Più di 2700 ricercatori francesi stanno presentando una candidatura collettiva alla presidenza della locale autorità di valutazione della ricerca pubblica (HCERES) allo scopo di “riappropriarsi del controllo e del senso del proprio lavoro”, nella convinzione che la valutazione della ricerca non spetti all’uso privato di un’autorità amministrativa particolare, bensì all’uso pubblico della ragione come si svolge, collettivamente, nella comunità degli studiosi nel suo insieme.
Ecco la traduzione italiana della versione francese del loro manifesto Candidature collective à la présidence du HCERES., ora ripubblicata anche su Roars.
È eufemistico affermare che le riforme del nostro sistema di ricerca compiute, in nome dell’eccellenza, nel corso degli ultimi quindici anni non hanno avuto gli effetti attesi. Pur ambendo a rafforzare la potenza scientifica della Francia, hanno solo – secondo l’indicatore scelto dai riformatori stessi – fatto calare il numero delle pubblicazioni francesi in rapporto a quelle mondiali. Non c’è da stupirsene: le statistiche che stimano gli effetti degli interventi pubblici mostrano che la quantità delle pubblicazioni scientifiche è proporzionale agli investimenti nella ricerca, ma è praticamente insensibile alle riforme strutturali. Eppure, in questi quindici anni, l’impegno finanziario si è concentrato sull’istituzione di una nicchia fiscale, il Credito d’Imposta per la Ricerca, pensata per aggirare il divieto europeo di aiuti pubblici diretti alle imprese. La stima del suo impatto sulla ricerca da parte di France Stratégie è senza appello: il suo effetto-leva sugli investimenti privati è… negativo.
Le riorganizzazioni dell’università e della ricerca hanno inoltre effetti sistemici profondi, osservabili però solo se non si considera la computazione bibliometrica, bensì la creazione e la trasmissione di sapere. Le riforme strutturali hanno condotto a un declino della qualità e dei requisiti di qualità della produzione scientifica, di cui i molteplici casi di frode sono solo la parte più visibile. Questa crisi istituzionale del mondo della ricerca è tanto più drammatica in quanto sopraggiunge in una fase di crisi sociale, climatica e democratica risolvibile solo tramite un’opera di produzione, trasmissione, critica e conservazione della conoscenza.
Poiché si fonda sull’orizzonte comune della ricerca della verità, la scienza presuppone l’autonomia di studiosi, ricercatori e docenti universitari rispetto ai poteri da cui il suo esercizio dipende, siano essi politici, economici o religiosi. Questa libertà accademica non deve essere pensata come un’assenza d’impedimento, bensì come una libertà positiva, da garantirsi con mezzi efficaci. Il suo risveglio deve cominciare con una riaffermazione delle condizioni pratiche di questa autonomia.
La prima condizione è finanziaria: per incoraggiare inventività e creatività, è indispensabile dotare la ricerca di finanziamenti ripetuti nel tempo, rompendo perciò con la modellazione burocratica della scienza tramite bandi per progetti di ricerca a breve termine, che favoriscono conformismo e ricerche incrementali.
La seconda condizione riguarda un’altra risorsa preliminare alla ricerca: il tempo. Per conservare la biodiversità necessaria a un ecosistema di ricerca fiorente, occorre garantire istituzionalmente la possibilità di fare ricerca in tempi lunghi. Una selezione spenceriana promossa dall’alto, fatta di frammentazione e contrattualizzazione generale delle condizioni di lavoro, uccide questa diversità e fa perdurare la crisi qualitativa. La soluzione consiste in un reclutamento di qualità che offra posizioni permanenti, condizione per attirare ricercatori giovani e personale tecnico, così da arricchire costantemente il sistema di idee e aspirazioni nuove.
La terza condizione è ridurre la divisione del lavoro scientifico, vale a dire rigettare la separazione – che ha costituito una burocrazia rigidamente definita – fra responsabili amministrativi che detengono il potere e ricercatori e docenti universitari espropriati e ridotti a meri esecutori. È essenziale sottoporre a revisione le strutture di valutazione accumulate l’una sull’altra in quindici anni e quantificare i loro costi operativi per liberare risorse tramite la soppressione di stratificazioni inutili o addirittura dannose.
Nella prassi, da secoli, i requisiti di qualità e originalità delle opere scientifiche sono garantiti dalla norma della controversia collegiale (la disputatio dei classici), vale a dire dalla discussione libera e in contraddittorio entro la comunità dei pari. Questo principio di gratificazione sociale fondato sul riconoscimento del valore intellettuale delle opere è irriducibile ad una “valutazione” amministrativa che riposi su un sistema di regole quantitative esterne, determinate dagli interessi degli investitori: ogni metrica normativa smette rapidamente di essere una mera misura per diventare essa stessa l’obiettivo da raggiungere. Qualsiasi commissione di supervisione, di reclutamento o di promozione deve quindi essere obbligata a fondare le sue deliberazioni sulla lettura delle opere e non su una valutazione quantitativa. Perché queste deliberazioni siano fattibili e credibili, il numero di opere da sottoporre a esame va drasticamente limitato.
Infine, l’autonomia del mondo della ricerca ha bisogno di ristabilire criteri di valutazione scientifica rigorosi, che tengano conto delle specificità contemporanee. È urgente restituire il controllo delle riviste scientifiche alla comunità dei ricercatori e spodestare l’oligopolio editoriale su cui le attuali discipline di valutazione trovano fondamento tecnico ed economico.
Per metter mano a queste riforme, ci candidiamo alla presidenza dell’istituzione incaricata di definire le norme e le procedure che regolano, organizzano e determinano la produzione scientifica: l’HCERES. La nostra candidatura collettiva mira a far rivivere i principi fondativi di autonomia e responsabilità degli scienziati. Non ci può essere un’amministrazione separata con un “presidente” che sovrintenda a queste procedure: è l’insieme della comunità degli studiosi che deve presiedere alla valutazione qualitativa della sua produzione.
Senza autonomia della ricerca non c’è futuro.
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