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Università: quello che siamo, quello che vogliamo

Bozzetto per la copertina del volume Ossi di seppia di Eugenio Montale Einaudi TorinoL’appello Disintossichiamoci- sapere per il futuro denunciava il paradosso della fine – nella “società della conoscenza” – di un mondo dedicato alle cose della conoscenza. Una valutazione dispotica e retrograda, attuata attraverso un’agenzia governativa, e la managerializzazione dell’istruzione superiore mettono a rischio, si diceva, il senso e il ruolo del sapere per la società.  Contro questa deriva, si richiamavano i principi che stanno a tutela del diritto di tutta la società ad avere un sapere, un insegnamento, una ricerca liberi, secondo il dettato costituzionale: a tutela, cioè, del tessuto stesso di cui è fatta una democrazia.

La crisi sanitaria intervenuta dopo la diffusione del nostro appello ha messo sotto gli occhi di tutti gli esiti letali del sistema che denunciavamo: la ricerca sulla SARS e sulla potenzialità pandemiche dei coronavirus. che avrebbe potuto approssimarci a un vaccino contro il Covid-19, è stata trascurata semplicemente perché non più redditizia in termini visibilità e impatto. Proprio mentre l’emergenza sta inducendo i ricercatori a condividere liberamente on-line i loro studi, e le dispute pubbliche fra virologi ed epidemiologi indicano che la comunità scientifica, in una situazione ippocratica, è qualcosa di più di un algoritmo bibliometrico, in Italia si sta manifestando il rischio di ridurre a dato, oggetto di “schedatura” e di sorveglianza, un’altra comunità preliminare alla comunità scientifica: quella didattica composta dagli studenti e dai docenti. Siamo quindi in un momento cruciale di passaggio. La transizione a una didattica stabilmente blended, un modello ibrido che comprende insieme e simultaneamente insegnamento in presenza e a distanza, è quanto da settimane vari senati accademici del nostro paese stanno in vario modo formalizzando.

Nell’emergenza, comprensibilmente, la didattica è stata sostituita dalla teledidattica, a cui tutti si sono generosamente prestati e di cui già molti docenti universitari facevano uso come strumento di sostegno per gli studenti-lavoratori. Ciò, però, non implica affatto che essa sia la chiave che rende l’università accessibile. In un momento di gravissima crisi in cui non possiamo più permetterci di lasciare le sue risorse intellettuali inespresse, l’esigenza – com’è stato notato – sarebbe di rendere l’università non virtuale, bensì gratuita. Ma, a quanto pare, ancora una volta la scelta del ministro e dei vertici dell’accademia – Crui in testa – propende non per un’università libera, forte e aperta, bensì per un’università chiusa, sorvegliata ed evanescente.

Invece di investire nel reclutamento dei docenti, nell’edilizia universitaria e nell’allestimento di residenze per studenti, si offre ai molti giovani che non potranno permettersi trasferimenti e spostamenti una didattica dello schermo standardizzata e depotenziata, che espone tutti gli studenti e i loro docenti a sorveglianza. Si chiede infatti al docente di insegnare in un “blended learning environment”, cioè in un’aula predisposta per la registrazione e/o lo streaming delle sue lezioni in presenza. La lezione si trasforma in un modulo riutilizzabile, fungibile, computabile. Si è arrivati a consigliare ai professori universitari di usare «parole chiave in maiuscolo» per un uso efficace delle slide», «periodi brevi, evitando quindi la narrazione prolissa», «elenchi puntati, per mettere in risalto dei concetti o chiarire argomenti complessi»; e ancora: «evitare di inserire riferimenti all’insegnamento», «evitare riferimenti temporali», «evitare di riferirsi alla numerazione delle lezioni (es. questa è la seconda parte dell’incontro)». Così, si dice esplicitamente, «le registrazioni possono essere riutilizzate per insegnamenti/corsi differenti»; si possono «riutilizzare i moduli didattici anche con un ordinamento differente»: unità di apprendimento «auto consistenti e indipendenti», ogni mattoncino «di durata compresa tra i 10 minuti e i 20 minuti max», ricombinabili secondo le esigenze del caso.1. Gli studenti in presenza potranno certo ancora interagire col docente a fine lezione: gli studenti dello schermo o in assenza dovranno invece accontentarsi di pillole preconfezionate, recitate da un docente che, una volta alienato il suo prodotto, non ha neppure bisogno di continuare a esistere.

Lo studente dello schermo può essere inoltre oggetto di un controllo in tempo reale, tramite un monitoraggio all’insegna del cosiddetto “learning analytics”, che consente, utilizzando grandi basi di dati, di analizzare i «risultati di apprendimento», «identificare gli studenti a rischio di insuccesso» e persino «predire il successo accademico degli studenti stessi» 2. Lo studente dello schermo non è riconosciuto come una persona da formare, ma come un “risultato atteso” (l’equivalenza è tendenziosamente stabilita: «corso di studio orientato verso lo studente ovvero orientato verso il risultato (output)» – Tuning Project 2014). Chi si iscrive a un corso di laurea, secondo una precisa definizione Crui, «costituisce […] a tutti gli effetti quello che potrebbe essere definito un ‘semilavorato pregiato in ingresso’, e lo studente che si laurea costituisce appunto l’output (il prodotto/risultato complessivo)» (CAF Crui 2012).

Questa spersonalizzazione dell’insegnamento, che strumentalizza lo studente e “proletarizza il sapere” (Stiegler), viene confezionata come allo stesso tempo ineludibile e auspicabile sulla base di diverse strategie retoriche. Il gioco principale muove intorno alla categoria equivoca di “inclusione”: studenti-lavoratori, pendolari, persone con disabilità, che, grazie alla tecnologia, verrebbero magicamente “inclusi”, seppure consegnati al chiuso delle loro case e stanze, della famiglia di origine, del luogo di origine – cristallizzati nella loro classe sociale –, tanto ci penserà poi il “merito” a mettere in moto il cosiddetto ascensore sociale.

L’altra categoria ricca di seduzioni ed equivoci è l’Open, dove ne va dell’ingresso nella grande prateria dell’expanding education: quel pilastro della entrepreneurial education che va sotto il nome di MOOC (Massive Open Online Courses). Come è stato chiarito nel seminario promosso da Federica Weblearning e Fondazione Crui il 28.05.2020, open non significa tanto “accessibile”, ma più ancora «Open significa misurabile, mostrabile, comparabile, significa in una misura… avere la tendenza a potere migliorare il prodotto della formazione ed è questa una linea importantissima dell’innovazione con questo nuovo oggetto MOOC». Come si dice altrove, «l’accesso libero e immediato ai contenuti didattici opera, infatti, come fondamentale criterio di benchmarking e valutazione della qualità» (Crui 2018, Piano Nazionale Università digitale MOOC: sfide e opportunità). È su questo piano che l’università delle piattaforme definisce la sua fisionomia. Ancora, si insiste molto sul carattere “pubblico” di alcune piattaforme e sul non lasciare ai grandi player privati il mercato MOOC e i milioni di utenti che ad esso si affacceranno piegati dal diktat del lifelong learning. Ma il punto è intendersi su cosa oggi significa “pubblico”. Se il pubblico si presenta e si muove secondo le stesse logiche di profitto e concorrenza del privato ed è privatisticamente gestito, allora anche nel pubblico non vi è più spazio per un “uso pubblico della ragione”. È proprio questo il problema con cui siamo chiamati a confrontarci.

Quasi superfluo aggiungere che tra i motivi di attrazione del nuovo paradigma compare anche la possibilità di fare finalmente, grazie alla raccolta dati e alle registrazioni, una valutazione “oggettiva” della didattica come auspicato da qualcuno nel corso dell’audizione del Ministro Manfredi alla VII Commissione della Camera il 9/4/20. D’altro lato, già anni fa si osservava che «uno dei freni all’innovazione è la mancanza di un riconoscimento e di valutazione concreta della didattica. In nessuna fase della carriera di un docente la didattica viene valutata. È auspicabile che il legislatore e gli atenei trovino il modo di ovviare a questa situazione» (cfr. CRUI 2018. Piano Nazionale Università Digitale).

Nel caso sciagurato di una nuova emergenza sanitaria, nessuno certamente si opporrebbe a un insegnamento a distanza dalle proprie abitazioni o studi, gestito autonomamente nelle forme ritenute più adeguate da ciascuno, come accaduto nei mesi scorsi. La rinuncia forzata a buona parte di quel “sapere tacito” che passa attraverso il commercio fisico con le persone avrebbe in questo caso una giustificazione. Altra cosa sarebbe invece approfittare dell’emergenza per sottomettere la didattica a una normalizzazione basata su standardizzazione, spersonalizzazione, mercificazione e sorveglianza automatica.

Il 27 marzo scorso, nella lettera aperta al Presidente del Consiglio e ai Ministri Manfredi e Azzolina, già mettevamo in guardia dal rischio che una prassi accolta con generosità nell’emergenza divenisse strumento di finalità del tutto estrinseche; dalla possibilità che essa potesse diventare un doppio canale che scavasse ulteriormente il solco delle diseguaglianze sociali; dall’errore di affidarsi a sistemi proprietari in mano a multinazionali come Google e Microsoft e a datacenter esteri, come scelto dalla stragrande maggioranza degli atenei, i quali hanno ignorato servizi pubblici  senza scopo di lucro sviluppati in Italia, come quelli del GARR, in favore di accordi con multinazionali private che traggono profitto da manipolazione e sorveglianza. A distanza di poco tempo queste preoccupazioni meritano di essere ribadite, perché gli equivoci sono stati tutt’altro che chiariti.

Il docente, se il quadro legislativo resta stabile, dispone di tutti gli strumenti per sottrarre il suo insegnamento al rischio di essere normalizzato, mercificato e sorvegliato. Anzi, lo spazio che si apre in questo modo ci consente di mettere in discussione con più forza e precisione proprio il sistema attuale, contro il quale si impegnava il nostro Appello. Le telecamere in aula configurano una videosorveglianza sul posto di lavoro vietata dalla legge.3 Sulle nostre lezioni c’è un diritto d’autore che può essere ceduto all’ateneo solo con nostro consenso; tale diritto ha inoltre una componente morale inalienabile che protegge la paternità e l’integrità dell’opera, che è possibile far valere se la lezione viene anonimizzata e ridotta in pillole. Senza la nostra specifica autorizzazione, cui non siamo obbligati, nulla consente di mettere online o riutilizzare una nostra registrazione. Su questi e altri punti si può attestare un’azione di contrasto molto puntuale e concreta, che merita di essere perseguita in tutti i casi in cui si sospetta che la teledidattica e la didattica blended non siano meri ausili alla didattica  e che il loro materiale non sia destinato al libero spazio dei beni comuni, bensì al forziere di quelli privati, in violazione della libertà dell’insegnamento dei docenti e dell’uguale diritto allo studio degli studenti.

È infatti nell’interesse di tutti che l’università, da serva e virtuale, ritorni libera ed effettuale, per offrire al paese l’intelletto necessario per uscire dalla crisi.

Federico Bertoni, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo, Valeria Pinto

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“In difesa dell’autonomia della ricerca e della didattica”

Serment du Jeu de Paume - DavidPiù di 2700 ricercatori francesi stanno presentando una candidatura collettiva alla presidenza della locale autorità di valutazione della ricerca pubblica (HCERES) allo scopo di “riappropriarsi del controllo e del senso del proprio lavoro”, nella convinzione che la valutazione della ricerca non spetti all’uso privato di un’autorità amministrativa particolare, bensì all’uso pubblico della ragione  come si svolge, collettivamente, nella comunità degli studiosi nel suo insieme.
Ecco la traduzione italiana della versione francese del loro manifesto Candidature collective à la présidence du HCERES., ora ripubblicata anche su Roars.

È eufemistico affermare che le riforme del nostro sistema di ricerca compiute, in nome dell’eccellenza, nel corso degli ultimi quindici anni non hanno avuto gli effetti attesi. Pur ambendo a rafforzare la potenza scientifica della Francia, hanno  solo – secondo l’indicatore scelto dai riformatori stessi – fatto calare il numero delle pubblicazioni francesi in rapporto a quelle mondiali. Non c’è da stupirsene: le statistiche che stimano gli effetti degli interventi pubblici mostrano che la quantità delle pubblicazioni scientifiche è proporzionale agli investimenti nella ricerca, ma è praticamente insensibile alle riforme strutturali. Eppure, in questi quindici anni, l’impegno finanziario si è concentrato sull’istituzione di una nicchia fiscale, il Credito d’Imposta per la Ricerca, pensata per aggirare il divieto europeo di aiuti pubblici diretti alle imprese. La stima del suo impatto sulla ricerca da parte di  France Stratégie è senza appello: il suo effetto-leva sugli investimenti privati è… negativo.

Le riorganizzazioni dell’università e della ricerca hanno inoltre effetti sistemici profondi, osservabili però solo se non si considera la computazione bibliometrica, bensì la creazione e la trasmissione di sapere. Le riforme strutturali hanno condotto a un declino della qualità e dei requisiti di qualità della produzione scientifica, di cui i molteplici casi di frode sono solo la parte più visibile. Questa crisi istituzionale del mondo della ricerca è tanto più drammatica in quanto sopraggiunge in una fase di crisi sociale, climatica e democratica risolvibile solo tramite un’opera di produzione, trasmissione,  critica e  conservazione della conoscenza.

Poiché si fonda sull’orizzonte comune della ricerca della verità, la scienza presuppone l’autonomia di studiosi, ricercatori e docenti universitari rispetto ai poteri da cui il suo esercizio dipende, siano essi politici, economici o religiosi. Questa libertà accademica non deve essere pensata come un’assenza d’impedimento, bensì come una libertà positiva, da garantirsi con mezzi efficaci. Il suo risveglio deve cominciare con una riaffermazione delle condizioni pratiche di questa autonomia.

La prima condizione è finanziaria: per incoraggiare inventività e creatività, è indispensabile dotare la ricerca  di finanziamenti ripetuti nel tempo, rompendo perciò con la modellazione burocratica della scienza tramite bandi per progetti di ricerca a breve termine, che favoriscono conformismo  e  ricerche incrementali.

La seconda condizione riguarda un’altra risorsa preliminare alla ricerca: il tempo. Per conservare la biodiversità necessaria a un ecosistema di ricerca fiorente, occorre garantire istituzionalmente la possibilità di fare ricerca in tempi lunghi. Una selezione spenceriana promossa dall’alto, fatta di frammentazione e contrattualizzazione generale delle condizioni di lavoro, uccide questa diversità e fa perdurare la crisi qualitativa. La soluzione consiste in un reclutamento di qualità che offra posizioni permanenti, condizione per attirare ricercatori giovani e personale tecnico, così da arricchire costantemente il sistema di idee e aspirazioni nuove.

La terza condizione è ridurre la divisione del lavoro scientifico, vale a dire rigettare la separazione – che ha costituito una burocrazia rigidamente definita – fra responsabili amministrativi che detengono il potere e ricercatori e docenti universitari espropriati e ridotti a meri esecutori. È essenziale sottoporre a revisione le strutture di valutazione accumulate l’una sull’altra in quindici anni  e quantificare i loro costi operativi per liberare risorse tramite la soppressione di stratificazioni inutili o addirittura dannose.

Nella prassi, da secoli, i requisiti di qualità e originalità delle opere scientifiche sono garantiti dalla norma della controversia collegiale (la disputatio dei classici), vale a dire dalla discussione libera e in contraddittorio entro la comunità dei pari. Questo principio di gratificazione sociale fondato sul riconoscimento del valore intellettuale delle opere è irriducibile ad una “valutazione” amministrativa che riposi su un sistema di regole quantitative esterne, determinate dagli interessi degli investitori: ogni metrica normativa smette rapidamente di essere una mera misura per diventare essa stessa l’obiettivo da raggiungere.  Qualsiasi commissione di supervisione, di reclutamento o di promozione deve quindi essere obbligata a fondare le sue deliberazioni sulla lettura delle opere e non su una valutazione quantitativa. Perché queste deliberazioni siano fattibili e credibili, il numero di opere da sottoporre a esame va drasticamente limitato.

Infine, l’autonomia del mondo della ricerca ha bisogno di ristabilire criteri di valutazione scientifica rigorosi, che tengano conto delle specificità contemporanee. È urgente restituire il controllo delle riviste scientifiche alla comunità dei ricercatori e spodestare l’oligopolio editoriale su cui le attuali discipline di valutazione trovano fondamento tecnico ed economico.

Per metter mano a queste riforme, ci candidiamo alla presidenza dell’istituzione incaricata di definire le norme e le procedure che regolano, organizzano e determinano la produzione scientifica: l’HCERES. La nostra candidatura collettiva mira a far rivivere i principi fondativi di autonomia e responsabilità degli scienziati. Non ci può essere un’amministrazione separata con un “presidente” che sovrintenda a queste procedure: è l’insieme della comunità degli studiosi che deve presiedere alla valutazione qualitativa della sua produzione.

Senza autonomia della ricerca non c’è futuro.

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SIFP: una società di studi o un sindacato di professori?

Rendo pubblica qui una parte di una mia lettera aperta al futuro presidente, in quanto candidato unico, della Società Italiana di Filosofia Politica, perché credo che sollevi questioni non particolari. La vertenza di cui si era discusso qui è stata risolta selezionando un presidente terzo e una giunta  con la peculiarità che, nel momento in cui scrivo,  tutte le candidature sono uniche. Per l’uso del lettore estraneo alla SIFP aggiungo che colui a cui scrivo è una persona che stimo e che la lettera non è intesa come una polemica con lui.

La modalità con cui si è giunti a una candidatura presidenziale unica e alle candidature altrettanto uniche dei componenti della giunta, nella quale, come nella conclusione di una guerra di successione dinastica, viene implicitamente celebrato il matrimonio fra le Elisabette di York e gli Enrichi Tudor del momento, mi lasciano perplessa: ci deve essere stata una discussione da qualche parte, ma certamente non pubblica e certamente non aperta a tutti.
Però, in un momento in cui la carriera accademica vede accentuata l’accidentalità che, non da oggi, la caratterizza, chiedere che la SIFP sia una società di studi e non una società di professori, chiedere, cioè, che diventi o ridiventi democratica se mai lo è stata significherebbe sia rendere giustizia ai molti studiosi che, accidentalmente, non sono professori, sia permettere che modi diversi di rappresentare il suo senso e il suo ruolo siano pubblicamente discussi e liberamente votati. Come mai c’era e continua a esserci il timore di lasciare alle persone la libertà di voto e di coscienza se – così ho sentito dire – chi accidentalmente non è professore vota comunque secondo le indicazioni del capo cordata?
È stato anche sostenuto che discutere è inutile perché siamo tutti d’accordo nel reclamare maggiore autonomia alla disciplina. Ma anche questo, secondo me, manca di rispetto sia a coloro che si sottomettono con piacere alla valutazione di stato della ricerca o addirittura vi collaborano, sia a coloro che invece cercano di criticarla teoreticamente e praticamente, e per ragioni più serie di quella particolaristica di ottenere per le proprie riviste preferite una sanzione governativa. Non è storicamente inevitabile che le società scientifiche siano sindacati gialli in cui alcuni professori accidentalmente ordinari perseguono, nel rapporto col padrone di turno, il potere servile ispirato esclusivamente al proprio “particulare” senza preoccuparsi di nient’altro.
La Società Italiana di Filosofia Teoretica, per presentare l’esempio di una disciplina affine, ha saputo comportarsi in modo ben diverso; ed esiste un Coordinamento di Riviste di Filosofia che, sia pure con alcune defezioni, è riuscito a porre alcune importanti questioni di principio.
Sulla base di queste considerazioni, essendo convinta che sia possibile creare comunità scientifiche più vigili e aperte di quella che nominalmente raccoglie gli studiosi di filosofia politica, ho deciso di votare per te esclusivamente per stima personale, ma di non votare per nessuno dei candidati del pacchetto della giunta: le modalità con cui sono stati designati, infatti, fanno temere che la SIFP continui a rimanere una società di professori, invece di essere o di ridiventare una società di studi.

 

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Giuliano Marini traduttore dei “Lineamenti di filosofia del diritto” di Hegel

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Giuliano Marini con C.A.CiampiLineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio (1821) è l’opera che Hegel dedicò alla parte della propria filosofia che egli chiamava anche il ‘sistema dello spirito oggettivo’, un’opera che in Italia ha trovato lunga e meritata fortuna. A trent’anni dall’uscita, e a dodici dalla scomparsa di Giuliano Marini, l’importante studioso pisano che la ritradusse per la Biblioteca Universale Laterza, le eredi e l’editore hanno deciso di metterne a disposizione del pubblico (sotto licenza Creative Commons) la versione digitale. Si tratta di una scelta che va salutata con un sentimento di profonda gratitudine, perché restituisce al dominio pubblico uno dei classici imprescindibili per la formazione filosofica moderna, un’opera ancora oggi letta e citatissima. Per averne una conferma basti ricordare che, come ebbe a scrivere lo stesso Marini nella Premessa del traduttore alla prima edizione, si tratta dell’unica parte del sistema che, assieme alla Scienza della Logica (1812, 1816), Hegel “sentì il bisogno di sviluppare in volume separato”, e l’unica opera data alle stampe nell’intero periodo berlinese (p. XII).

In Italia, la centralità dei Lineamenti per gli studi filosofici e filosofico-giuridici fu chiara immediatamente: la Filosofia del diritto fu tra i primissimi testi hegeliani a trovare una traduzione nella nostra lingua, che in principio venne predisposta da Antonio Torchiarulo e apparve nel 1848. Alla traduzione del Torchiarulo nel 1863 fece seguito una successiva traduzione di Alessandro Novelli, e infine di Francesco Messineo, la quale, licenziata alla fine del 1912, uscì nell’anno successivo per la ‘crociana’ Biblioteca Universale Laterza e fu poi variamente riedita fino al 1979. Quando Giuliano Marini si accinse al difficile compito di fornire al lettore italiano una nuova traduzione di questa fondamentale opera hegeliana, quello di Messineo appariva già un lavoro molto invecchiato, per le varie ragioni che Marini stesso spiegò nella sua Premessa (p. XXI). Alla fine degli anni settanta lo studioso italiano aveva davanti a sé un testo bisognoso di una revisione radicale, tanto per ragioni legate alla naturale evoluzione della lingua, quanto per motivi più sostanziali, dovuti al tecnicismo del linguaggio di Hegel, la cui comprensione, nel frattempo, aveva avuto un affinamento ragguardevole, grazie anche al risveglio degli studi hegeliani tra gli anni sessanta e gli anni settanta. E tale complesso semantico attendeva di essere reso con nuove parole nelle lingue differenti dal tedesco; tutte ragioni, queste, che sconsigliavano di rimettere le mani sul testo del 1912 e che invece suggerivano un impegno ex novo.

La nuova traduzione di Marini avrà due edizioni: la prima, del 1987, che vide la luce dopo un decennio di duro lavoro, alla fine del quale – come scrisse Claudio Cesa, maestro di studi hegeliani in Italia, “non c’era parola che Marini non avesse scrupolosamente soppesato”, con la “precisa consapevolezza che bisognasse restituire il significato autentico dei testi”. Essa ebbe cinque ‘riedizioni’, l’ultima delle quali nel 1996; successivamente, Marini accettò di darne una Nuova edizione riveduta, quella che l’archivio “Giuliano Marini” ripropone in versione digitale. Rispetto alla prima, la seconda edizione variava, oltre che per “alcune modifiche,… quasi tutte di carattere formale” (p.VI), soprattutto per il fatto di essere stata accresciuta dalle Aggiunte (Zusätze) di Eduard Gans, ovvero i brani che questi – amico e discepolo di Hegel – aveva tratto dalle Lezioni di filosofia del diritto tenute dal filosofo quasi ininterrottamente nel periodo berlinese, fino al semestre invernale 1824/25. Seguendo gli appunti manoscritti di H. Hotho e di K. J. v. Griesheim, Gans aveva inserito questo materiale spurio nelle proprie edizioni della Filosofia del diritto (1833, 1840), predisposte per la raccolta completa degli scritti hegeliani curata da Karl Hegel, figlio del filosofo. In tal modo, Gans finì col costruire la versione definitiva della Rechtsphilosophie, ripresa poi nelle varie edizioni ottocentesche e novecentesche, e giunta quindi ai giorni nostri. Qui è inutile intrattenersi sulle ragioni per le quali Marini aveva scelto di non tradurre le Aggiunte nella prima, per poi invece inserirle nella nuova edizione del 1999 – egli stesso ce ne dà notizia nella Avvertenza alla seconda edizione (p. V) -; le Aggiunte furono tradotte da Barbara Henry, arricchendo il già consistente volume laterziano e fornendo al lettore contemporaneo, per completezza e rigore filologico, un’opera assolutamente paragonabile (se non perfino in anticipo sui tempi) a quella delle traduzioni nelle altre lingue europee.

A questo proposito c’è da sottolineare che, quando sul calare degli anni settanta Giuliano Marini iniziò il suo lavoro di traduzione, e ancora nel momento in cui quest’ultima apparve in libreria, il quadro sinottico della Filosofia del diritto in lingue diverse dall’originale era quantomai ristretto (anche su questo punto si veda la sopracitata Premessa, pp. XIX ss). Per quel che riguarda l’italiano si è già ampiamente detto; si deve aggiungere soltanto che nel 1996 – quindi circa un decennio dopo quella di Marini – sarebbe apparsa l’ulteriore versione di Bompiani, a cura di Vincenzo Cicero, cui lo stesso Marini fece cenno nell’Avvertenza del 1999 (p. VIII) -. Lasciando da parte l’italiano e spostandoci all’estero, prima del 1987 il traduttore poteva contare soltanto su pochi solidi esempi: in primo luogo l’importante precedente di Thomas Malcom Knox, che nel 1952 (e nel 1967 in seconda edizione) della Rechtsphilosophie aveva approntato un’ottima traduzione in lingua inglese per Oxford University Press, tuttora in commercio e ancora ampiamente utilizzata; c’era poi la traduzione francese del grande studioso del diritto naturale moderno Robert Derathé (Vrin, 1975), e infine c’era l’edizione in spagnolo di Juan Luis Vernal (Editorial Sudamericana, 1975). Sono queste le versioni che Marini aveva tenuto in considerazione, tutti lavori che certamente avevano dato un nuovo smalto al testo hegeliano tradotto rispetto alle versioni della prima metà del secolo – quella di Samuel Waters Dyde (London: George Bell & Sons, riedita nel 2005 da Abbot), addirittura del 1896, e quella di André Kaan (Gallimard, 1940), soprattutto – ma che rispetto a quella di Marini ancora risentono dei canoni precedenti, i quali alla fedeltà letterale preferivano la chiarezza del dettato, sì da farne per molti versi “più una parafrasi e un’interpretazione che una traduzione” (p. XIX). Solamente più tardi sarebbero arrivate, per le rispettive lingue, le versioni di Hugh Barr Nisbet (Cambridge University Press, 1991) e da ultimo di Alan White (Hackett, 2002) e, quasi in contemporanea, le versioni di Jean François Kervégan (Presses Universitaires de France, 1998) e di Jean-Louis Vieillard-Baron (Flammarion, 1999).

Sulla specificità dell’approccio di Marini all’opera di traduzione, e sull’atteggiamento ermeneutico che esso implicava ci sarebbe molto da scrivere – e non mancheranno certamente le occasioni per tornare a farlo. Certo è che un tale metodo dette il meglio di sé proprio con Hegel, restituendo un contributo che nei fatti non aveva pari, e non solo in Italia, se non risalendo a miliari esempi del genere, come la traduzione della grande Enciclopedia da parte di Benedetto Croce, “dalla quale data (1907) – Marini scriveva – può farsi incominciare la storia delle traduzioni italiane di Hegel” (p. XX); oppure quella della Fenomenologia dello spirito di Enrico De Negri (1933-36) o della Scienza della Logica di Arturo Moni (1925). Del resto, era proprio su questa linea che lo studioso pisano intendeva collocarsi, come ancora ci teneva a ribadire nel 1999 (p. VII); a ciò aggiungerei qualche battuta sullo stile, esemplare per l’aver rispettato il periodare “rigoroso e coinciso” del filosofo, e al contempo direttamente impegnato alla comprensione del testo, e senza inutili artifici. Per tutte queste ragioni, oggi possiamo senz’altro dire che, nelle modalità in cui Marini ha affrontato la pagina hegeliana, sopravvive lo spirito di una operazione ermeneutica, se non la lettera, da lui esplicitamente respinta come metodo per la traduzione, a beneficio del metodo del ‘calco’ (p. VII, pp. XX-XXII).

Rispetto agli anni, cronologicamente neppure così lontani, nei quali veniva proposta la nuova versione italiana dei Lineamenti il panorama filosofico del nostro paese è molto cambiato. Se lo Hegel di Marini, soprattutto nel periodo in cui cadeva la prima edizione, per molti versi si trovava ancora all’interno della Hegel-Renaissance che aveva indirizzato la Hegel-Forschung a partire dagli anni sessanta del secolo passato (del 1961 è l’uscita del primo volume della rivista “Hegel-Studien”, e l’anno successivo viene fondata la Internationale Hegel-Vereinigung, due imprese nate sotto l’attenta direzione di H.-G. Gadamer), già nel primo decennio del nuovo secolo questa spinta andava decisamente esaurendosi. Attualmente, il panorama filosofico internazionale si muove all’insegna di interessi diversi, spesso agli antipodi rispetto a ciò che fu definito ‘idealismo’. In aggiunta, va ricordato che l’opera di Marini – e non solo quella di traduttore – si muoveva in una prospettiva vicina allo storicismo, nella sua versione post-crociana soprattutto, mentre la filosofia italiana attuale (e quella politica in particolare) vive per lo più di contenuti d’importazione, prevalentemente anglosassone e in misura minore francese. E qui non si vuol dire che tutto ciò sia un male o un bene, ma semmai sottolineare il mutato segno dei tempi. Nondimeno, crediamo che lo Hegel filosofo politico e del diritto che s’impone attraverso la sapiente mediazione di Giuliano Marini, proprio grazie a questa distanza, al lettore di oggi sembra mostrare il suo volto più schietto; ciò anzitutto per merito di quella scelta di fedeltà al testo, conservata anche di fronte ai suoi momenti più spigolosi e criptici.

Credo si possa concludere che, più che a uno Hegel attuale, Marini mirò a uno Hegel autentico, pur nella piena consapevolezza della problematicità che nel nostro tempo un obiettivo di questo tipo finiva per conservare. Soprattutto, egli intendeva marcare la distanza che separava lo Hegel storico (cioè quello cui possiamo tentare di accedere attraverso il faticoso confronto diretto con gli scritti) dall’hegelismo a noi più o meno vicino. E proprio lui che, ispirandosi a una celebre formula di Enrico De Negri, tra i suoi maestri di elezione, si era sempre definito un “hegelista non hegeliano”,  del pensiero hegeliano ci ha consegnato un a lezione che ha resistito benissimo al tempo, proprio per via della dichiarata indisponibilità a confinarla in una presa di posizione ‘ personale’. Tuttavia, Marini non fu mai un asettico mediatore del linguaggio: egli contribuì direttamente agli studi hegeliani col volume (edito in prima edizione da Bibliopolis nel 1978, e in seconda edizione accresciuta nel 1990 da Morano) Libertà soggettiva e libertà oggettiva nella ‘Filosofia del diritto’ hegeliana, una raccolta di saggi che traevano spunto, accompagnavano e per certi versi approfondivano la traduzione dei Lineamenti. È in questi studi – dall’inconfondibile stile esegetico – che emerge soprattutto la specificità del suo accostamento a Hegel. Il lettore che ancora volesse gettarci lo sguardo potrebbe facilmente constatare come l’ispirazione personale di quel ‘professore pisano’ fosse rinsaldata dalla consapevolezza di muoversi entro una consolidata tradizione nazionale, questa volta influenzata non tanto dal crocianesimo, quanto dai filosofi del diritto. Per farsene un’idea basterà rileggere alcune delle molte pagine dedicate alla società civile, o al concetto di libertà soggettiva: esse si muovono tutte all’interno di un quadro generale volto alla riappropriazione del valore e dell’autonomia del diritto dei giuristi,  dopo la sua generale svalutazione avvenuta nella prima metà del secolo appena trascorso. E in quegli anni, forse più di tutti gli altri, il filosofo di Stoccarda era considerato il grande detrattore di quel diritto, colui il quale aveva finito per sacrificarlo in favore della politica e dello stato. In una tale riabilitazione del rapporto di Hegel col diritto possiamo rintracciare una comunanza d’intendi con una ben precisa linea interpretativa, che in Italia era stata aperta da Norberto Bobbio, di cui Marini rimase sempre un estimatore, anche quando più tardi tra loro emerse una dissonanza di vedute (che però non sconfinò mai in polemica) sugli esiti istituzionali del cosmopolitismo kantiano. Oggi credo si possa serenamente riconoscere che, per molti versi, lo Hegel filosofo politico di Marini fu uno Hegel ‘ bobbiano’, anche se le sue ragioni filosofiche battevano sui motivi teologici alla radice della dialettica, mentre quelle del pensatore torinese su una visione sostanzialmente illuministica, poi esemplificata nella nota formula della “crisi e compimento del diritto naturale”; ma il valore fondamentale del diritto, anche per la vita politica, fu per entrambi un faro.

Rileggere la traduzione di Marini è perciò un esercizio utilissimo, non solo per mettere a fuoco i motivi dominanti di una stagione culturale che, se non altro per ragioni biografiche, abbiamo alle spalle, ma anche come testimonianza di un insegnamento che è importante non vada perduto. Attraverso un solidissimo ancoraggio ai testi, egli riusciva a spingersi in profondità nella comprensione del suo autore, restituendone la complessità del pensiero non solo nella pagina scritta, ma anche a lezione, dove la traduzione della Filosofia del diritto venne impiegata per anni, a beneficio di intere generazioni di studenti. Protagonisti come Marini ci mancano; essi sono stati tra il meglio che nel secondo dopoguerra l’Università italiana, oggi scossa da profondi mutamenti, è riuscita a darci.

Georg Wilhelm Friedrich Hegel,  Lineamenti di filosofia del diritto. Diritto naturale e scienza dello stato in compendio con le Aggiunte di Eduard Gans

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Classificazione delle riviste: un breve confronto fra l’ANVUR e la Directory of Open Access Journals

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La Cassazione a Sezioni Unite, con una recentissima sentenza (Cass., sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5058), analizzata su “Roars“, a conferma di quanto già stabilito dal Consiglio di Stato, indica con chiarezza qual è il vizio giuridico delle classificazioni ANVUR:

la mancata predeterminazione di criteri ex ante da porre a fondamento delle determinazioni dell’amministrazione.

In altre parole, le decisioni classificatorie dell’ANVUR in merito alle riviste, a dispetto dell’importanza che hanno per la valutazione della ricerca e l’accesso all’abilitazione scientifica nazionale, sono, eufemisticamente, arbitrarie. Per essere più chiari – si tratta pur sempre di deliberazioni amministrative in uno stato che vorrebbe essere di diritto – possiamo anche dire: le decisioni classificatorie dell’ANVUR sono, francamente,  dispotiche.

Immagine: bilancia della giustiziaIl DOAJ, da parte sua, pur non essendo un indice stilato da un’autorità amministrativa e non danneggiando chi preferisce percorrere altre strade, predetermina i suoi criteri ex ante. Qui, per esempio, uno dei redattori italiani del DOAJ li spiega in modo chiaro e dettagliato. Anche se non si tratta di un giudizio, chi fa domanda d’inclusione sa con quale metro la sua rivista verrà misurata.

Il DOAJ è debole, perché tiene in mano solo una bilancia mentre l’ANVUR è armata della spada del potere amministrativo. Chi ha l’onore di contribuirvi come redattore volontario sa che, per quanto i criteri siano stati affinati nel tempo, non potranno mai interamente catturare, nel bene e nel male, le molte cose in cielo e in terra che non riusciamo a sognare con  la nostra filosofia. Ma proprio questo è il suo pregio: il suo tentativo di costruire e di argomentare collettivamente una catalogazione di una parte del mondo della comunicazione scientifica non può diventare dispotico. A sostenerlo, infatti, c’è la debolezza di una bilancia e non la forza di una spada che fatica, a quanto pare, a contenersi  nei limiti del diritto.

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