Politiche della scienza: Francesca Di Donato, Giovanni Molteni Tagliabue

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scriba Sottoponiamo alla revisione paritaria aperta due articoli dedicati a dei progetti di riforma politica della scienza istituzionale – una esterna e l’altra interna.
“Rationalized and Extended Democracy”: Inserting public scientists into the legislative/executive framework, reinforcing citizens’ participation di Giovanni Molteni Tagliabue suggerisce di inserire degli scienziati nei processi decisionali della democrazia, così da renderli meno esposti al rischio strutturale di produrre classi politiche autoreferenziali e corruttibili. Un simile inserimento, sostiene l’autore, non trasformerebbe la democrazia in tecnocrazia se avesse luogo tramite una seconda camera legislativa composta da scienziati provenienti da enti pubblici o pubblicamente riconosciuti ed eletti per non più di due mandati, e, per quanto concerne il potere esecutivo, tramite l’affiancamento dei ministri politici con esperti nominati dalla camera scientifica. In caso di conflitti fra le due camere un referendum popolare interverrebbe a risolverli.
Questo disegno dipende dalla convinzione che i difetti della democrazia siano intrinseci alla stessa competizione elettorale, la quale restringe e influenza gli orizzonti della classe politica, e che inserirvi degli scienziati – meno esposti ai vizi dei politici di mestiere grazie anche al limite dei mandati – possa renderla più capace di rispondere alle sfide che le si presentano.

1. Integrità e autonomia della ricerca

Uno dei revisori, Antonino Palumbo, ha osservato che la scienza istituzionale non è immune dai difetti della politica, né da essa indipendente. Molteni Tagliabue, da parte sua, individua nelle riviste predatorie (II.18. 6) il problema principale della pubblicazione scientifica contemporanea, lo connette all’uso del publish or perish come motore della carriera accademica, e lo pensa superabile tramite un mutamento del sistema degli “incentivi”.
Che i ricercatori abbiano bisogno di bastoni e carote per evitare di produrre opere senza qualità esclusivamente allo scopo di far numero è però solo una delle conseguenze di una valutazione della ricerca divenuta amministrativa, fondata non più sulla lettura dei testi bensì sul conteggio delle pubblicazioni e delle citazioni. In questo modo un aspetto decisivo, prima che per le carriere, per l’autodeterminazione della discussione scientifica è stato dato in outsourcing ad editori commerciali che continueranno ad accrescere i loro oligopoli e a drenare quantità astronomiche di denaro pubblico, finché ne sarà loro lasciato il controllo. Più che con “mele marce” e “riviste predatorie”, abbiamo a che fare con una generale editoria parassitaria, che vive e prospera soltanto in virtù della valutazione amministrativa.
La valutazione amministrativa della ricerca è a sua volta un esito dell’erosione dell’autonomia della scienza istituzionale che già Max Weber vedeva in atto all’inizio del secolo scorso. I danni che ha inflitto alla qualità della ricerca sono talmente noti che pochi, ormai, li liquidano, impropriamente, come “aneddotica”. La stessa Commissione europea, all’inizio del 2021, ha avviato un processo che si è concluso con un Agreement on Reforming Research Assessment. Di questo si occupa l’articolo di Francesca Di Donato, anch’esso proposto alla revisione paritaria aperta, Una questione di qualità o una formalità? L’Agreement on Reforming Research Assessment e il processo di riforma della valutazione della ricerca in Europa.
L’accordo si propone di concordare forme di valutazione che, facendo tesoro delle pratiche della scienza aperta, riconoscano la qualità e la molteplicità delle attività di ricerca senza esaurirle nelle pubblicazioni e senza pretendere di misurarle con metriche basate sulla sede di pubblicazione, quali il JIF e l’H-index, o con classifiche di università ed enti ricerca stilate da aziende secondo i propri criteri e per il proprio lucro. La riforma europea si è resa necessaria perché la valutazione amministrativa, avendo sottratto alle comunità scientifiche la capacità di valutarsi da sé tramite l’uso pubblico della ragione, deve ora por rimedio a ciò che essa stessa ha determinato. In Italia ne sarà protagonista l’ANVUR, a cui ha fatto capo la valutazione quantitativa che l’accordo prevede di superare. Quale sarà il suo esito? Proprio perché, in particolare in Italia, il rischio di cambiare tutto per non cambiare nulla è elevato, l’articolo di Francesca Di Donato – testimonianza di chi ha partecipato direttamente al processo – merita una lettura attenta.

2. Scienziati applicati

Una scienza istituzionale soggetta a valutazione amministrativa e inserita in un sistema di oligopoli editoriali e mediatici può difficilmente offrire al pubblico un punto di vista indipendente e non autoreferenziale. Una seconda camera scientifica, senza un cambiamento radicale nella valutazione della ricerca, sarebbe probabilmente composta da ricercatori con un accesso privilegiato ai finanziamenti pubblici e ai media, scienziati che hanno ricevuto visibilità grazie agli algoritmi commerciali di Facebook, academic star finanziate dai monopolisti del capitalismo della sorveglianza in conflitto d’interessi, o intellettuali che, invece di confutare un pensatore eterodosso con l’uso pubblico della ragione, firmano lettere contro di lui. Secondo Kant, trasformare il filosofo in funzionario, mettendogli in mano la spada del potere, lo espone alla tentazione di ricorrere a quella stessa spada per troncare le discussioni scientifiche: questo rischio vale a maggior ragione se la spada è già stata usata a monte, nella valutazione amministrativa della ricerca, per attribuire visibilità e promozioni.
Molteni Tagliabue, quando deve indicare quali scienziati prestare alla politica, produce una lista esemplificativa che comprende giuristi, sociologi e politologi e scienziati applicati come gli esperti di pianificazione territoriale e urbana, di organizzazione industriale e infrastrutturale, di agricoltura, istruzione e sanità, ambiente, cultura, università e ricerca, nonché filosofi morali studiosi di bioetica. L’elenco pare escludere chi si occupa ricerca di base: non ci sono storici, linguisti, teologi, matematici, informatici, fisici teorici e scienziati naturali. Fra le discipline filosofiche si salva solo la filosofia morale, che, come mostra il caso della cosiddetta AI ethics, più facilmente si presta al servizio di interessi commerciali, o a “risolvere problemi che non pone, ma che le sono posti”. Questa selezione è casuale, o presuppone una prospettiva da “fine della storia”, per la quale tutti i problemi da affrontare sono ormai soltanto amministrativi?
La costituzione della repubblica islamica d’Iran, approvata nel 1979 con un referendum popolare, riconosce la separazione dei poteri, il carattere elettivo del potere legislativo, le garanzie giudiziarie e i diritti civili. Ma lo stato iraniano non è una semplice democrazia: è una democrazia teocraticamente custodita. Un consiglio dei guardiani di dodici membri, in cui sei giuristi islamici (fuqaha) sono nominati dalla guida suprema e sei giuristi civili di fede islamica sono eletti dal parlamento, esamina la compatibilità delle norme approvate dal potere legislativo con l’Islam e vaglia le candidature alle cariche elettive. La guida suprema, a sua volta, è, finché il dodicesimo Iman non uscirà dall’occultamento, un giurista islamico giusto e virtuoso nominato da un consiglio degli esperti, a sua volta composto da giuristi islamici eletti dal popolo. Abbiamo così un regime a duplice – e precaria – legittimazione, nel quale la custodia della democrazia usa strumenti curiosamente consonanti col progetto di Molteni Tagliabue: il riconoscimento costituzionale di una categoria di esperti che si sono affermati come tali in istituzioni diverse dallo stato democratico e la limitazione dell’elettorato passivo. A differenza di quella islamica, tuttavia, la costituzione della repubblica scientista presuppone una gerarchia esplicita fra la fonte di legittimazione democratica e quella scientifica, prevedendo referendum per risolvere i conflitti fra la camera dei politici e quella degli esperti, ammesso e non concesso che quest’ultima abbia l’integrità e il coraggio di crearli.

3. Crisi nella democrazia o crisi della democrazia?

La corruzione e l’autoreferenzialità della classe politica sono un aspetto strutturale della procedura democratica, o sono l’esito della sua impotenza?
Dopo la crisi del 1929, la democrazia statunitense ebbe l’elasticità di reagire e di intraprendere cambiamenti radicali senza aver bisogno di trasformarsi in una repubblica scientista.

Con la presidenza Roosevelt si abbandona il capitalismo a briglia libera del laissez-faire e laissez-passer, il liberismo delle grandi diseguaglianze e delle grandi ingiustizie, stravolgendone i presupposti e inaugurando il più grande intervento dello Stato nell’economia mai concepito fino ad allora: il New Deal. Si rimette a lavoro una nazione, si costruiscono strutture di sostegno al reddito e di sicurezza sociale, si fa ripartire l’economia con una più equa ripartizione delle risorse, si pone un freno al dominio della speculazione finanziaria separando banche di investimento e di deposito. Si mette così in sicurezza il sistema americano tramite un cambiamento profondo dei suoi presupposti. La democrazia viene in sostegno al capitalismo, garantendo l’elasticità necessaria per uscire da un sistema morente con una nuova visione e una grande trasformazione. Anche a costo di attaccare i privilegi acquisiti della classe dominante.1

Nel 2015, in una situazione paragonabile a quella del 1929, la Grecia, oppressa sia da una sua propria crisi del debito, sia dalle soluzioni imposte dall’esterno per risolverla, tentò di proporre una via d’uscita dallo status quo della politica economica dell’Unione Europea.

La richiesta non è quella di contribuire alla spesa pubblica di un paese in bancarotta. Si tratta di chiedere, più radicalmente, una diversa soluzione alla stagnazione economica, alla disoccupazione e al ricatto del debito per tutti gli europei. Si tratta di trovare soluzioni comuni al debito pubblico crescente (una conferenza sul debito), alla mancanza di investimenti e all’economia stagnante (un New Deal per l’Europa), alle banche zombie (una vera unione bancaria) e alla disoccupazione a due cifre (un piano straordinario di occupazione) come problemi che riguardano tutta l’Unione. È una battaglia, in una parola, condotta per ottenere una diversa politica economica europea.2

Sappiamo com’è andata a finire:

le banche greche vengono strangolate, la popolazione ridotta allo stremo, i ricatti e l’intransigenza delle tecnocrazie europee raggiungono un apice mai visto fino ad allora e senz’altro mai applicato nei riguardi dei nazionalismi autoritari dell’Est Europa. La stessa BCE […] scende in campo con tutte le armi di cui dispone, anche se questo significa violare il proprio mandato e rinunciare a garantire la stabilità del sistema bancario europeo. La guerra viene vinta. Nonostante una schiacciante maggioranza respinga nel referendum del luglio 2015 l’accordo offerto dalla Troika, Syriza finisce per capitolare e accettare le condizioni imposte dall’Eurogruppo: austerità draconiana e la piena garanzia del proseguimento della Grande Depressione a fronte di un rifinanziamento del debito del paese e vaghe promesse di un possibile sconto di pena per buona condotta.3

Se la Grecia fosse stata una repubblica scientista, sarebbe cambiato qualcosa? L’economista Yanis Varoufakis non aveva avuto bisogno di un elettorato passivo privilegiato per proporre un New Deal. Ma i vertici politici e tecnocratici dell’Unione europea, rivelando quale fosse la loro effettiva gerarchia di valori, schiacciarono la democrazia greca con durezza estrema. In un quadro come questo, in cui le decisioni degli stati sono dettate dall’esterno perfino per quanto concerne la pace e la guerra, l’unica classe politica che può sopravvivere è quella che non si propone di cambiare il mondo, ma di perseguire il proprio “particulare”; e l’unico elettore a cui rimangono dei motivi per andare a votare è quello che spera di ottenere un favore o una vendetta per qualche suo piccolo risentimento, in un orizzonte altrettanto ristretto.
Wilhelm von Humboldt, in un momento di gravissima crisi, inventò un sistema che affidava la garanzia dell’autonomia delle istituzioni di ricerca a uno stato problematicamente assunto come capace di autolimitarsi. Era infatti convinto che, in una società aperta, una ricerca libera, sola e cooperativa avrebbe avuto ricadute politiche, sociali e culturali che si sarebbero realizzate come effetti collaterali e non nella forma burocratica di incarichi da assumere e di prodotti da consegnare. Si tratta, ora, di capire se, dalla gabbia d’acciaio che tiene oggi prigioniere sia la scienza sia quel che resta della democrazia, sia possibile immaginare vie d’uscita amministrative che non siano esenti dal rischio di renderne più fitte e complesse le sbarre.

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  1. Yanis Varoufakis, Lorenzo Marsili, Il terzo spazio Oltre establishment e populismo, 2017, p. 5.
  2. Ibidem, p. 45.
  3. Ibidem, p. 47.
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One thought on “Politiche della scienza: Francesca Di Donato, Giovanni Molteni Tagliabue”

  1. L’articolata presentazione del mio testo mi permette di contribuire con alcuni chiarimenti.
    Quanto al paragrafo introduttivo, non penso sia adeguato descrivere REDemo come un progetto “di riforma politica della scienza istituzionale”. Utilizzando la corrente terminologia inglese, non si chiede tanto un cambiamento della science policy (la politica della scienza: anche se, come spiego oltre, questo sarebbe un aspetto importante dell’azione che scienziati/esperti eletti in organi legislativo-esecutivi potrebbero portare avanti). Né la mia proposta invoca l’uso della science for policy nel senso corrente: infatti, oggi quell’espressione indica il paradigma Science Speaks to Power, un modello inefficace che nel libro critico a fondo. Potrei dire che REDemo delinea una struttura in cui la science for politics/policy travalica sostanzialmente la visione degli scienziati/esperti come consulenti dei decisori politici, o “honest brokers” che cercano (spesso con scarso o nullo successo) di informare le scelte pubbliche con le evidenze disponibili: li immagina invece come direttamente collocati nelle stanze dei bottoni legislativo-governative, in parallelo con i politici tradizionali – come questi ultimi, tali accademici sono eletti a suffragio universale. Per concludere questa disquisizione terminologico-concettuale, sgombrando un altro possibile equivoco, gli scienziati eletti non sarebbero una sorta di personificazione della policy science; la quale, in termini lasswelliani, indica l’analisi della rilevanza delle conoscenze disponibili quando sono all’opera nelle decisioni (soprattutto pubbliche a livello governativo) e dei meccanismi che gli studiosi evidenziano in tali dinamiche.
    In effetti, confido che gli scienziati eletti sarebbero “meno esposti ai vizi dei politici di mestiere grazie anche al limite dei mandati”, ma non è questo il principale aspetto istituzionale che favorirebbe l’auspicata riforma della democrazia (in ogni paese che volesse attuare la riforma). A mo’ di contraltare a quelle che ho descritto nella pars destruens come le sette piaghe della democrazia, ho elencato nella pars construens – spero non troppo ottimisticamente – gli altrettanti vantaggi della riforma REDemo, che condurrebbero a una sperata diminuzione delle problematiche negative; tale miglioramento sarebbe legato a incentivi diversi che gli scienziati/esperti eletti avrebbero – almeno in parte – rispetto ai politici tradizionali, nonché a dei meccanismi istituzionali e procedurali che ne indirizzino l’operato.
    Dopo questa importante precisazione iniziale, dico la mia su alcuni dei punti trattati.
    1. Integrità e autonomia della ricerca
    È noto come questo tema sia centrale per la prof.ssa Pievatolo – e a buona ragione. L’argomento è certamente complicato e intricato: sebbene non sia questo il luogo dove delineare possibili soluzioni, suggerisco che, in un quadro REDemo rinnovato, gli accademici eletti potrebbero intervenire in tale ambito con adeguate azioni legislative/regolamentatorie/governative – cosa che i politici non hanno in cima alle loro agende (molti di loro, neanche in fondo…). Immaginiamo allora che la prof.ssa Pievatolo, che conosce a fondo la materia e che, come accademica, ha titolo alla candidatura per l’Assemblea Scientifica Nazionale, concorra e si aggiudichi un seggio, presentando un programma con le sue idee, convincendo l’elettorato della necessità di una profonda riforma: raccoglierà probabilmente il consenso dei colleghi eletti e negozierà con il ramo politico-partitico un deciso intervento volto a reimpostare la valutazione della ricerca e, parallelamente o conseguentemente, il settore dell’editoria scientifico-accademica. Se Pievatolo non è interessata a condurre personalmente tale azione, cioè non è disposta a candidarsi, può coinvolgere alcuni colleghi eletti che abbiano a cuore il problema; mentre, nel quadro attuale, sembra difficile attirare l’attenzione dei decisori politici. Uno scenario del genere sembra attraente?
    Questo è solo un esempio di come REDemo, espressamente concepito come una meta-riforma, potrebbe migliorare i meccanismi del policymaking e “razionalizzare” le dinamiche democratiche.
    2. Scienziati applicati
    La prima obiezione è fondata e importante: il rischio è che l’attenzione degli elettori – e di conseguenza una parte significativa dei voti – converga su scienziati che si candidano alle Assemblee scientifico-legislative puntando più sul supporto che deriva loro dalla visibilità già acquisita sui media o sui social che su programmi costituzionalmente solidi e ben articolati. Ho trattato l’argomento nel capitolo II.20. A big challenge for public experts, in particolare in riferimento all’esistenza in accademia di fringe scientists e postmodernisti; ho dato qualche indicazione relativa a una possibile scrematura – che su base statistica appare probabile – di tali individui (contando che siano una minoranza); i quali spesso, mi pare, non sono eterodossi in senso critico-costruttivo, ma bastian contrari a prescindere. Teniamo inoltre presente che l’uso della richiamata “spada del potere”, in mano ad accademici che ci mettano le mani sopra, sarebbe accuratamente regolamentato: nello stesso capitolo citato, ho ricordato l’abietto (per gli ideali democratici) fenomeno degli intellettuali innamorati delle dittature, di cui nel secolo scorso non mancano esempi. Ma ho scritto (mi traduco): “sembra difficile immaginare, oggi, una maggioranza di accademici eletti in ambito legislativo e politico che sostenga posizioni fortemente pregiudiziali/prevenute [biased] come è accaduto in passato. In ogni caso, riteniamo che la necessaria stretta aderenza e riferimento dei programmi agli articoli costituzionali, l’equilibrio con i partiti politici democratici e la costante deliberazione con il pubblico disinnescherebbero tali minacce.” Certo, se la visione profondamente pessimistica di Pievatolo è fondata (“se la spada è già stata usata a monte, nella valutazione amministrativa della ricerca, per attribuire visibilità e promozioni”), le speranze in un rinnovamento nei termini da me auspicati si affievoliscono alquanto. Però spero che nelle università e istituti di ricerca (in Italia e altre democrazie) le ragioni delle carriere stiano anche o soprattutto, nella maggioranza dei casi, nel valore scientifico e nell’onestà deontologica di chi affronta questi percorsi. E comunque, ho sempre cercato di incoraggiare nel lettore un atteggiamento di immaginazione comparativa: visto il livello di incompetenza, non di rado di cialtronaggine, che affligge importanti fasce della classe politico-partitica nelle democrazie, non si può sperare che la cooptazione di accademici eletti nella gestione della cosa pubblica possa migliorarne le dinamiche – poco o tanto (io spero tanto)? Questa è la scommessa di REDemo.
    Rispetto alla mia indicazione di “quali scienziati prestare alla politica”, ho già recepito questo tipo di commento da alcuni lettori di una precedente bozza. Spiegando il mio punto di vista, ho scritto nel capitolo II.18.4. Informare la politica con competenza:
    “Le sezioni previste delle assemblee scientifiche dovrebbero interessare maggiormente le aree in cui le scelte pubbliche possono essere aiutate dalla competenza politica (diritto, scienze politiche, economia, sociologia, pianificazione territoriale/urbanistica, progettazione industriale/infrastrutture, biotecnologie, agricoltura, istruzione, salute, ambiente, cultura, università e ricerca, filosofia morale): sono queste le competenze che possono avere un ‘ritorno’ benefico se tradotte in decisioni collettive razionalmente progettate, basate sull’evidenza, costituzionalmente fondate. Per quanto importanti e significativi possano essere tutti i campi della conoscenza, pensiamo che il governo possa trarre il massimo vantaggio dagli specialisti in campi che hanno un collegamento diretto con la vita socio-politico-economica, ma i professori di arti e lettere possono essere ottimi legislatori e ministri nella politica dell’istruzione o nel patrimonio culturale.”
    Poi ho aggiunto una nota importante:
    “In effetti, lo sviluppo della ricerca ‘disinteressata’ della conoscenza dovrebbe essere incoraggiato. Il valore di coltivare zone scientifiche che apparentemente non hanno un uso pratico immediato è dimostrato da un recente esempio di sorprendenti progressi nelle scienze della vita: tecniche di editing genetico (in particolare CRISPR), che sono estremamente promettenti in vari settori delle biotecnologie (medico, agroalimentare). cibo, bio-risanamento di suoli inquinati, ecc.) sono stati sviluppati da studi riguardanti alcuni oscuri meccanismi di difesa che i batteri operano contro i virus (vedi EASAC 2017). Le due scienziate che hanno scoperto il fenomeno e ne hanno previsto le applicazioni sono stati insignite del premio Nobel per la chimica nel 2020”.
    Confermo il mio orientamento a vedere le assemblee di scienziati/esperti eletti e la loro partecipazione al governo come impegni eminentemente pragmatico-operativi: grandi medici o eminenti genetiste potrebbero non avere alcun interesse, e nemmeno adeguate capacità, per dare un contributo fattivo in uno schema REDemo; se invece le avessero (penso a un Umberto Veronesi, o alla stessa Elena Cattaneo), sarebbero una risorsa preziosissima. Così, ho espresso l’opinione che un’Assemblea Scientifica Nazionale possa sostituire un Senato oggi esistente (anche se non in alcune democrazie federali), ma ribadisco che non sarebbe una sorta di camera alta: per quanto riguarda le procedure e i meccanismi legislativi, il corpo politico-partitico e quello legislativo scientifico sarebbero sullo stesso piano, in una sorta di rinnovato bicameralismo perfetto. Quanto alla struttura e, per così dire, la ripartizione interna delle assemblee scientifiche, sono aperto a suggerimenti: tuttavia, non credo che debba essere riservato alcun posto a cariche onorarie, come i “senatori a vita” italiani non eletti.
    Inoltre, non mi ha mai convinto il presunto/asserito concetto di “fine della storia”: il grande sforzo della democrazia (nazionale e sovranazionale) non è solo una questione di amministrazione delle dinamiche politiche; il progetto REDemo è volto a favorire la realizzazione sostanziale degli obiettivi e degli scopi delle costituzioni democratiche, oggi in uno stato di attuazione parziale e diseguale.
    Il riferimento all’Iran come “democrazia” è irricevibile. Secondo il vasto, argomentato e accurato Democracy Index 2022 dell’Economist, quel paese si piazza alla posizione 154 su 167 considerati, persino peggio di dittature conclamate come Bielorussia e Arabia Saudita. Sostenere che si tratti di una democrazia perché “riconosce la separazione dei poteri, il carattere elettivo del potere legislativo, le garanzie giudiziarie e i diritti civili” è un gioco di parole; infatti, viene subito precisato che il potere è – di fatto e di diritto – in mano a una casta di sacerdoti. Al di là dell’ormai pluridecennale storia di repressione del regime degli imam, ci si trova costretti a fare riferimento alle sconfortanti cronache degli ultimi mesi ,per chiedere se ci sia un pur minimo rispetto delle “garanzie giudiziarie e dei diritti civili”… Se questa è la disturbante realtà empirica che sta sotto gli occhi del mondo, è agevole rintracciarne le basi teoretiche e istituzionali, in quanto riferirsi all’Iran come a una “democrazia teocraticamente custodita” (peraltro, l’Iran si definisce “Repubblica islamica”) innesca un cortocircuito semantico – una stridente contraddizione in termini: “Un consiglio dei guardiani di dodici membri, in cui sei giuristi islamici (fuqaha) sono nominati dalla guida suprema e sei giuristi civili di fede islamica sono eletti dal parlamento, esamina la compatibilità delle norme approvate dal potere legislativo con l’Islam e vaglia le candidature alle cariche elettive.” Detto in breve, tale supervisione – usiamo un termine leggero – ex-ante (non può candidarsi chi non guadagna il patentino di buon musulmano rilasciato dai censori) ed ex-post (le leggi non passano se non ritenute aderenti all’arbitraria ortodossia, dogmaticamente imposta) svuota del tutto le libere dinamiche socio-politiche, riducendo l’asserita “democrazia” – se e quando i governanti iraniani la dichiarassero come ideale – a mero flatus vocis.
    Quindi, istituire un parallelo tra la “legittimazione” pseudo-democratica della dittatura iraniana e la struttura istituzionale vagheggiata da REDemo non ha senso: ho speso l’intera introduzione del mio libro per riassumere la robusta base teoretica della necessità di considerare insieme la forma e la sostanza delle costituzioni autenticamente democratiche, per distinguerle dalle sedicenti democrazie, di cui abbiamo tanti desolanti esempi negli ultimi decenni. Tra l’altro, citando un noto politologo, ho scritto: “Il termine ‘democrazie popolari’, coniato all’indomani della seconda guerra mondiale, è essenzialmente fuorviante. Nessuna persona ragionevole è mai stata indotta da questo a pensare che questi stati controllati dai sovietici fossero governati democraticamente nel senso comune del termine. Chiaramente i cittadini degli stati stessi non avevano tale illusione.” (Birch 2007, p. 110) E ho aggiunto: “Ci si potrebbe anche interrogare sul significato della Repubblica Popolare Democratica di Corea (Corea del Nord).” Quindi, ovviamente, nella struttura istituzionale da me immaginata non può esserci posto per una Corte suprema come quella iraniana, la cui legittimità democratica è inesistente, visto che metà di essa è nominata dal papa islamico e metà da un parlamento pre-setacciato – e, notiamo di passaggio, alquanto gender-biased, visto che le donne oscillano storicamente tra il 3% e il 6% (il che non dovrebbe sorprendere nessuno). Negli Stati Uniti ferve da tempo un dibattito (da me brevemente descritto nel finale del capitolo II.10. Legitimacy) tra i costituzionalisti che vedono la SCOTUS come scarsamente legittimata, ovvero come un’anomalia del sacrosanto bilanciamento dei poteri che le democrazie dovrebbero garantire, e quelli che ne difendono il ruolo: disputa tipica in una repubblica in cui vige la libertà di discussione. Immaginiamo invece che fine può fare un giurista iraniano che si alzi a rilevare l’inadeguatezza pseudo-democratica della suprema istituzione statale nel suo paese…
    Né mi pare corretto dire che il mio progetto prevede “il riconoscimento costituzionale di una categoria di esperti che si sono affermati come tali in istituzioni diverse dallo stato democratico”. Infatti, le università e gli istituti di ricerca pubblici (o pubblicamente riconosciuti) sono enti a buon diritto inseriti nella struttura delle democrazie. Cito dal mio capitolo II.10. Legitimacy (dove porto vari argomenti a favore sia della input legitimacy che della output legitimacy delle Assemblee scientifiche legiferanti) : “Gli studiosi delle università o di istituzioni assimilate costituiscono una categoria giuridicamente ben individuata, nella quale la cooptazione avviene mediante concorso pubblico, secondo i termini stabiliti dalla legge: mentre tale procedura legittima gli esperti a livello professionale, può fungere anche da base preliminare per la giustificazione di un ruolo ufficiale che un certo numero di accademici, con mandato a tempo determinato e con adeguata rotazione, potrebbe ricoprire negli organi legislativi ed esecutivi.” Quanto alla “limitazione dell’elettorato passivo” nello schema REDemo, se è vero che la riserva dei posti nelle Assemblee scientifiche vede una barriera alle candidature non eligibili (chi non è scienziato pubblico non vi può concorrere), questo meccanismo si applica solo a metà delle camere legislative: a nessun cittadino viene precluso di candidarsi nel settore politico-partitico.
    3. Crisi nella democrazia o crisi della democrazia?
    Nella pars destruens del mio libro ho argomentato a lungo che i difetti che ho cercato di sviscerare sono strutturali, inerenti all’attuale quadro delle democrazie, e quindi ineludibili in questo contesto. Certo, la profondità delle distorsioni generate dal fallo fondamentale individuato da Schumpeter (“Il metodo democratico produce legislazione e amministrazione come sottoprodotti della lotta per il potere politico”) e dai suoi sei corollari negativi è, come ho scritto, un questione di indagine empirica, “a seconda delle persone, delle situazioni, dei deterrenti efficaci e del livello di cultura ed etica pubblica in un dato ambiente politico/istituzionale/storico” (I.1. The seven flaws of democracies). Così, mentre mi astengo dal discutere se qualsiasi quadro democratico sia destinato a essere malfatto a causa dell’intrinseca natura umana (il kantiano “legno storto dell’umanità”), cerco di offrire, con REDemo, un progetto di miglioramento.
    In questo senso, è interessante il riferimento di Pievatolo al New Deal. Come ho scritto (cfr. 1.1. Form and substance in Constitutions), la grande riforma che FDR seppe realizzare negli USA non era completa: “Nel 1944 il presidente Franklin D. Roosevelt annunciò che la Costituzione doveva essere arricchita con una Seconda Carta dei diritti (sociali ed economici): diritto a lavoro, cibo, vestiario e tempo libero con un reddito personale/famigliare sufficiente a sostenerli; diritto degli agricoltori a un reddito equo; libertà dalla concorrenza sleale e dai monopoli; alloggio; cure mediche; previdenza sociale; formazione scolastica. L’emendamento costituzionale non fu redatto, ma una serie di leggi federali (ad es. leggi sul lavoro e sull’agricoltura, il Civil Rights Act, leggi sulla sanità ecc.) sono state ispirate da quella filosofia (vedi Sunstein 2004): non mancano gli appelli di giuristi accademici per attuare tale un importante miglioramento della costituzione americana, incorporando i diritti socio-economici nel testo costituzionale (vedi ad esempio Michelman 2015).” Una rinnovata struttura istituzionale REDemo potrebbe essere in una posizione migliore per portare avanti quel gigantesco compito – certamente più delle attuali entità partitiche così polarizzate, fratturate e litigiose.
    Per quanto riguarda le gravi difficoltà che la Grecia ha dovuto affrontare durante e dopo la Grande Recessione, o simili esempi di adesione forzata di paesi fortemente indebitati alle condizioni imposte dalle istituzioni finanziarie internazionali, temo di non avere particolari spunti da offrire: ho chiarito che un limite di REDemo – almeno per ora – è nella sua (auspicata) applicabilità a livello nazionale e subnazionale. Ho alcune idee su un possibile allargamento della proposta di riforma oltre i confini statali, ma questo sarà oggetto di eventuali sviluppi futuri (ad esempio, è teorizzabile una seconda camera scientifica a livello di Parlamento EU?). Quindi, alla domanda retorica posta da Pievatolo (“Se la Grecia fosse stata una repubblica scientista, sarebbe cambiato qualcosa?”) la mia mesta risposta è: “Credo di no.” Viviamo tuttora in un mondo semi-westfaliano, in cui la dialettica tra azioni legislativo-governative assunte autonomamente dagli stati e l’interdipendenza con istituzioni politiche sovra-nazionali è mobile e cangiante: però i singoli parlamenti e governi hanno ancora ampie aree di intervento autonomo nei propri territori, e le classi politiche dei vari paesi certamente concorrono a orientare leggi e regolamenti a livelli geopolitici più ampi. In questo spazio, con i limiti dichiarati, possibili parlamenti e governi REDemo avrebbero un ruolo progressista.
    Quanto alla richiamata convinzione (o auspicio?) humboldtiana che “in una società aperta, una ricerca libera, sola [?] e cooperativa avrebbe avuto ricadute politiche, sociali e culturali che si sarebbero realizzate come effetti collaterali”, temo pecchi di sostanziale irrealismo: è cioè vero che la libertà di ricerca scientifica ha molteplici benefici effetti sulla società; ma questo positivo trickle down ha scarso impatto sulla politica politicante – da cui l’inanità del modello Science Speaks to Power. In questo senso, condivido solo a metà il pessimismo di Pievatolo, quando lamenta la “gabbia d’acciaio che tiene oggi prigioniere sia la scienza sia quel che resta della democrazia”: nella mia analisi (pars destruens del libro), la iron cage delle democrazie non è quella individuata da Weber, ma è piuttosto una delle forme assunte dalla iron law of oligarchy di michelsiana memoria, quella politico-partitica come definita nel già citato cupo teorema di Schumpeter. Ritengo invece solo parzialmente fondata l’immagine di una scienza prigioniera: con tutte le difficoltà epistemologiche che assediano la nozione di progresso nelle scienze sociali, almeno nelle scienze naturali abbiamo assistito e stiamo assistendo a notevoli sviluppi e a conquiste significative; con ricadute certamente positive, ad esempio in medicina, sull’esistenza di molti. Di molti e non di tutti, e in modi troppo diseguali: qui entra in ballo la politica – e la pars construens di REDemo.
    Per finire: chi mi legge avrà notato che queste considerazioni sono infarcite di condizionali: ciò è ovviamente dovuto al fatto che – al di là delle novità teoriche, che si sperano interessanti – non abbiamo alcuna esperienza (se non limitatissima, insufficiente e ondivaga, con le cosiddette Autorità indipendenti) del cambiamento istituzionale immaginato, e la sua realizzabilità non potrà non incontrare un coacervo di difficoltà (che ho cercato di anticipare nella Conclusion del libro).
    P.s. – Preferirò sempre l’espressione “democrazia razionalizzata (ed estesa)” a “repubblica scientista” usata da Pievatolo: forse non sarebbe sbagliato parlare di “democrazia semi-scientista”: ma anche tale etichetta sa un po’ troppo di tecnocrazia – nozione che ho duramente criticato (v. II.8. No technocracy, no Platonism).

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