Anonimo scientifico

Un numero recente di “Current science”  (111/2, 25 luglio 2016) ospita un testo di un ignoto, presumibilmente indiano, con una proposta apparentemente ingenua: rendere anonimi gli articoli scientifici e valutare i ricercatori non più per le loro pubblicazioni, ma per i loro discorsi e le loro azioni.

Non è però ingenua l’analisi che le sta alle spalle. Secondo Richard Horton, editor di “The Lancet”, una buona metà della letteratura scientifica potrebbe essere falsa.

Afflitta da studi con campioni piccoli, effetti minuscoli, analisi esplorative dei dati invalide e flagranti conflitti d’interesse, combinati con l’ossessione di inseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza si è avviata su una cattiva strada.

Questi vizi nel metodo e nella selezione dell’oggetto sono esaltati da una valutazione della ricerca che spinge a un’“insana competizione” a pubblicare in alcune riviste selezionate sulla base del fattore d’impatto e a una produttività pletorica, che ha ormai ben poco a che vedere con lo scopo di offrire scoperte e teorie rigorose all’uso pubblico della ragione. Lo spirito competitivo preso nella sua purezza – non da ora, non da oggi – è nemico della ricerca della verità.  Chi fa ricerca deve riconoscere che saper accettare la confutazione e il superamento è una parte importante del gioco della scienza. Così, per esempio, scriveva Max Weber all’inizio del secolo scorso:

Ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed esser ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza [corsivo mio].

Contro la crisi sono stati suggeriti rimedi amministrativi, deontologici e comunicativi, quali l’auto-pubblicazione e qualche forma di revisione paritaria aperta, allo scopo di riavvicinare la pubblicazione al fine implicito nel suo nome. Nel 2006, tuttavia, “Nature” provò a sperimentare la revisione paritaria aperta – ora oggetto anche di qualche progetto finanziato dell’Unione Europea – ottenendo una partecipazione poco numerosa e poco significativa.

Perché meravigliarsene? In un sistema competitivo di “pubblicazione” proprietaria partecipare a una discussione genuinamente pubblica – perfino sul sito di “Nature” – è ozioso.  In un mondo in cui la “competitività” – o vogliamo chiamarla pleonexia? – è favorita e spesso imposta in quanto incentivo unico alla “produttività” scientifica,  il proprio tempo va investito nella confezione di articoli da regalare a editori bibliometricamente significativi.  Finché le pubblicazioni non recupereranno il loro scopo originario – condividere e registrare teorie e scoperte, non prevalere in una gara eterodiretta fondata sul feticismo bibliometrico – iniettare regolamenti, protocolli e codici etici rischia di avere solo un effetto palliativo.

Le teorie e le scoperte diventano scientifiche se e quando si emancipano dall’inintelligibile genio individuale e si fanno patrimonio comune. Perché una teoria o una scoperta venga riconosciuta come scientificamente solida non occorre – dal punto di vista oggettivo – che sia firmata con un nome e un cognome. Dal punto di vista soggettivo, però, almeno per chi è influenzato da Thomas Hobbes o dall’astrazione dell’homo oeconomicus, le cose sembrano stare differentemente: se non fossimo posti in una competizione che ha variamente a oggetto gli onori accademici, o la misura degli indici H, o, più semplicemente, la sopravvivenza, non avremmo – così si crede – nessuna motivazione per dedicarci alla ricerca.

Eppure, di molti patrimoni artistici e culturali dell’umanità – dalle piramidi egiziane, al tempio di Thanjavur, alle caverne di Ajanta ed Ellora, all’epopea di Gilgamesh, a buona parte delle Sacre Scritture – non conosciamo gli autori, che si sono interamente risolti nelle opere. A maggior ragione, dall’altro lato, sono condannati all’impermanenza i nomi degli autori dell’inflazione di pubblicazioni in riviste proprietarie al servizio della causa della bibliometria più che di quella della scienza.

Anche in occidente la scienza è nata ed è fiorita indipendentemente dell’invenzione delle carriere accademiche e dell’enfasi sulla misura della loro “produttività”, per esempio – individualmente – nella vocazione di chi pensava che una vita senza indagine non fosse degna di essere vissuta, o – socialmente – nella ricerca pura sostenuta dal mecenatismo fiorita nell’Europa protomoderna.

Il concetto di nishkam karma – o azione disinteressata – appartiene alla cultura indiana. Così lo esprime, per esempio, la Bhagavad Gita:

È tuo dovere e competenza solo l’agire, ma che questo non sia motivato dal desiderio dei frutti dell’azione. E non sorga neanche in te l’adesione al non agire. (Bhagavad Gita, 2.47)

Ma qualcosa di simile si ritrova anche in luoghi per noi meno esotici – per esempio nella teoria morale di Kant  – ed è originariamente intrinseco allo stesso ethos scientifico, come può mostrare una lettura mirata della confutazione di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone. Se ci si facesse beffe del poco realistico ideale della ricerca disinteressata e si misurasse la qualità dei medici sulla loro capacità di farsi pagare, otterremmo esattamente quello i nostri pregiudizi hanno predeterminato: non più medici valenti, ma esperti nell’arte mercenaria.

Si può obiettare che l’anonimato delle pubblicazioni deresponsabilizza gli autori. Il sistema attuale, però, accetta l’anonimato in una funzione più delicata: quella della revisione paritaria, per la quale una critica simile potrebbe avere una forza ancora maggiore. Così, per esempio, scriveva il matematico Giorgio Israel:

L’anonimità dell’esaminatore è invece un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi. L’anonimato rischia invece di offrire coperture a comportamenti intellettualmente superficiali o eticamente scorretti (Chi sono i nemici della scienza?, 2013, grassetti miei).

Il sistema di valutazione basato sulle pubblicazioni è un modo per sottrarsi alla responsabilità di giudicare la ricerca spostandola su revisori paritari a loro volta protetti dall’anonimato. Si costruisce così una gabbia d’acciaio apparentemente impersonale in cui nessuno fra coloro che determinano le vite degli altri è davvero disposto a rendere conto delle decisioni – pur molto personali – che si trova a prendere.

Eclissi di soleL’anonimo indiano propone di sovvertire il sistema attuale, oscurando quanto oggi illuminiamo e illuminando quanto oggi oscuriamo. Non è neppure necessario che il nome dell’autore sia un segreto custodito meglio di quello che protegge la revisione paritaria: gli autori potrebbero anche essere contrassegnati da una sorta di ORCID anonimo, e potrebbe esser reso possibile corrispondere con loro tramite le piattaforme di pubblicazione, come si fa attualmente, per interposta persona, con i referee anonimi. Sarebbe sufficiente che l’anonimato fosse un accessorio in un combinato disposto che eliminasse dai criteri per valutare la ricerca e determinare le carriere il numero delle pubblicazioni e il loro peso bibliometrico.  Nelle varie fasi della carriera accademica si dovrebbero invece considerare le persone in luogo dei prodotti, tramite relazioni scritte e colloqui che abbiano a oggetto la tesi di dottorato, la capacità di insegnare e di guidare altri nella ricerca, le attività passate e gli interessi presenti e futuri.

I ricercatori non smetterebbero di pubblicare:  scriverebbero meno e meglio, perché sarebbero motivati solo dallo scopo di condividere la memoria di teorie e scoperte a loro giudizio meritevoli di attenzione. Allo stesso tempo, questa valutazione della ricerca alternativa, fondata sulla cultura delle persone e sulla loro capacità di selezionarla, trasmetterla e discuterla, farebbe emergere, fra i testi anonimi, quelli meritevoli di essere esaminati e studiati. Il denaro sottratto alle multinazionali editoriali e bibliometriche potrebbe essere meglio speso in un’infrastruttura di ricerca pubblica e accessibile a tutti che aiuti gli studiosi nella loro conversazione.

Utopia? Per niente: questa è semplicemente la soluzione antica di un problema altrettanto antico, che si ritrova nel Fedro di Platone. L’invenzione della scrittura – così racconta il mito di Theuth – è alla radice del feticismo della pubblicazione, perché rende possibile separare il prodotto dal processo, il risultato messo per iscritto dalla sperimentazione, dalla dimostrazione e dalla discussione. Si è così esposti alla tentazione di confondere il medium col messaggio: sono un valente scienziato non perché sono in grado di dimostrare le mie ipotesi e scoperte in una discussione pubblica, bensì perché le mie ipotesi e scoperte sono pubblicate in testi a cui si attribuisce variamente autorità scientifica.

Se questa confusione è socialmente e amministrativamente rinforzata, il ricercatore sarà a suo volta esposto alla tentazione di abbandonare la via della sophia per imboccare quella della doxosophia o apparenza di sapienza la quale, nel sistema attuale, equivale a perseguire non l’approssimazione alla verità, bensì la pubblicazione e il successo nella competizione bibliometrica.

Platone, per sottrarsi a questa tentazione, escogitò un rimedio molto simile a quella immaginata dall’anonimo del XXI secolo: non prendere i testi – i nostri figli illegittimi – troppo sul serio, se non come ausilio per la memoria, e dedicarsi invece alla costruzione di comunità di conoscenza che li facciano vivere scientificamente, selezionandoli, curandoli, discutendoli e confutandoli – in una parola, prendendosi la responsabilità di valutarli. Coerentemente, non si presentò mai come autore, ma, similmente al suo Socrate,  come un curatore al servizio di una verità che trascende le persone e le loro gare.

La scienza oggettivamente intesa può permettersi di essere anonima. Che la teoria eliocentrica sia di Copernico o di Aristarco da Samo ne influenza, forse, la plausibilità? Che importa chi parla? Però, soprattutto in un mondo di informazione sovrabbondante, la cura e la selezione dei testi – se vale la pena leggere, discutere e linkare articoli eliocentrici o geocentrici – è frutto di scelte personali. Proprio per la sua soggettività, essa richiede una assunzione di responsabilità con nome e cognome: in una valutazione scientifica della ricerca, chi sceglie deve render pubblicamente conto delle sue decisioni. Il suo stesso logon didonai è parte di quella discussione scientifica che ritrasforma la lettera morta in un vivo processo d’indagine.

Questo prassi desueta può sembrare aleatoria e bizzarra. Ma non è altrettanto bizzarro considerare normale – e non semplicemente normalizzante – un sistema in cui le scelte sociali sulla ricerca sono compiute irresponsabilmente da giudici che non osano mostrare la faccia e da algoritmi proprietari rappresentati come impersonali? Prima di concludere che non ci sono alternative forse vale la pena chiedersi se non siamo talmente abituati alla gabbia che nessuno vuol assumersi la responsabilità di cominciare a crearle.

Il testo mi è stato segnalato da Paola Galimberti.

DOI

Tags:

Accessi: 1551

Dopo le riviste: il futuro dell’accesso aperto

nordic logoIl numero d’esordio della rivista Nordic Perspectives on Open Science ospita un dialogo sulla scienza aperta nelle discipline umanistiche fra Jean-Claude Guédon e Thomas Wiben Jensen.

  1. Secondo The Open Access Citation Advantage Service di SPARC Europe la maggioranza degli studi finora condotti indica che la pubblicazione ad accesso aperto  produce un vantaggio non irrilevante per quanto concerne il numero di citazioni.  L’accesso aperto, dunque, dovrebbe essere molto appetibile per ricercatori che i sistemi di valutazione stanno trasformando in massimizzatori – razionali? – di citazioni: ma la percentuale di pubblicazioni scientifiche ad accesso aperto sembra essere al di sotto del 50%. Come mai, specie in campo umanistico,  questo tipo di pubblicazione è ancora percepito come l’alternativa oscura, piuttosto che come la strada maestra?
  2. Molte riviste di scienze umane, pur avendo un numero di abbonati “di nicchia” che deve essere soccorso dal finanziamento pubblico, non passano all’accesso aperto perché temono di sparire. Come mai questa convinzione è così diffusa?

Secondo Guédon, per rispondere a queste domande dobbiamo smettere di costringere la discussione nella prospettiva dell’emulazione, nel mondo della rete, di forme elaborate nel mondo della stampa quali le riviste e gli articoli.

La comunicazione scientifica a stampa si basa su riviste e articoli: dobbiamo fare nello stesso modo anche in rete?

Prima dell’invenzione della stampa il sistema degli scriptoria elaborava manoscritti che erano opere d’alto artigianato, pensate per un’élite di committenti e vocate alla conservazione di testi per loro natura rari e costosi. La stampa non si limitò a rimpiazzare l’artigianato d‘élite con la produzione di massa e a proporre un sistema nuovo e incognito rispetto all’antico e alla sua reputazione, ma inventò nuovi oggetti testuali e trasformò i valori culturali e le relazioni interpersonali. Quando la copia è difficile, la cultura deve preoccuparsi in primo luogo della conservazione: quando invece la riproduzione, meccanizzata, diventa più facile, si può permettere di perseguire e valorizzare il nuovo.

Anche oggi la rivoluzione digitale sta producendo oggetti inusitati: mega-journal,  piattaforme come Research Ideas & Outcomes che seguono l’intero processo della ricerca dal principio alla fine, e addirittura sistemi, come Wikipedia, che funzionano a dispetto dell’idea romantica di autore.

Anche se – osserva Jensen –  la rete sta trasformando la conoscenza e il pensiero in processi sempre più socialmente distribuiti e condivisi, la discussione scientifica ha bisogno di elementi stabili: interlocutori identificabili e affidabili – cioè autori – e teorie riconosciute da cui prendere le mosse – cioè articoli pubblicati in riviste -. Possiamo ben riconoscere – risponde Guédon – il valore di una forma di revisione paritaria come passaporto d’ingresso alla conversazione della scienza, e possiamo ben usare identificatori come l’ORCID per le persone e il DOI per i testi; ci dobbiamo, però, chiedere, se tutto ciò debba necessariamente ridursi nel letto di Procruste dell’articolo.

Lo sviluppo del software libero: un modello per le riviste del futuro?

I progetti di sviluppo di software libero producono codice intersoggettivamente controllabile grazie al contributo di numerosi volontari, su piattaforme che rendono possibile il versioning, il riconoscimento della paternità, la discussione e l’archiviazione. Questi progetti, a differenza delle riviste scientifiche tradizionali, non sono genericamente disciplinari, bensì ispirati da uno scopo specifico che un gruppo fluido di persone si trova ad avere in comune. Anche per questo – per creare e conservare il gruppo e per offrire all’intrapresa la velocità che la rete rende possibile – hanno bisogno dell’accesso aperto strutturalmente e non accessoriamente. Non è questione di comunicazione: è questione di scienza. Le “riviste” del futuro, se si emancipassero dai vincoli dell’età della stampa, potrebbero essere qualcosa di simile.

Let us envision a platform – i.e. a website – with certain rules about accountability and identification which are actually close to those used in running a journal. Let us add further a starting set of problems that roughly correspond to the kinds of topics that the “journal” has been encompassing in the last few years of its existence (e.g. 5–7 years). In short, we have something that starts looking like an “electronic journal”, to use this familiar, yet fuzzy, term.

Ci sarebbero, però, delle differenze: la stampa ci ha abituato a produrre testi lunghi e in sé conchiusi, come piccole astronavi concepite per sopravvivere negli spazi vuoti di una conversazione che la stampa con i suoi filtri anteriori alla pubblicazione rendeva lenta e costellata di lunghissimi intervalli di silenzio.  Il nuovo sistema, di contro, richiederebbe interventi brevi e disposti ad arricchirsi non più in virtù della loro autosufficienza, ma della loro connessione: chi non ha più nulla da guadagnare dalla carriera accademica potrebbe perfino cominciare a sperimentarlo – anche perché è molto meno nuovo di quanto sembri.

Quando Socrate, nel Protagora,  si alza per abbandonare la discussione dopo che il suo interlocutore ha rifiutato la brachilogia,  sta facendo una battaglia di retroguardia a favore di una conversazione scientifica che l’affermarsi della scrittura andava cristallizzando nella macrologia e nell’alienazione del testo, e della quale resta enigmatica e inadeguata traccia nei dialoghi platonici. Ma i Socrate del futuro,  congedandosi dalla stampa, combatteranno all’avanguardia,  perché avranno finalmente dalla loro parte una scrittura divenuta fluida e immediatamente interattiva grazie alle possibilità offerte dalla rivoluzione digitale.

It may be a surprise to discover that the very notion of “journal” may act as a form of blockage, but this is the case if the journal is taken as a proxy of the Great Conversation. The same would have been true, at the end of the Middle Ages, if scriptoria had been taken as a proxy of the copy-function.

Tags:

Accessi: 614

Open peer review: un esperimento

Come abbiamo scritto anche su queste pagine, la revisione paritaria tradizionale è da tempo in discussione. Perché dei giudici anonimi, scelti segretamente dalla direzione di una rivista, dovrebbero garantire una valutazione accurata e imparziale dei testi loro sottoposti?

Quando le comunità disciplinari sono piccole, coese e concordi sui paradigmi il loro controllo sugli esiti visibili del processo ne tempera i limiti. Questo, però, è più difficile quando la comunità si allarga, è plurale nei paradigmi ed esposta all’influenza di attori, come le multinazionali dell’editoria commerciale e i loro agenti non umani, il cui interesse primario è  lontano dall’ethos della ricerca. La rete ci rende possibile ampliare i nostri collegi invisibili ma ci espone, nello stesso tempo, al rischio di trovarci a lavorare in ambienti più simili a catene di montaggio o a piste da competizione che a comunità di dialogo e di sapere.

Usare la rete per aprire la peer review, trasformando gli aristocratici Pari in democratici uguali che si fanno valere sul campo, potrebbe essere una soluzione non nuova, anche se non semplice. La discussione libera – l’uso pubblico della ragione – è sempre stata il metodo dichiarato delle scienze, umane e no. Naturalmente, come sapeva il Socrate del Gorgia, la sua misura sta nel grado di adesione effettiva alle regole che ciascuna comunità riconosce a parole. In un sistema complesso ma  non gerarchico in cui ogni nodo è facilmente accessibile e collegabile, la trasparenza sulle procedure e sulle fonti può fare le veci dell’autorità.

I vincoli tecnologici ed economici del sistema della stampa imponevano di risolvere il problema della complessità del sapere con un metodo opaco, pericolosamente simile alla censura. D’altra parte, la revisione paritaria aperta può essere facilitata dalla rete, ma non ne è il frutto spontaneo. Può funzionare solo entro una comunità indipendente e motivata, che sappia riconoscere il valore della cooperazione e del dialogo critico e desideri proporre una conversazione scientifica in grado di ritrasformare l’informazione in sapere, tracciando piste per percorrere una foresta sempre più indefinita nei suoi confini e intricata nei suoi nessi.

Sperimentare.la revisione paritaria aperta in questo momento, in Italia, è difficile, non solo per i limiti interni di un mondo della ricerca decimato e impoverito, ma soprattutto perché si oppone a quanto sta cercando di imporci lo stato tramite l’Anvur, che è un’autorità di diretta nomina governativa. Il modello dell’Anvur è arretratissimo e tendenzialmente chiuso sia perché privilegia database proprietari o comunque inaccessibili, sia perché è costruito prevalentemente sul presupposto della mediazione editoriale commerciale. Proprio per questo è importante dimostrare che un’alternativa è possibile: piegarsi ai criteri dell’Anvur significa rinchiudersi in un recinto, oggi, ed esporsi al rischio di venir tagliati senza che nessuno se ne accorga, domani.

Si tratta, quindi, di un esperimento incerto, ma indispensabile, per sottrarsi a un destino in cui l’inaccessibilità conduce all’irrilevanza sociale e questa, a sua volta, facilita la cancellazione. Non dobbiamo, dunque, temere la rete, dobbiamo diventare la rete. 

In questo spirito, il bftp mette a disposizione le sue pagine per provare, come si sta facendo in paesi in cui la ricerca è più libera, la revisione paritaria aperta. 

Il primo articolo che proponiamo all’open peer review è una traduzione di un saggio di Fichte molto importante per la storia della proprietà intellettuale Prova dell’illegittimità della ristampa dei libri. Un ragionamento e una parabola. Alla fine del processo, una sua copia verrà donata a Wikisource, entro un’operazione più ampia i cuoi dettagli spiegheremo nei prossimi giorni.

Lo strumento del nostro esperimento è un plugin di WordPress. Commentpress, che permette di commentare un testo paragrafo per paragrafo. Le istruzioni per commentare l’articolo sono qui. Chi non fosse familiare con l’interfaccia può consultare anche la nostra guida per immagini.

Tags:

Accessi: 708

L’accademia dei morti viventi, parte prima: la revisione paritaria

Se il libro di Kathleen Fitzpatrick, Planned Obsolescence. Publishing, Technology and the Future of Academy,  fosse uscito in Italia, sarebbe stato ignorato. Pubblicato negli Stati Uniti, è stato recensito sul “New York Times”. La sua versione elettronica, offerta a una revisione paritaria aperta, è liberamente accessibile qui. Le sue tesi non sono originali per chi fa ricerca in rete.  Meritano, però, di essere riferite dettagliatamente per l’uso di chi avesse bisogno di argomentazioni esterovestite per riconoscere il loro interesse filosofico e politico.

Che, nel campo delle scienze umane, il modello economico della pubblicazione accademica tradizionale sia ormai insostenibile, è evidente almeno dall’inizio di questo secolo, quando lo scoppio della bolla speculativa del 2000 portò con sé pesanti tagli nei bilanci delle biblioteche. La monografia però, in quanto viatico per la cattedra, vaga per gli atenei come un morto vivente, mentre il suo sistema di produzione e disseminazione sta diventando obsoleto.  Oggi sarebbe più veloce ed economico mettere la proprie opere in rete, corredate, ex ante e ex post, dei pareri dei revisori:  ma come far riconoscere il valore scientifico e accademico delle pubblicazioni sul web in un ambiente conservatore e ossessionato dalla carriera?

The Museum SyndicateLa revisione paritaria (peer review) com’è condotta tradizionalmente, in un dialogo notturno fra redattori e revisori, esclude gli autori dalla conversazione e ostacola la circolazione delle idee. La rete non solo rende possibile spostare la revisione dopo la pubblicazione, ma, soprattutto, trasforma il giudizio in una peer-to-peer review. L’autore non è più un ‘individuo “originale” artificiosamente isolato dal contesto, ma un nodo di citazioni e di rielaborazioni: la ricerca può tornare a essere, come nei dialoghi platonicipartecipazione a uno scambio comunitario di idee. Se la rete si trasforma in un medium universale, gli studiosi che non sapranno trascendere se stessi, per restare incatenati in sistemi che li separano gli uni dagli altri, diventeranno  morti viventi, con i loro libri e la loro professione

1. Revisione paritaria

Investiti dalla disintermediazione e dalla partecipazione rese possibili dalla rete, i  concetti di autorità e di autorevolezza stanno cambiando . Gli studiosi, però, hanno resistito al mutamento, rimanendo per lo più alieni al nuovo spazio pubblico che si sta creando. Per un accademico analizzare le strutture del sistema che gli ha dato potere e prestigio può essere tanto sgradevole quanto accettare forme di revisione paritaria posteriori alla pubblicazione e pubbliche. Questo passo, tuttavia, sarà obbligato, perché rimanere chiusi nel proprio recinto significa condannarsi all’irrilevanza.

La storia della revisione paritaria, che trae le sue origine dalla prassi della Royal Society nella seconda metà del XVII secolo, è stata molto studiata per quanto riguarda le scienze naturali e sociali. Sebbene oggi sia intesa come un controllo di qualità scientifica, le sue radici affondano nell’assolutismo statale e nella censura, nella forma di un’autodisciplina imposta tramite le società di studiosi. Le sue stesse procedure, fondate sul controllo del direttore della rivista che decide se sottoporre un testo a peer review e sceglie i revisori, sono di natura assolutista.

L’ArXiv pratica, nei fatti, un’alternativa alla revisione paritaria tradizionale tramite un endorsement il cui scopo è verificare che i suoi contributori appartengano alla comunità scientifica. Nel 2006 “Nature” tentò un esperimento di revisione paritaria aperta e pubblica, parallela a quella privata e anonima, che si  affrettò a dichiarare fallito – anche perché i revisori erano ben poco incentivati a contribuire a un’impresa annunciata fin dall’inizio come irrilevante per l’effettiva valutazione dei testi.

La revisione paritaria aperta, successiva alla pubblicazione, è vista con sospetto perché non è anonima. Chi, però. l’ha praticata sul serio  può confermare che lo stesso timore della discussione pubblica produce – come sa chi si occupa di accesso aperto – un’autoselezione preliminare da parte degli autori.

I revisori anonimi, in virtù della loro posizione, hanno un potere senza responsabilità e senza interazione con gli autori;  questo dà libero gioco a pregiudizi sistematici, quando i nomi di questi ultimi sono loro noti. In gruppi disciplinari ristretti sono comunque facili da indovinare anche quando sono nascosti, e rimangono pur sempre noti al direttore della rivista, il cui potere è altrettanto irresponsabileMa può darsi giustizia  senza trasparenza?

Il “Bollettino telematico di filosofia politica“, a dire il vero, aveva reso l’anonimato completo, nascondendo l’autore dei contribuiti sottoposti alla rivista non solo ai revisori, ma anche alla redazione. Il programma che lo rendeva possibile, Hyperjournal, non ha però raggiunto la massa critica di utenti indispensabile per il successo di un progetto di software libero: evidentemente il problema dell’equità della peer review è scarsamente avvertito nel mondo accademico.

Anche se la revisione paritaria non serve alla discussione fra gli studiosi ed è un  controllo di qualità opinabile,  le è tuttavia riconosciuta una funzione di accreditamento.  Le università hanno dato in outsourcing agli editori la valutazione della ricerca, con effetti gravemente distorsivi.  I revisori possono essere condotti o a inflazionare i loro voti, o ad adottare criteri di selezione “di scuola”, mentre gli studiosi giovani  sono costretti a concentrare le loro ricerche sul “pubblicabile” piuttosto che sull’innovativo.

Internet ha separato la pubblicazione di un testo dalla sua qualità scientifica: ma la reazione più diffusa dell’accademia è stata quella di negare il valore alle pubblicazioni in rete, o di pretendere che imitassero il sistema tradizionale, in modo da non mettere a repentaglio le posizioni acquisite. Il principio  della revisione paritaria – che il proprio contributo sia valutato e criticato da pari competenti – non è però sbagliato. E’ sbagliato trasformare la revisione in un metodo per creare autorità e per escludere dalla discussione. Gli stessi revisori, se interessati alla ricerca e non al potere, sono costretti a sprecare una gran quantità di tempo per un lavoro privo di senso scientifico e destinato a rimanere sconosciuto. Perché non separare la pubblicazione dalla valutazione, aprendo i cancelli e lasciando che la revisione paritaria avvenga pubblicamente, ex post? Perché non usare il social software – come fa  Slashdot – e passare alla peer-to-peer review?

La peer-to-peer review altera il concetto di peer (pari): usato dapprima nel senso di “nobile”, nella scienza moderna designò il membro di una comunità del sapere e non più del sangue, per estendersi, in tempi recenti, a chiunque sia un nodo della rete. I pari nella loro ultima metamorfosi, anonimi, sfuggono al controllo accademico della reputazione: è tuttavia bizzarro che questa critica venga da ambienti che fondano la loro selezione della qualità su una revisione non facoltativamente, bensì’ obbligatoriamente anonima.  Un’esperienza di peer review aperta ha peraltro mostrato che i commenti discussi pubblicamente sono alla fine più affidabili delle esternazioni unilaterali e insindacabili di un paio di revisori anonimi. 

Slashdot, dopo aver sperimentato la dispendiosità e gli abusi di una moderazione affidata a individui,  ha adottato una automoderazione collettiva fondata sull’economia della reputazione. Un sistema simile, però, per non essere esposto a manipolazioni e abusi, o alla mera idiozia delle masse, deve seguire il modello del tribunale di Atene, raggiungendo una massa critica di utenti, offrendo incentivi ai revisori e contenendo rimedi contro lo spam, lo scambio di favori e altre forme di strumentalizzazione.

Nel mondo della stampa la pubblicazione passava per un marchio di qualità perché il testo pubblicato aveva dovuto essere selezionato ex ante. Oggi questo non è più necessario né tecnicamente né economicamente: rimangono però scarsi il tempo e l’attenzione. La necessità di un filtro umano – e l’inevitabilità di un’economia della reputazione – non è quindi abolita, bensì solo dislocata.

Quanto funziona bene  in Slashdot, funziona  piuttosto male  in Philica, un esperimento  di pubblicazione e di revisione paritaria aperta. In generale, però, in un”accademia che accredita gli studiosi sulla base dei loro successi individuali l’abitudine a “pensare insieme” e la convinzione che il guadagno più grande sia il progresso collettivo sono talmente rare da rendere infrequenti anche le comunità disciplinari ispirate a questi principi. Mediacommons, che pubblica l’opera della  Fitzpatrick, è il  progetto di una comunità aperta, i cui legami sono però anteriori alla rete, che costruisce la reputazione di un utente non solo sui suoi articoli, ma sulla sua capacità di scrivere revisioni valutate come costruttive dagli altri. Il suo scopo è premiare – anti-individualisticamente – chi collabora, senza limitarsi a inondare la scena delle secrezioni del suo lavoro solitario.

Mentre la revisione paritaria è binaria – un testo può essere solo accettato o rifiutato – e gli indici bibliometrici basati sul conteggio delle citazioni sono quantitativi, questo sistema è sfumato e qualitativo, e permette di valutare in che modo un autore è situato nel suo campo disciplinare, seguendo i suoi nessi e i suoi percorsi di discussione. Non possiamo giudicare il valore del lavoro di uno studioso senza confrontarci con il contenuto della sua ricerca e con il suo contributo alle comunità di conoscenza.

[continua]

Tags:

Accessi: 1504

image_print