Politiche della scienza: Francesca Di Donato, Giovanni Molteni Tagliabue

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scriba Sottoponiamo alla revisione paritaria aperta due articoli dedicati a dei progetti di riforma politica della scienza istituzionale – una esterna e l’altra interna.
“Rationalized and Extended Democracy”: Inserting public scientists into the legislative/executive framework, reinforcing citizens’ participation di Giovanni Molteni Tagliabue suggerisce di inserire degli scienziati nei processi decisionali della democrazia, così da renderli meno esposti al rischio strutturale di produrre classi politiche autoreferenziali e corruttibili. Un simile inserimento, sostiene l’autore, non trasformerebbe la democrazia in tecnocrazia se avesse luogo tramite una seconda camera legislativa composta da scienziati provenienti da enti pubblici o pubblicamente riconosciuti ed eletti per non più di due mandati, e, per quanto concerne il potere esecutivo, tramite l’affiancamento dei ministri politici con esperti nominati dalla camera scientifica. In caso di conflitti fra le due camere un referendum popolare interverrebbe a risolverli.
Questo disegno dipende dalla convinzione che i difetti della democrazia siano intrinseci alla stessa competizione elettorale, la quale restringe e influenza gli orizzonti della classe politica, e che inserirvi degli scienziati – meno esposti ai vizi dei politici di mestiere grazie anche al limite dei mandati – possa renderla più capace di rispondere alle sfide che le si presentano.

1. Integrità e autonomia della ricerca

Uno dei revisori, Antonino Palumbo, ha osservato che la scienza istituzionale non è immune dai difetti della politica, né da essa indipendente. Molteni Tagliabue, da parte sua, individua nelle riviste predatorie (II.18. 6) il problema principale della pubblicazione scientifica contemporanea, lo connette all’uso del publish or perish come motore della carriera accademica, e lo pensa superabile tramite un mutamento del sistema degli “incentivi”.
Che i ricercatori abbiano bisogno di bastoni e carote per evitare di produrre opere senza qualità esclusivamente allo scopo di far numero è però solo una delle conseguenze di una valutazione della ricerca divenuta amministrativa, fondata non più sulla lettura dei testi bensì sul conteggio delle pubblicazioni e delle citazioni. In questo modo un aspetto decisivo, prima che per le carriere, per l’autodeterminazione della discussione scientifica è stato dato in outsourcing ad editori commerciali che continueranno ad accrescere i loro oligopoli e a drenare quantità astronomiche di denaro pubblico, finché ne sarà loro lasciato il controllo. Più che con “mele marce” e “riviste predatorie”, abbiamo a che fare con una generale editoria parassitaria, che vive e prospera soltanto in virtù della valutazione amministrativa.
La valutazione amministrativa della ricerca è a sua volta un esito dell’erosione dell’autonomia della scienza istituzionale che già Max Weber vedeva in atto all’inizio del secolo scorso. I danni che ha inflitto alla qualità della ricerca sono talmente noti che pochi, ormai, li liquidano, impropriamente, come “aneddotica”. La stessa Commissione europea, all’inizio del 2021, ha avviato un processo che si è concluso con un Agreement on Reforming Research Assessment. Di questo si occupa l’articolo di Francesca Di Donato, anch’esso proposto alla revisione paritaria aperta, Una questione di qualità o una formalità? L’Agreement on Reforming Research Assessment e il processo di riforma della valutazione della ricerca in Europa.
L’accordo si propone di concordare forme di valutazione che, facendo tesoro delle pratiche della scienza aperta, riconoscano la qualità e la molteplicità delle attività di ricerca senza esaurirle nelle pubblicazioni e senza pretendere di misurarle con metriche basate sulla sede di pubblicazione, quali il JIF e l’H-index, o con classifiche di università ed enti ricerca stilate da aziende secondo i propri criteri e per il proprio lucro. La riforma europea si è resa necessaria perché la valutazione amministrativa, avendo sottratto alle comunità scientifiche la capacità di valutarsi da sé tramite l’uso pubblico della ragione, deve ora por rimedio a ciò che essa stessa ha determinato. In Italia ne sarà protagonista l’ANVUR, a cui ha fatto capo la valutazione quantitativa che l’accordo prevede di superare. Quale sarà il suo esito? Proprio perché, in particolare in Italia, il rischio di cambiare tutto per non cambiare nulla è elevato, l’articolo di Francesca Di Donato – testimonianza di chi ha partecipato direttamente al processo – merita una lettura attenta.

2. Scienziati applicati

Una scienza istituzionale soggetta a valutazione amministrativa e inserita in un sistema di oligopoli editoriali e mediatici può difficilmente offrire al pubblico un punto di vista indipendente e non autoreferenziale. Una seconda camera scientifica, senza un cambiamento radicale nella valutazione della ricerca, sarebbe probabilmente composta da ricercatori con un accesso privilegiato ai finanziamenti pubblici e ai media, scienziati che hanno ricevuto visibilità grazie agli algoritmi commerciali di Facebook, academic star finanziate dai monopolisti del capitalismo della sorveglianza in conflitto d’interessi, o intellettuali che, invece di confutare un pensatore eterodosso con l’uso pubblico della ragione, firmano lettere contro di lui. Secondo Kant, trasformare il filosofo in funzionario, mettendogli in mano la spada del potere, lo espone alla tentazione di ricorrere a quella stessa spada per troncare le discussioni scientifiche: questo rischio vale a maggior ragione se la spada è già stata usata a monte, nella valutazione amministrativa della ricerca, per attribuire visibilità e promozioni.
Molteni Tagliabue, quando deve indicare quali scienziati prestare alla politica, produce una lista esemplificativa che comprende giuristi, sociologi e politologi e scienziati applicati come gli esperti di pianificazione territoriale e urbana, di organizzazione industriale e infrastrutturale, di agricoltura, istruzione e sanità, ambiente, cultura, università e ricerca, nonché filosofi morali studiosi di bioetica. L’elenco pare escludere chi si occupa ricerca di base: non ci sono storici, linguisti, teologi, matematici, informatici, fisici teorici e scienziati naturali. Fra le discipline filosofiche si salva solo la filosofia morale, che, come mostra il caso della cosiddetta AI ethics, più facilmente si presta al servizio di interessi commerciali, o a “risolvere problemi che non pone, ma che le sono posti”. Questa selezione è casuale, o presuppone una prospettiva da “fine della storia”, per la quale tutti i problemi da affrontare sono ormai soltanto amministrativi?
La costituzione della repubblica islamica d’Iran, approvata nel 1979 con un referendum popolare, riconosce la separazione dei poteri, il carattere elettivo del potere legislativo, le garanzie giudiziarie e i diritti civili. Ma lo stato iraniano non è una semplice democrazia: è una democrazia teocraticamente custodita. Un consiglio dei guardiani di dodici membri, in cui sei giuristi islamici (fuqaha) sono nominati dalla guida suprema e sei giuristi civili di fede islamica sono eletti dal parlamento, esamina la compatibilità delle norme approvate dal potere legislativo con l’Islam e vaglia le candidature alle cariche elettive. La guida suprema, a sua volta, è, finché il dodicesimo Iman non uscirà dall’occultamento, un giurista islamico giusto e virtuoso nominato da un consiglio degli esperti, a sua volta composto da giuristi islamici eletti dal popolo. Abbiamo così un regime a duplice – e precaria – legittimazione, nel quale la custodia della democrazia usa strumenti curiosamente consonanti col progetto di Molteni Tagliabue: il riconoscimento costituzionale di una categoria di esperti che si sono affermati come tali in istituzioni diverse dallo stato democratico e la limitazione dell’elettorato passivo. A differenza di quella islamica, tuttavia, la costituzione della repubblica scientista presuppone una gerarchia esplicita fra la fonte di legittimazione democratica e quella scientifica, prevedendo referendum per risolvere i conflitti fra la camera dei politici e quella degli esperti, ammesso e non concesso che quest’ultima abbia l’integrità e il coraggio di crearli.

3. Crisi nella democrazia o crisi della democrazia?

La corruzione e l’autoreferenzialità della classe politica sono un aspetto strutturale della procedura democratica, o sono l’esito della sua impotenza?
Dopo la crisi del 1929, la democrazia statunitense ebbe l’elasticità di reagire e di intraprendere cambiamenti radicali senza aver bisogno di trasformarsi in una repubblica scientista.

Con la presidenza Roosevelt si abbandona il capitalismo a briglia libera del laissez-faire e laissez-passer, il liberismo delle grandi diseguaglianze e delle grandi ingiustizie, stravolgendone i presupposti e inaugurando il più grande intervento dello Stato nell’economia mai concepito fino ad allora: il New Deal. Si rimette a lavoro una nazione, si costruiscono strutture di sostegno al reddito e di sicurezza sociale, si fa ripartire l’economia con una più equa ripartizione delle risorse, si pone un freno al dominio della speculazione finanziaria separando banche di investimento e di deposito. Si mette così in sicurezza il sistema americano tramite un cambiamento profondo dei suoi presupposti. La democrazia viene in sostegno al capitalismo, garantendo l’elasticità necessaria per uscire da un sistema morente con una nuova visione e una grande trasformazione. Anche a costo di attaccare i privilegi acquisiti della classe dominante.1

Nel 2015, in una situazione paragonabile a quella del 1929, la Grecia, oppressa sia da una sua propria crisi del debito, sia dalle soluzioni imposte dall’esterno per risolverla, tentò di proporre una via d’uscita dallo status quo della politica economica dell’Unione Europea.

La richiesta non è quella di contribuire alla spesa pubblica di un paese in bancarotta. Si tratta di chiedere, più radicalmente, una diversa soluzione alla stagnazione economica, alla disoccupazione e al ricatto del debito per tutti gli europei. Si tratta di trovare soluzioni comuni al debito pubblico crescente (una conferenza sul debito), alla mancanza di investimenti e all’economia stagnante (un New Deal per l’Europa), alle banche zombie (una vera unione bancaria) e alla disoccupazione a due cifre (un piano straordinario di occupazione) come problemi che riguardano tutta l’Unione. È una battaglia, in una parola, condotta per ottenere una diversa politica economica europea.2

Sappiamo com’è andata a finire:

le banche greche vengono strangolate, la popolazione ridotta allo stremo, i ricatti e l’intransigenza delle tecnocrazie europee raggiungono un apice mai visto fino ad allora e senz’altro mai applicato nei riguardi dei nazionalismi autoritari dell’Est Europa. La stessa BCE […] scende in campo con tutte le armi di cui dispone, anche se questo significa violare il proprio mandato e rinunciare a garantire la stabilità del sistema bancario europeo. La guerra viene vinta. Nonostante una schiacciante maggioranza respinga nel referendum del luglio 2015 l’accordo offerto dalla Troika, Syriza finisce per capitolare e accettare le condizioni imposte dall’Eurogruppo: austerità draconiana e la piena garanzia del proseguimento della Grande Depressione a fronte di un rifinanziamento del debito del paese e vaghe promesse di un possibile sconto di pena per buona condotta.3

Se la Grecia fosse stata una repubblica scientista, sarebbe cambiato qualcosa? L’economista Yanis Varoufakis non aveva avuto bisogno di un elettorato passivo privilegiato per proporre un New Deal. Ma i vertici politici e tecnocratici dell’Unione europea, rivelando quale fosse la loro effettiva gerarchia di valori, schiacciarono la democrazia greca con durezza estrema. In un quadro come questo, in cui le decisioni degli stati sono dettate dall’esterno perfino per quanto concerne la pace e la guerra, l’unica classe politica che può sopravvivere è quella che non si propone di cambiare il mondo, ma di perseguire il proprio “particulare”; e l’unico elettore a cui rimangono dei motivi per andare a votare è quello che spera di ottenere un favore o una vendetta per qualche suo piccolo risentimento, in un orizzonte altrettanto ristretto.
Wilhelm von Humboldt, in un momento di gravissima crisi, inventò un sistema che affidava la garanzia dell’autonomia delle istituzioni di ricerca a uno stato problematicamente assunto come capace di autolimitarsi. Era infatti convinto che, in una società aperta, una ricerca libera, sola e cooperativa avrebbe avuto ricadute politiche, sociali e culturali che si sarebbero realizzate come effetti collaterali e non nella forma burocratica di incarichi da assumere e di prodotti da consegnare. Si tratta, ora, di capire se, dalla gabbia d’acciaio che tiene oggi prigioniere sia la scienza sia quel che resta della democrazia, sia possibile immaginare vie d’uscita amministrative che non siano esenti dal rischio di renderne più fitte e complesse le sbarre.

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Paolo Bodini, Liberalismo e voto obbligatorio

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Pieter Bruegel il vecchio
Se il “Bollettino telematico di filosofia politica” fosse una rivista di classe A e riconoscesse l’autorità scientifica della valutazione di stato italiana, avrei avuto motivo di negare a Paolo Bodini il suo punto-fedeltà da spendere nell’emporio della carriera, perché la sua tesi non ha convinto né il professor Roberto Giannetti né me. Per noi però la valutazione amministrativa non è né scientifica né costituzionale: per noi le “pubblicazioni” che onorano il loro nome sono e dovrebbero rimanere pubbliche proposte di discussione, punti di partenza e non fini del cammino della ricerca. Abbiamo dunque deciso di segnalare il testo, ma con alcune critiche che non vogliono essere una valutazione gerarchica bensì una prima e non definitiva risposta a un invito alla discussione che estendiamo a tutti i lettori.

L’autore – va riconosciuto a suo merito – è d’accordo con la nostra scelta: il suo testo può essere commentato paragrafo per paragrafo nella nostra sezione dedicata alla revisione paritaria aperta.

1. Voto obbligatorio o obbligo di affluenza?

Secondo Paolo Bodini, la crisi della partecipazione politica che affligge molte liberal-democrazie occidentali – Italia compresa – può essere risolta con il voto obbligatorio, o, più precisamente, con l’affluenza obbligatoria alle urne, pensata come un rimedio “all’inadeguata normazione del meccanismo elettorale, incapace di interpretare e fronteggiare l’atteggiamento dell’elettorato.”

È però questa soluzione rispettosa della libertà del cittadino, intesa sia nel suo senso propriamente liberale, negativo, sia nel suo senso democratico, positivo? Uno stato che professa sia il principio della limitazione della sua interferenza (libertà negativa), sia quello dell’autodeterminazione dei cittadini (libertà positiva) può coerentemente permettersi di obbligarlo a presentarsi alle urne?

L’autore risponde di sì: l’obbligo, infatti, non limita, contenutisticamente, la libertà perché quanto si può esprimere con l’astensione si può ugualmente e anzi più efficacemente comunicare in un regime di affluenza obbligatoria.

  1. Se non voto perché mi sento incapace di prendere una posizione, l’affluenza obbligatoria mi permette di rendere esplicito che decido di non scegliere.
  2. Se non voto perché rifiuto tutti i candidati o tutti partiti in lizza, presentarmi alle urne per rifiutare la scheda o, dove essa lo prevede, indicare che non mi riconosco in nessuno di essi, l’affluenza obbligatoria mi consente di esprimere la mia posizione e, con ciò, anche la mia maturità civica.
  3. Se non voto perché non mi interessa la politica, l’affluenza obbligatoria mi consente di rifiutare la scheda, trasformando semplicemente la mia indifferenza da passiva a attiva, entro un sistema, quale quello statale, la cui autorità è comunque completa o omnicomprensiva.
  4. Se non voto perché non accetto il regime vigente – per esempio perché sono anarchico – posso presentarmi alle urne e rifiutare la scheda, rendendo esplicita la mia protesta e cogliendo l’occasione per divulgare il mio ideale.

La stessa mitezza delle sanzioni previste per il mancato rispetto dell’obbligo è indice della natura “liberale” del suo scopo, che sarebbe “la difesa della partecipazione elettorale come strumento di autodeterminazione e di controllo del popolo sui governanti”.

2. Costringere a essere liberi?

Da un punto di vista storico, tuttavia, la partecipazione elettorale non è stata un obiettivo dei regimi puramente liberali, che anzi per molto tempo si sono fondati sul lato negativo della libertà e – temendo il suffragio universale – su un diritto di voto spesso molto ristretto.1 Lo è invece stata, e lo è, nei sistemi democratici che non possono fare a meno del lato positivo della libertà, ossia dell’autodeterminazione dei cittadini.2 La questione se il voto obbligatorio sia o no (liberal-)democratico, in questa prospettiva, può dunque essere ricondotta a un problema più ampio e più classico: se, cioè, sia possibile e coerente costringere a essere – positivamente – liberi.

L’autore sostiene che l’affluenza obbligatoria alle urne permette all’elettore di dichiarare tutte le posizioni politiche possibili, ma il punto non è questo, se almeno vogliamo tener distinti gli eventuali contenuti di una scelta dalla libertà della scelta stessa. Se vale questa distinzione, allora una cosa è dimostrare che l’affluenza obbligatoria permette all’elettore di dire tutto quello che potrebbe esprimere con l’astensione, e un’altra è provare se il suo essere costretto a dire tutto sia compatibile con il principio dell’autodeterminazione democratica. Non aver chiara questa differenza espone al rischio di confondere un interrogatorio giudiziario, nel quale posso confessare tutto ma, salvo eccezioni, sono obbligato a rispondere, con l’uso pubblico della ragione, nel quale ho facoltà di dire tutto quello che penso, ma con la possibilità di scegliere se, come e quando dirlo.

L’elezione non può essere pensata come una raccolta coercitiva di dati – la quale espone a una pubblica schedatura gli anarchici e i dissidenti radicali che, costretti a presentarsi al seggio, rifiutano di entrare in cabina elettorale – perché, in un sistema democratico, dovrebbe essere un atto libero di autodeterminazione. Eravamo abituati a pensare alla privacy come al diritto, civile, di essere lasciati da soli, ma la segretezza del suffragio, che dovrebbe essere praticabile per tutti, anarchici compresi, indica che è anche – e non da oggi – un essenziale diritto politico.3 Il mio discorso, così come il mio voto, è un mio atto culturale o politico libero solo se è l’esito volontario della mia scelta personale di esprimermi,4 e non il frutto coatto di una raccolta di dati.

In molti paesi – Italia compresa – è obbligatorio partecipare ai censimenti: ma i censimenti sono rilevazioni amministrative della popolazione che trattano i residenti come sudditi sottoposti all’autorità di un governo – non necessariamente democratico – e non come cittadini che scelgono di esserne partecipi.

Che le sanzioni previste per la mancata affluenza siano miti è, da questo punto di vista, irrilevante: il difficile rapporto del voto obbligatorio con la libertà positiva non è una questione di grado, bensì di specie. Per quanto blandamente, l’elettore rimane pur sempre costretto: e qui non si tratta di capire in che misura una (liberal-)democrazia possa obbligare al voto, ma se in generale un’autodeterminazione elettorale coatta possa dirsi autodeterminazione, e, soprattutto, possa dirsi politica.

3. Affluenza obbligatoria e post-democrazia

Come mai è divenuto così faticoso distinguere fra politica e amministrazione, fra cittadinanza e sudditanza, fra governare ed essere governati?

La filosofia politica normativa neo-contrattualista si basa sul modello di un patto costituzionale ideale che è un esperimento mentale e non un fatto storico. E però questa astrazione, se si vuole applicare almeno approssimativamente all’esperienza, non può essere un mito racchiuso in un passato irripetibile o nei sogni di qualche filosofo accademico, ma deve avere qualche nesso con quello che facciamo: un patto costituzionale nel cui esercizio i cittadini non esperiscano più dei momenti in cui scelgono effettivamente qualcosa, in cui la loro decisione conduca a un qualche cambiamento, perde rapidamente il suo senso per ridursi a rituale e finzione ideologica.

In un libro neppure così recente, Colin Crouch ha dato un nome a questa condizione: post-democrazia. Viviamo, cioè, in un mondo in cui le strutture formali della democrazia, elezioni comprese, rimangono in vigore, ma vengono svuotate del loro senso politico, perché il potere, le decisioni e perfino i servizi pubblici, appaltati o privatizzati, sono in mano a gruppi di interesse economici globali, in grado di esercitare un’influenza assai più profonda e capillare rispetto a governi minimizzati, depauperati e confinati nel proprio territorio. Mentre per il liberalismo pre-democratico, il cui suffragio era ristretto, era scontato che la politica fosse un affare per i ricchi e per i pochi, la post-democrazia ha però ancora bisogno dello spettacolo del consenso. E se questo consenso non può più venir guadagnato tramite progetti politici – la storia è finita e c’è certo molto da fare, ma più nulla da progettare – lo si costruisce con le tecniche della pubblicità e delle analisi di mercato. Qui, infatti, richiamare alle urne quanti ormai hanno perso – o non hanno mai avuto – la volontà, l’interesse o la competenza per stare al gioco è assieme indispensabile e pericoloso. Indispensabile, perché ancora non si può fare esplicitamente a meno del consenso delle masse, e pericoloso – perfino nel caso di quanto è poco determinatamente detto “populismo” – perché la maggioranza deve certo partecipare, ma non può propriamente vincere, cioè decidere su qualcosa di più dei marginali feticci su cui la propaganda di volta in volta la mobilita.

In una simile situazione, assimilare l’elezione a una censimento e trattare il momento della deliberazione come una semplice rilevazione di dati – con l’effetto collaterale della schedatura dei dissidenti più radicali – può certamente sembrare una soluzione. Ma ci si può e ci si deve chiedere se questo espediente, al di là della sua coerenza teorica, possa davvero rendere il sistema più democratico, o non sia invece un ulteriore passo di un’assimilazione della politica all’amministrazione che non solo riduce i cittadini a sudditi, ma ci sta rendendo drammaticamente incapaci di rispondere alle crisi.

Paolo Bodini, Liberalismo e voto obbligatorio: un confronto

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Lorenzo Cini, Società civile e democrazia radicale

La nostra collana Methexis ha pubblicato ad accesso aperto il volume di Lorenzo Cini, Società civile e democrazia radicale, Firenze, Firenze University Press, 2012. La versione digitale del testo, in formato PDF, è a disposizione di tutti presso l’archivio elettronico dell’editore.

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