupereranno il loro scopo originario – condividere e registrare teorie e scoperte, non prevalere in una gara eterodiretta fondata sul feticismo bibliometrico – iniettare regolamenti, protocolli e codici etici rischia di avere solo un effetto palliativo.

Le teorie e le scoperte diventano scientifiche se e quando si emancipano dall’inintelligibile genio individuale e si fanno patrimonio comune. Perché una teoria o una scoperta venga riconosciuta come scientificamente solida non occorre – dal punto di vista oggettivo – che sia firmata con un nome e un cognome. Dal punto di vista soggettivo, però, almeno per chi è influenzato da Thomas Hobbes o dall’astrazione dell’homo oeconomicus, le cose sembrano stare differentemente: se non fossimo posti in una competizione che ha variamente a oggetto gli onori accademici, o la misura degli indici H, o, più semplicemente, la sopravvivenza, non avremmo – così si crede – nessuna motivazione per dedicarci alla ricerca.

Eppure, di molti patrimoni artistici e culturali dell’umanità – dalle piramidi egiziane, al tempio di Thanjavur, alle caverne di Ajanta ed Ellora, all’epopea di Gilgamesh, a buona parte delle Sacre Scritture – non conosciamo gli autori, che si sono interamente risolti nelle opere. A maggior ragione, dall’altro lato, sono condannati all’impermanenza i nomi degli autori dell’inflazione di pubblicazioni in riviste proprietarie al servizio della causa della bibliometria più che di quella della scienza.

Anche in occidente la scienza è nata ed è fiorita indipendentemente dell’invenzione delle carriere accademiche e dell’enfasi sulla misura della loro “produttività”, per esempio – individualmente – nella vocazione di chi pensava che una vita senza indagine non fosse degna di essere vissuta, o – socialmente – nella ricerca pura sostenuta dal mecenatismo fiorita nell’Europa protomoderna.

Il concetto di nishkam karma – o azione disinteressata – appartiene alla cultura indiana. Così lo esprime, per esempio, la Bhagavad Gita:

È tuo dovere e competenza solo l’agire, ma che questo non sia motivato dal desiderio dei frutti dell’azione. E non sorga neanche in te l’adesione al non agire. (Bhagavad Gita, 2.47)

Ma qualcosa di simile si ritrova anche in luoghi per noi meno esotici – per esempio nella teoria morale di Kant  – ed è originariamente intrinseco allo stesso ethos scientifico, come può mostrare una lettura mirata della confutazione di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone. Se ci si facesse beffe del poco realistico ideale della ricerca disinteressata e si misurasse la qualità dei medici sulla loro capacità di farsi pagare, otterremmo esattamente quello i nostri pregiudizi hanno predeterminato: non più medici valenti, ma esperti nell’arte mercenaria.

Si può obiettare che l’anonimato delle pubblicazioni deresponsabilizza gli autori. Il sistema attuale, però, accetta l’anonimato in una funzione più delicata: quella della revisione paritaria, per la quale una critica simile potrebbe avere una forza ancora maggiore. Così, per esempio, scriveva il matematico Giorgio Israel:

L’anonimità dell’esaminatore è invece un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi. L’anonimato rischia invece di offrire coperture a comportamenti intellettualmente superficiali o eticamente scorretti (Chi sono i nemici della scienza?, 2013, grassetti miei).

Il sistema di valutazione basato sulle pubblicazioni è un modo per sottrarsi alla responsabilità di giudicare la ricerca spostandola su revisori paritari a loro volta protetti dall’anonimato. Si costruisce così una gabbia d’acciaio apparentemente impersonale in cui nessuno fra coloro che determinano le vite degli altri è davvero disposto a rendere conto delle decisioni – pur molto personali – che si trova a prendere.

Eclissi di soleL’anonimo indiano propone di sovvertire il sistema attuale, oscurando quanto oggi illuminiamo e illuminando quanto oggi oscuriamo. Non è neppure necessario che il nome dell’autore sia un segreto custodito meglio di quello che protegge la revisione paritaria: gli autori potrebbero anche essere contrassegnati da una sorta di ORCID anonimo, e potrebbe esser reso possibile corrispondere con loro tramite le piattaforme di pubblicazione, come si fa attualmente, per interposta persona, con i referee anonimi. Sarebbe sufficiente che l’anonimato fosse un accessorio in un combinato disposto che eliminasse dai criteri per valutare la ricerca e determinare le carriere il numero delle pubblicazioni e il loro peso bibliometrico.  Nelle varie fasi della carriera accademica si dovrebbero invece considerare le persone in luogo dei prodotti, tramite relazioni scritte e colloqui che abbiano a oggetto la tesi di dottorato, la capacità di insegnare e di guidare altri nella ricerca, le attività passate e gli interessi presenti e futuri.

I ricercatori non smetterebbero di pubblicare:  scriverebbero meno e meglio, perché sarebbero motivati solo dallo scopo di condividere la memoria di teorie e scoperte a loro giudizio meritevoli di attenzione. Allo stesso tempo, questa valutazione della ricerca alternativa, fondata sulla cultura delle persone e sulla loro capacità di selezionarla, trasmetterla e discuterla, farebbe emergere, fra i testi anonimi, quelli meritevoli di essere esaminati e studiati. Il denaro sottratto alle multinazionali editoriali e bibliometriche potrebbe essere meglio speso in un’infrastruttura di ricerca pubblica e accessibile a tutti che aiuti gli studiosi nella loro conversazione.

Utopia? Per niente: questa è semplicemente la soluzione antica di un problema altrettanto antico, che si ritrova nel Fedro di Platone. L’invenzione della scrittura – così racconta il mito di Theuth – è alla radice del feticismo della pubblicazione, perché rende possibile separare il prodotto dal processo, il risultato messo per iscritto dalla sperimentazione, dalla dimostrazione e dalla discussione. Si è così esposti alla tentazione di confondere il medium col messaggio: sono un valente scienziato non perché sono in grado di dimostrare le mie ipotesi e scoperte in una discussione pubblica, bensì perché le mie ipotesi e scoperte sono pubblicate in testi a cui si attribuisce variamente autorità scientifica.

Se questa confusione è socialmente e amministrativamente rinforzata, il ricercatore sarà a suo volta esposto alla tentazione di abbandonare la via della sophia per imboccare quella della doxosophia o apparenza di sapienza la quale, nel sistema attuale, equivale a perseguire non l’approssimazione alla verità, bensì la pubblicazione e il successo nella competizione bibliometrica.

Platone, per sottrarsi a questa tentazione, escogitò un rimedio molto simile a quella immaginata dall’anonimo del XXI secolo: non prendere i testi – i nostri figli illegittimi – troppo sul serio, se non come ausilio per la memoria, e dedicarsi invece alla costruzione di comunità di conoscenza che li facciano vivere scientificamente, selezionandoli, curandoli, discutendoli e confutandoli – in una parola, prendendosi la responsabilità di valutarli. Coerentemente, non si presentò mai come autore, ma, similmente al suo Socrate,  come un curatore al servizio di una verità che trascende le persone e le loro gare.

La scienza oggettivamente intesa può permettersi di essere anonima. Che la teoria eliocentrica sia di Copernico o di Aristarco da Samo ne influenza, forse, la plausibilità? Che importa chi parla? Però, soprattutto in un mondo di informazione sovrabbondante, la cura e la selezione dei testi – se vale la pena leggere, discutere e linkare articoli eliocentrici o geocentrici – è frutto di scelte personali. Proprio per la sua soggettività, essa richiede una assunzione di responsabilità con nome e cognome: in una valutazione scientifica della ricerca, chi sceglie deve render pubblicamente conto delle sue decisioni. Il suo stesso logon didonai è parte di quella discussione scientifica che ritrasforma la lettera morta in un vivo processo d’indagine.

Questo prassi desueta può sembrare aleatoria e bizzarra. Ma non è altrettanto bizzarro considerare normale – e non semplicemente normalizzante – un sistema in cui le scelte sociali sulla ricerca sono compiute irresponsabilmente da giudici che non osano mostrare la faccia e da algoritmi proprietari rappresentati come impersonali? Prima di concludere che non ci sono alternative forse vale la pena chiedersi se non siamo talmente abituati alla gabbia che nessuno vuol assumersi la responsabilità di cominciare a crearle.

Il testo mi è stato segnalato da Paola Galimberti.

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