Scienza aperta: solo una questione di adempimenti?

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I would prefer not toPaola Galimberti ha reso pubblico su Zenodo.org un breve articolo, Open Science: cambiamento culturale cercasi, per offrire un resoconto ragionato del modo in cui  l’università statale di Milano ha perseguito e va perseguendo l’apertura della scienza.

La Statale, negli anni. ha reso disponibili strumenti, quali gli archivi istituzionali per il deposito di testi e dati della ricerca e una piattaforma per pubblicare riviste ad accesso aperto e gratuito sia dal lato del lettore sia da quello dell’autore, ha deliberato discipline, e ha monitorato e diffuso i dati sui loro effetti e sui loro costi. Buona parte delle amministrazioni universitarie si interessano di scienza aperta per lo più in virtù di quanto imposto dai bandi dell’Unione Europea, in Italia indebitamente assunti a surrogati del finanziatore ordinario. L’ateneo milanese ha dunque l’ulteriore merito di averla perseguita in un ambiente che le è indifferente se non ostile. L’articolo, però, non è stato scritto per celebrare l’efficienza milanese, bensì per chiedere se – a Milano e altrove – sia possibile superare la logica dell’adempimento amministrativo per trasformare la scienza aperta in una pratica di ricerca diffusa e condivisa.

Quando, all’inizio dell’età moderna, la scienza cominciò la sua rivoluzione, la  pubblicità – come strumento di discussione e di falsificazione –  s’impose senza aver bisogno di essere imposta. Perché oggi, invece, viene perseguita come un adempimento amministrativo esteriore – così esteriore che pochissimi si sono resi conto che certi contratti detti trasformativi trasferiscono semplicemente in scrittura l’oligopolio in lettura di una manciata di editori scientifici commerciali?

La scienza aperta, se presa sul serio, è tale non solo nel suo medium ma anche nei suoi fini, entro un orizzonte che supera la durata del corpo e del nome del singolo  studioso: la conversazione non può e non deve aver conclusione perché chi indaga è un essere finito destinato a essere superato.  Anche per questo  – perché agli esseri finiti è difficile fare i conti con la propria fine – è stato semplice addestrare i ricercatori alla logica dell’adempimento burocratico, con incentivi e disincentivi individuali a brevissimo termine, ancorché di valore scarso o addirittura controproducente. L’università di Milano persegue l’open science con un certo grado di democrazia – si pensi per esempio alla sua commissione per l’accesso aperto che, invece di essere emanazione di un rettore-monarca, è composta dai delegati dei dipartimenti – ma che cosa ci impedisce di rappresentarla, entro la camicia di forza burocratica che impoverisce e comprime la ricerca italiana, come un mero esempio di efficienza amministrativa, ancora interamente prigioniero della logica dell’adempimento?

A questa domanda, proposta da chi scrive, ha tentato di rispondere Roberto Caso:

L’università di Milano ha devoluto risorse e investito sistematicamente in un’organizzazione favorevole alla scienza aperta; l’ha fatto con un processo trasparente e, soprattutto, dedica tempo e spazio alla formazione e all’informazione dei ricercatori.
Ciò dovrebbe essere sufficiente a convincerli che la scienza aperta è l’unico modo di fare scienza. In altri termini, dovrebbe scavare la differenza tra adempimento burocratico e obbligo morale (o anche semplice opportunità per se stessi e per tutti). Ma i ricercatori vivono nel mondo dell’università-azienda e hanno ormai talmente metabolizzato la logica dei premi e punizioni da non riuscire a concepire un mondo diverso. Anche quando premi e punizioni non sono istituzionalizzati a livello di ateneo il maggior incentivo a pubblicare in OA è la speranza di essere più citati.
Paola Galimberti ha più volte evidenziato che a Milano molte cose sono state fatte perché l’ateneo aderisce a LERU che applica ai suoi soci la logica di premi, punizioni e misure [ancorché solo reputazionali – N.d.R.]. Il che non sorprende e chiude il cerchio.

La discussione sull’articolo di Paola Galimberti, anteriore alla sua pubblicazione, è qui riportata sia perché rientra nella nostra prassi di revisione paritaria aperta, sia perché chi vi ha partecipato è convinto che la questione dell’open science, se emancipata  dalla logica dell’adempimento burocratico, potrebbe aiutare a ridiscutere il senso e il ruolo dell’università, almeno per chi non si accontenta di ridurla “a una mera strutture contabile, dove alla gerarchia priva di autorità di gruppi accademici che si azzuffano nella difesa d’interessi minimali si affiancano la degenerazione e la corruzione caratteristiche degli apparati aziendali e amministrativi“.

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Humboldt e l’idea di università: invito alla revisione paritaria aperta

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Bust of Wilhelm von Humboldt, by Bertel Thorvaldsen, 1808L’ università disegnata da Wilhelm von Humboldt all’inizio del XIX secolo, con la sua unione di didattica e ricerca per il superamento del sapere cristallizzato dei manuali scolastici, è qualcosa che molti pensano di conoscere già. Non tutti, però, hanno letto il testo classico di cui il Bollettino telematico di filosofia politica propone alla revisione paritaria aperta una nuova traduzione sotto licenza Creative Commons by-sa. La versione di Pia Di Fidio, curata da Fulvio Tessitore e stampata  ben 47 anni fa, è, infatti, ad accesso chiuso – pur essendo parzialmente visibile qui.

L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino  è un frammento inedito scritto nel 1809-10 che fu fatto circolare  informalmente e venne riscoperto in archivio solo alla fine del XIX secolo da parte dello storico Bruno Gebhardt. Oggi, a dispetto della sua influenza, non avrebbe meritato il rango di  “pubblicazione scientifica” per la valutazione di stato della ricerca italiana.

Il documento ufficiale di fondazione dell’università di Berlino fu il più ministeriale Antrag auf Errichtung der Universität Berlin, indirizzato a Federico Guglielmo III. Questa proposta non menziona né la solitudine e libertà dell’istituzione universitaria, né l’unione di ricerca e didattica: più pedestremente, suggerisce di rendere l’università finanziariamente indipendente dal potere esecutivo tramite la concessione di beni demaniali e la contribuzione della cittadinanza. Non è però pedestre l’idea di unificare le varie istituzioni e accademie berlinesi in una nuova università – in un momento di gravissima crisi che aveva costretto lo stato prussiano, sconfitto a Jena e ad Auerstädt, all’umiliante pace di Tilsit.

Edite o no, le idee di Humboldt erano nell’aria. La contemporanea Madame de Staël, nel XVIII capitolo del suo De l’Allemagne, metteva in relazione il genio filosofico dei tedeschi proprio con l’indipendenza della loro università e la libertà di pensiero conferita dalla distanza dei suoi studiosi dalla carriera politica e dalla formazione professionale.

Nell’Europa del processo di Bologna, con la sua burocrazia, i suoi controlli e il suo linguaggio economicistico, queste idee sono rappresentate ora come le armi della reazione di un’élite di privilegiati, ora come un mito di resistenza per chi non si piega a ridurre l’istruzione superiore a mero addestramento professionale. Quale delle due letture è la più pertinente? E che cosa le rende così ostili e reciprocamente impermeabili?

Non risponderemo, qui, a queste domande. Lo faremo separatamente, per non imporre un’interpretazione pregiudiziale  ai revisori che vogliono commentare questa versione, la quale, senza nulla togliere alla traduzione del 1970 di cui si riconosce debitrice, ha un unico pregio ulteriore: quello di essere aperta e dunque migliorabile e aggiornabile.

Per un sommario ma essenziale inquadramento storico e filosofico merita, tuttavia, di essere letto un articolo recente di Volker Gerhardt, che si conclude così:

La sua idea presupponeva un distacco deciso dalla concezione francese della scuola superiore professionale e realizzava, del progetto di Kant, solo quanto egli aveva sperato per la facoltà filosofica – tuttavia tramite l’inclusione delle discipline professionalizzanti. Queste si dovevano praticare nello spirito della ricerca e dell’auto-educazione del singolo, e precisamente in un modo tale che anche gli studenti potessero prender parte all’apprendimento e all’indagine. Dai professori ci si aspettava che, in “solitudine e libertà”, dessero un esempio di indipendenza individuale. L'”autonomia”, così, non era solo un ideale per la costituzione dell’istituzione, ma anche una massima per tutti i membri dell’università.

La rifondazione concepita da Humboldt ebbe un successo scientifico esemplare, anche perché riuscì a integrare le scienze sperimentali emergenti e a realizzare forme di cooperazione con l’accademia e altri collaboratori scientifici. Assurse a modello per la rifondazione delle università non solo in Germania, ma in tutto il mondo.

A questo la cosiddetta riforma di Bologna ha posto definitivamente fine.

Wilhelm von Humboldt, L’organizzazione interna ed esterna degli istituti scientifici superiori a Berlino

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Abilitazioni, sorteggi e misteri

Segnaliamo ai lettori che, a giudicare dai log, passano di qui in cerca di notizie sulle abilitazioni, l’articolo di Giuseppe Di Nicolao e Antonio Banfi appena uscito su Roars, intitolato Commissioni per le abilitazioni: i misteri dei sorteggi fai-da-te del MIUR.

Perchè il MIUR sorteggia le commissioni alla spicciolata violando il regolamento delle abilitazioni? Il Comitato tecnico nominato dal MIUR aveva previsto una regola “anti-brogli” per prevenire sorteggi pilotati. Perché è stata disattesa? Perché i sorteggi pubblici vengono annunciati con meno di 24 ore di anticipo?

Le domande di Roars riguardano anche il settore della filosofia politica, i cui commissari sono stati appena sorteggiati. E sono pertinenti e preoccupanti.

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L’università e le sue crisi: una riflessione storica

1. Universitas magistrorum et scholarium

UniversitasMentre molte ricette d’“eccellenza” per l’università si pretendono senza tempo, l’articolo di Jean-Luc De Meulemeester, economista, pubblicato recentemente su “Pyramides”, invita a pensare in una prospettiva storica ampia, disciplinarmente inconsueta.

Alle sue origini, nel Medioevo, l’università – come Universitas Magistrorum et Scholarium – era una corporazione dedicata all’insegnamento superiore (studium). Poteva organizzarsi come la Sorbona, con un legame lasco con la Chiesa e dei professori liberi di lasciare la cattedra o di astenersi dal lavoro che controllavano studenti giovani e poveri; oppure come Bologna, di origini laiche, con studenti più adulti e ricchi che governavano professori legati al loro posto. In ogni caso, sia che i docenti fossero stipendiati dalla Chiesa, come a Parigi, o dal Comune, come si finì per fare a Bologna, l’universitas non solo godeva della libertà dell’ambiente urbano, ma – dotata di un proprio sigillo – decideva sul reclutamento dei professori, aveva personalità giuridica e autonomia amministrativa e giurisdizionale interna. Così, in un mondo prevalentemente gerarchico, gli universitari riuscivano a far esperienza di relazioni orizzontali.

L’università medioevale produceva medici, teologi e giuristi. Era dunque professionalizzante, relativamente indipendente dai poteri politici ed ecclesiastici in virtù del suo diritto particolare, ma – in quanto monopolista dello studium – conservatrice e poco vocata alla ricerca. La ricerca era per lo più nascosta, o perché finanziata da privati per i loro interessi, o perché patrimonio di corporazione o perché – come nel caso dell’alchimia – proibita dalla Chiesa. A partire dal XV secolo l’affermazione dello Stato moderno, che mal tollerava i diritti particolari, spense l’autonomia dell’università, riducendola a centro di formazione professionale al suo servizio.

2. L’età moderna: la scienza aperta e la prima crisi dell’università

La scienza aperta basata sulla verifica e sulla discussione pubblica e finanziata senza scopo di lucro da mecenati privati o dallo stato s’impose prevalentemente fuori dalle università, tramite le accademie e le riviste. I finanziatori, dopo l’esplosione rinascimentale delle ricerca, non erano più in grado di valutare da sé che cosa fosse valido e che cosa no: le riviste e le accademie offrivano alla società – con la loro revisione paritaria e con la loro capacità di costruire una reputazione pubblica – criteri di giudizio più efficaci di quelli nascosti nel chiuso della ricerca segreta.

La fonte principale di De Meulemeester è il lavoro di Paul A. David, che esplora il nesso fra le strutture istituzionali e gli incentivi alla perseguimento della conoscenza pura. Quando la ricerca è proprietaria e segreta, ne traggono vantaggio solo alcuni; quando è libera e aperta, aumenta il patrimonio di conoscenza della società e la possibilità collettiva di applicarla in modo produttivo. Da un punto di vista funzionale, una ricerca pubblica aiuta a convalidare più rapidamente i risultati teorici, riduce i doppioni, facilita le indagini complementari e beneficia l’indagine altrui. Nella prima età moderna, in Europa, il passaggio alla scienza aperta appare in contrasto con la finzione dell’homo oeconomicus e del suo interesse a massimizzare l’utile proprio e a trascurare quello sociale: merita, dunque, di essere spiegato.

Questa transizione, storicamente eccezionale, è frutto di una convergenza della diffusione della stampa, della complessità del nuovo linguaggio matematico, della pluralità dei centri di potere religioso e civile con la pratica pre-capitalistica del mecenatismo, a fini utilitari o ornamentali. Quando il linguaggio del sapere diventa complesso, i mecenati desiderosi di selezionare beneficiati che diano loro prestigio traggono vantaggio da un sistema di validazione collettiva, e analogamente gli scienziati si costruiscono – grazie alle accademie e alle loro reti di conoscenze – una reputazione pubblica, che li rende interessanti per i potenziali finanziatori. Nella seconda metà del XVII secolo, quando le monarchie assolute vollero soppiantare i nobili nella competizione per il prestigio, dovettero solo istituzionalizzare l’esistente, che si era rivelato capace di progresso, sebbene d’élite, sia per la pubblicazione, sia per la cooptazione accademica.

 A essere generosi si potrebbe concludere che questo sia un esito sociale sub-ottimale (o forse sub-sub-ottimale) – che assicura a chi riesce a entrare l’efficienza dello scambio di informazione scientifica come bene di club, ma perde la possibilità delle esternalità positive ancora più grandi che sarebbero derivate da una approssimazione maggiore a un regime scientificamente meritocratico e universalmente aperto nel perseguimento della conoscenza. (P. A. David, The historical origins of “open science”, p. 68)

3. Dall’Illuminismo a Humboldt: l’universitas scientiarum

Nel XVIII secolo si aggiunse alla concorrenza delle accademie nel campo della ricerca quella delle nuove scuole speciali, ispirate dall’interesse illuministico per un sapere applicabile, nella formazione professionale: la crisi delle università, che proponevano uno studium ormai ripetitivo e obsoleto, trovò soluzione solo all’inizio dell’Ottocento, con la riforma di Wilhelm von Humboldt.

Dopo la sconfitta di Jena (1806) i riformatori prussiani si resero conto dell’importanza del capitale umano per il progresso economico e tecnologico di una nazione e immaginarono un sistema che favorisse innovazione e progresso tramite una democratizzazione dell’accesso all’insegnamento, un incremento dell’istruzione generale e una convergenza culturale di élites e classi produttive. Il loro progetto, sebbene depotenziato per la caduta di Napoleone, ebbe come frutto un’universitas scientiarum che riuniva in sé la funzione dello studium e quella della ricerca, s’ispirava alla scienza aperta e s’incentrava sulla filosofia come facoltà “federativa”: il finanziamento statale e il posto fisso offrivano ai professori una prospettiva disinteressata e un orizzonte di ricerca ampio. Il successo del modello tedesco nella ricerca innovativa – negli anni compresi tra il 1901 e il 1933 la Germania ottenne 13 premi Nobel per la chimica, 10 per la fisica – lo rese oggetto d’imitazione in tutto il mondo.

4. La crisi del modello humboldtiano

Il sistema humboldtiano ha due limiti:

  • la combinazione di didattica e ricerca è stata pensata per un’università d‘élite e non di massa;
  • la protezione dal mondo esterno tende a creare un ambiente conservatore e socialmente inerte – come mostra l’acquiescenza della maggioranza dei docenti italiani e tedeschi di fronte alla soppressione fascista e nazista della libertà della ricerca.

Con la crisi economica del 1973, il modello humboldtiano incontra le prime difficoltà, mentre il finanziamento pubblico si riduce e le condizioni di lavoro dei professori si deteriorano Margaret Thatcher apre la strada a un orientamento favorevole al taglio dei fondi, alla concorrenza fra atenei, alla valutazione amministrativa della ricerca, alla licenziabilità dei professori, al perseguimento di obiettivi stabiliti dal governo e al finanziamento secondo la performance. Questi disegni rappresentano se stessi come ispirati a ideologie neoliberiste ma comportano pesantissimi interventi dello stato, che impone ai ricercatori obiettivi fissati dall’esterno e una gerarchia di accountability anch’essa esterna alla comunità scientifica. Il professore universitario diventa un lavoratore dipendente come gli altri, entro un’organizzazione che imita i valori di quella aziendale: non più la scienza disinteressata e libera, ma al vertice il desiderio di potere e di denaro e alla base l’ubbidienza. Lo smantellamento dello stato giuridico dei docenti e della struttura relativamente orizzontale delle università è il segno più chiaro di questo mutamento. La rivoluzione scientifica europea è fiorita in un mondo lontano dall’aziendalismo e dal burocratismo della fine del secolo scorso: cambiare così profondamente le sue condizioni istituzionali incide sulla qualità e sulla motivazioni della ricerca, a meno di non voler credere che la “cittadella della scienza” non abbia niente a che vedere con la città su cui insiste.

5. Oltre

Mentre la rete rende possibile ampliare il collegio invisibile dell’uso pubblico della ragione, anche la scienza inventata nell’età moderna sta vivendo una crisi che – economicamente – si manifesta nella forma di un aumento spropositato dei prezzi delle riviste a causa delle rendite da oligopolio lucrate da una manciata di multinazionali dell’editoria scientifica. Superati i vincoli tecnologici ed economici dell’età della stampa, il carattere sub-ottimale delle soluzioni moderne è ormai divenuto evidente: quanto pochi secoli fa appariva “scienza aperta” è ora oligopolio e oligarchia, in perfetta armonia con lo spirito gerarchico e burocratico dell’università neoliberista. Non a caso, un’operazione autoritaria come la valutazione amministrativa della ricerca italiana cerca d’imporre una lista esclusiva di riviste come marchio d’eccellenza anche fra discipline – come le scienze umane e sociali – di struttura e tradizione pluralista. Proprio quando la cittadella della scienza ha donato al mondo una tecnologia di disseminazione in grado di superare le limitazioni elitarie, la città che le ha dato origine sembra temere sempre di più la libertà dell’uso pubblico della ragione.

Di fronte a una rivoluzione mediatica, con un potere statale impaurito e impoverito, non è né utile né saggio rifugiarsi nella nostalgia e nel suo equivalente istituzionale, l’accademia dei morti viventi, o in un monopolio dello studium anch’esso esposto a mutamenti profondi.

Il gran signore che finanziava le arti e le scienze per amore della propria reputazione appartiene a un passato pre-capitalistico, che poco ha che fare con gli oligarchi del mondo contemporaneo. E’ però entrata nella sfera pubblica una moltitudine di piccoli signori che potrebbero e possono non solo offrire forme di mecenatismo diffuso, privato o statale, ma anche partecipare e contribuire alla discussione, come citizen scientists.

La scienza del passato ha giustificato se stessa rispondendo a due questioni fondamentali:

  • quella del valore della ricerca “inutile”: la ricerca ha senso in se stessa o serve solo a fini economici immediati? Dobbiamo orientare le nostre vite e le nostre società secondo l’utile o possiamo permetterci il lusso della filosofia, naturale e no?
  • quella dell’insegnamento: è trasmissione di informazioni e addestramento, oppure costruzione comunitaria di conoscenza e dunque parte integrante della ricerca? Se scegliamo la prima opzione, lo studium può concentrarsi in corsi di massa on-line; se adottiamo la seconda no, o non esclusivamente.

La prima questione ha ricevuto risposta più volte, nell’antichità, nel Medioevo e nella modernità. Quando, nel secolo scorso, si è tentato di separare la ricerca dal problema del suo valore, ne è risultata la proletarizzazione economica e spirituale dei ricercatori e lo smantellamento del modello istituzionale e culturale che aveva reso possibile la rivoluzione scientifica.

La seconda si è illustrata nell’esperienza delle accademie, a partire da quella di Platone. Entrambi le risposte, però, sono state d’élite, e come tali è stato ed è facile estinguerle: dovrebbero diventare risposte di massa. Questa è la sfida che oggi studium e ricerca si trovano variamente ad affrontare: il loro spirito sopravviverà all’economia aziendale soltanto se verrà fatto comprendere alla società nel suo complesso. Per questo la pubblicazione ad accesso aperto e la sperimentazione di nuove forme di revisione paritaria sono cause meritevoli di essere perseguite, indipendentemente dal destino dell’istituzione:

Un intervento in un forum che nel 2004 “Nature” aveva dedicato all’open access affermava che alla società non interessa la letteratura di ricerca, bensì la disponibilità sul mercato dei suoi risultati e che sarebbe economicamente insostenibile addossare l’onere del pagamento per la pubblicazione altrimenti che al lettore. Senza addentrarsi in un dibattito a cui l’esperienza degli anni successivi ha offerto ulteriore materia, rimane però interessante mettere in luce i presupposti taciti di queste tesi, che si vogliono fondate sul punto di vista spassionato dalla “triste scienza”:

  • la scienza è una specie di scatola nera o di stabilimento industriale chiuso che sforna “prodotti”, e non un processo cognitivo e sociale: al pubblico interessa solo consumare quanto gli è messo sul piatto, e non certo capire perché la pietanza è così e non altrimenti;
  • la pubblicazione scientifica può sostenersi solo nella forma di un procedimento industriale su larga scala, che richiede editori ben addentrati nello spirito del capitalismo.

Nell’età della stampa la pubblicazione scientifica aveva bisogno di un’organizzazione industriale. Ne ha ancora bisogno, nell’età della rete, quando una rivista riceve una quantità di manoscritti tale da non poter più essere gestita come attività collaterale da parte di un gruppo di studiosi. Quando ci sono riviste mainstream – riviste, cioè, che si trovano nella parte alta della curva che rappresenta una distribuzione a legge di potenza. Privilegiare riviste di questo tipo è stato per molto tempo inevitabile, per i limiti tecnici ed economici della stampa e per le dimensioni dei budget e degli scaffali delle biblioteche. Ma i core journals sono davvero indispensabili perché possa darsi una scienza degna di questo nome?

Gli umanisti sono abituati al pluralismo delle scuole, adagiate nelle code lunghe delle distribuzioni a legge di potenza e ai processi lenti, dolorosi ed erratici con i quali un autore si trasforma in un classico: per loro è facile rispondere di no. Ma una risposta similmente negativa viene anche da chi si occupa con consapevolezza di comunicazione della scienza: il suo flusso, scriveva Pietro Greco nel 2005, ha gli strumenti per diventare più simile a quello della laguna di Venezia che a quello del Rio delle Amazzoni. Nel fiume l’acqua del sapere scende dall’alto verso il basso, dalle vette delle Ande all’oceano dell’ignoranza; in laguna circola illuministicamente allo stesso livello per una miriade di canali e canaletti, di isole e isolette, di ponti e ponticelli. Ci sono, certo, isole e ponti e canali più importanti, o più piccoli e periferici, ma questo groviglio, questa complicazione è la vita del sapere quando è libero, in una biodiversità capace di ospitare una moltitudine d’interessi e di modi di fare ricerca, compresi quelli che, secondo alcuni, non dovrebbero esistere affatto.

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Jean-Luc De Meulemeester (2012). Quels modèles d’université pour quel type de motivation des acteurs ? Une vue évolutionniste Pyramides (21)

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L’accademia dei morti viventi, parte quinta: l’università

[Segue da Parte quarta: la conservazione dei testi]

HR Giger Passage ILe riforme di K. Fitzpatrick – la revisione da pari a pari, la trasfigurazione comunitaria dell’autore, l’interpretazione del testo come luogo di discussione piuttosto che come prodotto, la socialità della sua disseminazione e conservazione – si fondano sulla convinzione che la pubblicazione accademica tradizionale sia divenuta economicamente insostenibile.

Le riviste delle multinazionali dell’editoria scientifica adottano un modello commerciale vantaggioso soltanto per loro, basato sull’oligopolio imposto dal marketing dell’ISI (ora: Thomson Reuters Web of Science) e sullo sfruttamento del lavoro gratuito dei ricercatori.  La loro prima vittima è la monografia umanistica, sacrificata negli acquisti delle biblioteche a causa dell’altissimo prezzo degli abbonamenti alle riviste.  Applicato alle University Press, questo modello sarebbe suicida, perché farebbe seccare un ramo vitale dell’istituzione per salvarne un altro.

L’accesso aperto può cambiare le regole del gioco. Il suo movimento, consapevole del legame fra l’oligopolio dei core journals e la crisi dei prezzi dei periodici, è animato da un interesse etico all’universalità della discussione scientifica e alla trasparenza della spesa pubblica.

Buona parte della ricerca umanistica è però scarsamente o per nulla finanziata. Non le si può dunque applicare il modello “authors pay”  di Plos, nel quale il prezzo imposto agli autori “ricchi” rende possibile offrire gli autori “poveri” una pubblicazione gratuita. Si può certo pensare a spostare la redditività dal prodotto al servizio e all’effetto di rete offerto da un sistema di oggetti ad accesso aperto. Ma, anche digitalizzata, la pubblicazione comporta una spesa per il lavoro umano e la tecnologia, specialmente nel caso di  progetti innovativi  come Vectors.

Per uscire dell’impasse occorre  far comprendere alle università che nell’età digitale le pubblicazioni non possono più essere licenziate per le stampe: ora la comunicazione del sapere è parte del laboratorio degli umanisti. Come nel caso del laboratorio degli scienziati, le sue strutture tecnologiche e le sue sperimentazioni devono essere trattate come componenti – e non come esiti – della ricerca. Nel 2009 la commissione Crui per l’accesso aperto aveva pensato a qualcosa di simile, proponendo la soluzione institutions pay a preferenza di quelle readers pay e authors pay.

Perché questa soluzione funzioni, le istituzioni devono cambiare. Le biblioteche, che hanno sempre avuto il compito di raccogliere testi e offrire servizi, possono essere il perno del mutamento. La funzione editoriale non può più essere delegata a un’industria separata dalle ricerca; le Universty Press devono riscoprire il loro ruolo originario di servizio per università che, a loro volta, devono ridiventare, da sedicenti centri d’eccellenza, luoghi di discussione e di pensiero, per il bene comune più che per l’utile economico individuale. Proprio per questo, come nell’accademia platonica, la comunicazione deve tornare ad essere un aspetto essenziale della loro vocazione.

La comunicazione del sapere si è allontanata dal sapere, per farsi intrapresa editoriale, perché si è preso a trattarla come un marchio d’eccellenza, da accertarsi competitivamente. Si teme che l’editore universitario al servizio della sua istituzione non selezioni quanto pubblica e perda di prestigio. Non si è però mai avuto un timore simile per le biblioteche, che curano la comunicazione delle università in entrata: per quanto le loro politiche di acquisto siano guidate dai bisogni degli utenti locali, forme di cooperazione come il prestito interbibliotecario e il consorzio le tengono aperte al mondo. E se le biblioteche portano il mondo nell’università, perché non ripensare, parallelamente, l’editrice universitaria come il servizio che porta l’università nel mondo? Come il servizio che, anziché recintare e vendere testi licenziati per le stampe, accompagna gli autori nei loro esperimenti di ricerca e comunicazione?

Ogni università dovrebbe rendersi conto che avere una strategia di pubblicazione le è tanto essenziale quanto offrire dei corsi di studi. Senza una prospettiva editoriale, gli archivi aperti rimarranno meri depositi bibliotecari, spesso semivuoti, e non diventeranno mai luoghi di comunicazione e di discussione. Ma perché il cambiamento avvenga davvero, occorrono il coraggio e la consapevolezza che sono mancati alla American Anthropological Association quando ha deciso di trasferire – in un modo tanto opaco quanto repentino –   il suo AnthroSource dalla University of California Press alla multinazionale Wiley-Blackwell. Il nuovo editore ha immediatamente raddoppiato il prezzo d’abbonamento, ottenendo, come effetto collaterale, la nascita di una AnthroSource libera accanto a quella proprietaria.

“Gli editori e le società di studi sono diventate grandi organizzazioni  burocratiche irrigidite nei loro comportamenti, talvolta per ragioni buone  (stabilità, affidabilità), talvolta per cattive (tradizionalismo, paura, interessi personali). Il software libero è un memento del motivo originario per il quale queste organizzazioni furono  fondate. Assieme al movimento per l’accesso aperto, ci costringe a chiederci di nuovo: a che servono le società di studi?” (adattamento da C.M. Kelty et al. Anthropology of/in Circulation: The Future of Open Access and Scholarly Societies, p. 563) A rendere pubblici i loro studi o a tenerli nascosti?

Nel mondo della stampa, quando un editore falliva, i suoi libri gli sopravvivevano. Ma quando fallisce un progetto di pubblicazione digitale, tutto il suo patrimonio rischia di sparire. E per quanto, liberando i testi per l’accesso aperto, si possa sperare da trar guadagno dai servizi e dal sistema piuttosto che dai singoli testi, il pubblico delle università è di solito composto dalle stesse persone che creano i contenuti. Anch’esse, dunque, se vorranno sopravvivere dovranno cooperare costruendo servizi e strutture trans-istituzionaliNon si può lasciare agli editori commerciali il compito di innovare al nostro posto e nel nostro interesse.

 

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Paola Galimberti, I dati sulla ricerca: un problema aperto

Appena uscito su Roars, l”articolo di Paola Galimberti tratta di una questione solo in apparenza burocratica e trascurabile per chi discetta di massimi sistemi: come facciamo a sapere che cosa producono i ricercatori che lavorano nell”università italiana? Come facciamo a sapere quanto e come si citano e vengono citati?

Questi dati sono reperibili da due categorie di fonti:

– enti pubblici, che usano sistemi di archiviazione diversi e non necessariamente interoperabili, e che non necessariamente rendono pubblico quanto possiedono;

– enti privati, quali Thomson-Reuters (Wos), che raccolgono e vendono dati sulla base dei loro interessi di mercato.

La valutazione della ricerca vorrebbe dipendere almeno in parte da indici bibliometrici, cioè da indicatori di popolarità della produzione di ciascun ricercatore da misurarsi con le citazioni ricevute in una platea predeterminata di testi. Il fatto che i dati che dovrebbe usare siano pubblici ma nascosti, o privati e nascosti, o pubblici ma non interoperabili,  parziali, e ottenibili – in tempi di crisi e di tagli – per lo più a pagamento mette seriamente a rischio l”attendibilità di questo esercizio.

Una politica coerente a favore della pubblicazione ad accesso aperto, perseguita dalle università, favorita dal ministero e condivisa da ricercatori che finalmente si rendessero conto che il modo stesso in cui disseminano i loro testi è parte dei massimi sistemi di cui si occupano avrebbe potuto rendere l”esercizio più facile, più economico, più trasparente e meno esposto al rischio di ridursi a un grado di appello del tribunale di Kafka.

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