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La Repubblica di Platone |
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Trasimaco, avendo profuso la sua sapienza, vuole lasciare la compagnia. Socrate lo trattiene per ottenere chiarimenti. Per il sofista, il processo della conoscenza si conclude con la consegna all'acquirente della merce che ha pagato; per Socrate, di contro, questo è soltanto un inizio.
Socrate cerca di distinguere fra gli effetti e le motivazioni di una techne per chi la esercita, e il suo oggetto, che consiste in una dynamis (facoltà, potere) particolare e distinta. Questa dynamis è finalizzata a particolari vantaggi: l'arte medica si occupa della salute, per esempio, mentre l'arte del pilota procura una navigazione sicura. L'oggetto proprio dell'arte va distinto dagli effetti dell'arte su chi la esercita: il pilota, andando per mare, migliora la sua salute, ma non per questo diventa medico. Il medico guadagna il suo onorario, ma non per questo diventa un esperto della misthotiké, o arte di farsi pagare. Una cosa è saper fare il medico o il pilota, un'altra è essere un esperto della misthotiké – una invenzione platonica che oggi potremmo identificare con una disciplina tecnica chiamata marketing. La gente si rivolge al medico o al pilota non perché sono bravi a farsi pagare, ma perché le loro technai procurano loro dei vantaggi; tanto è vero che la capacità di arrecare vantaggi propria del medico e del pilota non verrebbe sminuita se essi lavorassero gratis. Il vantaggio che l'esercizio di un arte arreca a chi la esercita è qualcosa di esterno all'arte, e dunque non può servire a definirla (345e ss). Pertanto, se la giustizia deve essere una techne, essa deve avere un oggetto suo proprio, vale a dire l'utile dei governati. Socrate arriva a dire che se esistesse una città di uomini buoni, nessuno competerebbe per governare, come avviene invece ora, considerando questo compito un onere e non un onore (347d).
Socrate non dimostra questa tesi, che pure contrasta nettamente con l'antropologia di Trasimaco, differendone la discussione. In questo momento gli preme, piuttosto, di confutare l'affermazione trasimachea secondo cui la vita dell'ingiusto è preferibile a quella del giusto. Egli, infatti, nel suo dialogo con Trasimaco, ha convenuto almeno con una tesi di quest'ultimo, e cioè con l'idea che la giustizia sia un "bene altrui". Trasimaco sosteneva questa posizione dal punto di vista dei governati; Socrate la afferma dal punto di vista dei governanti. Un governante giusto non fa il suo interesse, ma quello dei suoi sudditi. Perché, allora, essere giusti?
Per Trasimaco, l'ingiustizia è areté e la giustizia una nobile ingenuità. Gli ingiusti sono prudenti e agathòi, se riescono a realizzare l'ingiustizia perfetta, sottomettendo città e popoli. Questa ingiustizia è eccellenza e sapienza (348b ss).
Socrate pone il problema delle relazioni della persona giusta e della persona ingiusta con gli altri, fermo restando che, come afferma il suo interlocutore, sono gli ingiusti ad essere intelligenti e virtuosi. I giusti vogliono pleonektéin solo gli ingiusti; gli ingiusti, di contro, vogliono soverchiare su tutti.
In ambito scientifico, lo scienziato non vuole prevalere su chi è altrettanto esperto: in questo caso, infatti, converrà con lui. Un medico non prescrive una terapia differente da quella prescritta da un collega di cui riconosce la perizia solo perché vuole prevalere. Questa volontà di prevalere si manifesta solo nel caso abbia a che fare con un incompetente. Di contro, una persona ignorante non sarà in grado di distinguere l'esperto dall'inesperto e cercherà di primeggiare su tutti - esattamente come fa l'ingiusto (350a ss). Il giusto, come l'esperto in una qualche arte o scienza, ha dei criteri, diversi dall'ansia di primeggiare, per governare le proprie relazioni con gli altri; l'ingiusto, di contro, è guidato solo dalla sua ansia di primeggiare. L'ingiustizia, dunque, è ignoranza (amathìa): l'ingiusto è uno che non ha la volontà di imparare. Una morale dell'ingiustizia è una morale che non può essere argomentata intersoggettivamente, perché non offre nessun criterio di discussione comune a tutti.
Trasimaco, che già era incredibilmente sudato, arrossisce. Socrate è riuscito nell'impresa di condurlo elenchicamente a riconoscere che stava esaltando l'ignoranza - cosa, questa, che un sofista non può permettersi. Se un esperto cerca di prevalere sugli altri indifferentemente, senza un criterio intersoggettivo che legittimi la sua conoscenza, nessuno può ambire al titolo di esperto: perfino la sofistica ha bisogno di una comunità di conoscenza. Se questa mancasse, perfino il mercato sofistico dell'informazione sarebbe impossibile, o, meglio, dovrebbe riconoscere se stesso come inganno, imposizione e imbroglio.
A prima vista, la confutazione di Trasimaco sembra un argomento ad hominem. Per chiarirla, dobbiamo esporne i presupposti speculativi:
La confutazione socratica si regge, in primo luogo, sulla distinzione fra l'interesse personale e le ragioni della conoscenza, intesa anche nel senso settoriale proprio della techne. Socrate suggerisce che, anche qualora il medico eserciti la sua arte per fare soldi, le ragioni interne alla sua arte non si identificano con i fini di chi la esercita: questo lo riconosce anche Trasimaco con il suo rossore. Egli non è un sofista, un esperto, perché ha interesse a prevalere sugli altri, ma perché professa una sophia le cui ragioni non possono identificarsi col desiderio di prevalere, senza perdere il loro carattere conoscitivo. Questo non nega l'esistenza e la forza del desiderio di prevalere, ma mette in luce una distinzione che, in forma elementare, può essere illustrata con un esempio di questo genere: se critico la dimostrazione di un teorema geometrico prodotta da un mio avversario accademico, valendomi della circostanza, probabilmente vera, che essa è finalizzata alla vittoria in un concorso a cattedre, la mia critica è irrilevante, dal punto di vista della geometria. Posso produrre una confutazione rilevante solo se provo che il teorema è dimostrato in modo inconsistente e scorretto, alla luce delle ragioni e delle procedure interne alla geometria. Se si riduce la conoscenza a interesse privato, si distrugge interamente la conoscenza come tale.
In secondo luogo, la confutazione riposa sul presupposto del carattere cognitivo della giustizia. Quando Trasimaco sostiene che la giustizia è l'utile del più forte, afferma, in sostanza, che le technai sono ispirate e dirette, al loro esterno, da un interesse personale che non è riducibile a sapere tecnico: i pastori fanno l'utile del loro bestiame secondo criteri disciplinati da una techne, ma sono motivati, esternamente, soltanto dal loro proprio interesse. Le technai hanno una oggettività soltanto settoriale, al di fuori della quale c'è unicamente la volontà di potenza. L'invenzione platonica della misthotiké suggerisce che anche la volontà di potenza può essere l'oggetto di una techne, e quindi di un sapere soltanto settoriale: chi ci assicura che non ci sia nulla oltre l'interesse personale, e che il senso di tutto sia la volontà di potenza? E, viceversa, chi ci assicura che la techne sia il risultato di una delimitazione e di una neutralizzazione e non sia invece coinvolta con le questioni ultime, come rapporto cognitivo col mondo, che non può essere ridotto ad interesse privato senza perdere il suo carattere di sapere intersoggettivo?
La visione della conoscenza presupposta da Socrate lascia però aperto un problema: Trasimaco, in quanto sofista, deve sottostare ai canoni dianoetico-etici della vita teoretica. Se vuole essere un maestro di sapienza, non può confutare Socrate saltandogli addosso; e non può neppure affermare che una vittoriosa strategia di marketing sia una confutazione. La volontà di potenza non si addice alla filosofia. Questo, però, non impedisce che la volontà di potenza possa addirsi alla politica: che la tesi di Trasimaco, in altri termini, non possa coerentemente dare origine ad una filosofia, ma possa fondare senza difficoltà una scienza politica. Per questo la sfida avviene sul tema della giustizia: Trasimaco può essere vinto solo se nella politica è possibile una ragion pratica. E per questo Socrate, alla fine del I libro, si dice insoddisfatto, perché il confronto con Trasimaco gli ha fatto perdere di vista la questione più importante, quella della definizione della giustizia (354a ss).
Nelle Leggi (IV, 714c), la tesi che il giusto sia l'utile del più forte - nel senso che nella polis le leggi sono poste sempre dal più forte, per conservarsi il governo – viene elencata fra gli assiomi tradizionali del potere. Quando si combatte per il potere, infatti, i vincitori si impadroniscono a tal punto degli affari della città da non lasciarne nulla agli sconfitti, né ai loro discendenti, e vivono guardandosi l'uno dall'altro. Ma queste – dice lo straniero ateniese - non sono costituzioni, non sono leggi corrette, perché non sono state stabilite per tutta la polis in comune. E se le leggi sono stabilite per qualcuno, questi non è cittadino ma stasiòtes, cioè fomentatore di guerra civile (IV, 715a-b). Ove il nomos è archòmenos (comandato) e senza autorità, è pronta la distruzione. Queste cose – scrive il vecchio Platone - chi è anziano le vede con più chiarezza di chi è giovane. (IV, 715d-e)
Questo giudizio, se paragonato alla complessità della confutazione di Trasimaco contenuta nella Repubblica, può sembrare moralistico, ma ha il pregio di cogliere il cuore della questione. Un realismo politico coerente non può escludere se stesso: perché trattare Trasimaco, con la sua concezione patrimoniale e privatistica della conoscenza, come un contemplatore disinteressato? Quando Trasimaco fa politica – ma anche quando parla – lo fa solo per il suo proprio utile, come gli altri, se la sua tesi va preso sul serio. Trasimaco non demistifica solo il potere e il discorso altrui. Demistifica anche se stesso, perché la sua tesi rende impossibile sia un discorso comune, sia una legittimazione politica che vale per tutti. Per questo, il trasimacheo non può mai parlare come un cittadino, o come un ricercatore, ma sempre e soltanto come un nostro nemico.
La Repubblica 341d-350c .
La Repubblica di Platone
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