Tetradrakmaton

La Repubblica di Platone

Bollettino telematico di filosofia politica
btfp

Il secondo libro: la sfida di Glaucone

Trasimaco è stato confutato perché, professando la sophia, 13 non era in grado di privatizzare interamente i canoni della conoscenza senza contraddire le condizioni di possibilità della sua stessa professione. Ma la questione della giustizia – e, analogamente, la questione del rapporto fra la vita teoretica e la politica – rimane aperta per chi non professa la sapienza. Perché la giustizia è meglio dell’ingiustizia? Il fratello di Platone, Glaucone, che non è né sofista né filosofo, riformula il problema proponendo a Socrate una classificazione dei beni, fondata sui motivi per i quali vale la pena sceglierli (357b ss.):

  1. beni che accetteremmo di avere di per sé stessi e non per quel che ne segue;

  2. beni che amiamo sia per sé stessi, sia per quel che ne deriva (per esempio avere intelligenza, vista e salute);

  3. beni che vorremmo non per sé stessi, ma solo per il vantaggio che arrecano (far ginnastica, curarci se siamo malati, lavorare per guadagnare denaro).

La giustizia, per Socrate, dovrebbe appartenere alla seconda categoria: chi aspira ad essere felice, dovrebbe amarla di per se stessa, oltre che per i vantaggi che essa comporta. Glaucone gli fa osservare che, per la maggioranza delle persone, la giustizia appartiene tutt’al più alla terza categoria: viene perseguita per le mercedi (misthòi) e la buona reputazione (eudokimesis) che ne derivano, ma in se stessa viene considerata difficile e gravosa (357d ss.), e gli chiede di dimostrare che vale la pena perseguirla anche di per sé, in quanto appartiene all’ambito delle cose che hanno davvero valore e si fanno volentieri senza che nessuna necessità lo imponga.

L'ipotesi contrattualistica

L’opinione comune sulla giustizia, dice Glaucone, si basa sull’idea che commettere ingiustizia sia un bene e subirla un male. Ma le persone che non hanno la forza di prevalere sugli altri e temono che gli altri possano a loro volta sopraffarle, trovano vantaggioso mettersi d’accordo per non farsi ingiustizia a vicenda. Così hanno cominciato a porre leggi e a far patti fra loro, e hanno chiamato nòmimos (legittimo e conforme alle consuetudini) e dìkaios (giusto) ciò che è stabilito dal nomos (358e-359a ss.).

Questa è la genesi e la sostanza (ousìa) della giustizia: un modus vivendi stipulato fra persone che non hanno la forza di sopraffarsi a vicenda. Si tratta, però, di una via di mezzo tra una opzione migliore, ma impraticabile, commettere ingiustizia senza pagarne la pena, e una opzione peggiore, da evitare: subire ingiustizia senza avere la forza di vendicarsi. Ma se fosse possibile mettere in pratica l’opzione migliore, nessuno sceglierebbe la giustizia.

La posizione di Glaucone anticipa il contrattualismo nella versione di Hobbes, cioè nella forma di un pactum unionis fra individui, cui non partecipa il sovrano: 14 si pattuisce la giustizia, che è una costruzione convenzionale, per debolezza e per paura; ci si distacca dal comportamento giusto non appena si ha la forza o l’occasione di farlo senza danno.

Secondo la testimonianza di Aristotele (Politica III 1280b) una tesi simile a quella di Glaucone era sostenuta dal sofista Licofrone, per il quale la legge (nomos) era solo una composizione (syntheke) che assicura reciprocamente il giusto ai cittadini, ma non li rende buoni e giusti. In questo modo, commentava Aristotele, la comunità politica (koinonia) diviene simile a una alleanza militare (symmachia), con la sola differenza che ha luogo fra vicini e non fra popoli reciprocamente distanti. Una posizione analoga è esposta da Tucidide nel dialogo fra Ateniesi e Melii (V,89.1), in questi termini:

...nella considerazione [logos] umana il giusto [dikaia, come complesso dei diritti e dei doveri di ciascuno] viene preferito per una uguale necessità [apo tes ises ananches], mentre chi è più forte fa quello che può e chi è più debole cede. (V, 89, 1)

Il mito dell'anello di Gige

Per illustrare la sua tesi, Glaucone racconta il mito dell’anello di Gige, un pastore della Lidia, in Asia minore, che lavorava alle dipendenze del sovrano locale. Un giorno, un nubifragio accompagnato da un terremoto aprì una voragine nel terreno dove il pastore pascolava il suo gregge. In questa voragine, Gige trovò un cadavere di enormi proporzioni, con un anello al dito. Impadronitosi dell’anello, Gige si rese conto per caso che, se ne girava il castone dalla parte interna della mano, diventava invisibile, e tornava visibile girandolo di nuovo verso l’esterno. Riuscì a diventare un messaggero del re e sfruttando l’invisibilità garantitagli dall’anello, gli sedusse la moglie e col suo aiuto lo assalì, lo uccise, e si impadronì del suo potere. Se due anelli di questo tipo, commenta Glaucone, venissero dati a una persona giusta e a una ingiusta, entrambe, essendo al riparo dalla vista e quindi dalla punizione degli altri, ne approfitterebbero per comportarsi secondo i loro capricci, «come un dio fra gli uomini». Questo dimostra che si è giusti solo se si è costretti, e privatamente tutti giudicano più vantaggiosa l’ingiustizia, piuttosto che la giustizia (359c ss.).

Glaucone usa il mito dell’anello di Gige – rielaborando profondamente la versione di Erodoto (I, 8-12) – per illustrare le conseguenze etiche del suo contrattualismo: se l’unico motivo per essere giusti è dato dalle convenzioni sociali, allora ha senso comportarsi giustamente soltanto in pubblico, quando non abbiamo la forza di farne a meno. Il mito non soltanto sopprime la condizione di validità della morale tradizionale, basata sulla reputazione, ma vieta anche di costruire qualsiasi modello di giustizia civile e personale che faccia riferimento, anche in minima parte, al controllo e alla contrattazione sociale. Un invisibile può comportarsi secondo giustizia solo se crede personalmente, nella sua autonomia, che la giustizia sia, di per sé, la scelta migliore. L’invisibilità lo libera dalla necessità di contrattare una giustizia politica diversa dalla sua giustizia personale: l’unica giustizia politica possibile, a questa condizione, è quella identica alla giustizia personale. L’unico potere politico possibile è quello che riposa esclusivamente sul consenso intellettuale e morale dei cittadini. Reciprocamente, una giustizia degli invisibili deve essere costruita in modo tale da rinunciare ad ogni forma di controllo che presupponga l’eteronomia dei suoi soggetti.

Al problema della giustizia degli invisibili, cioè di e per soggetti morali liberi e autonomi, è strettamente connesso il problema del controllo della conoscenza. Gige, come suddito, con il suo anello può dominare l’informazione su di sé e può accedere a luoghi e conoscenze che, se guardato a vista, gli sarebbero precluse. Per questo, il potere costituito – se fondato sul controllo della conoscenza – lo sentirà necessariamente come un pericolo e cercherà di limitare e di criminalizzare i portatori di anelli, soprattutto se li distribuiscono ad altri. L’anello di Gige, se è posseduto dai governati, propone la sfida di edificare una giustizia accettabile in una situazione in cui le istituzioni politiche non controllano la conoscenza. D’altra parte, Gige, divenuto re, ottiene e conserva la sua carica solo perché controlla l’informazione su di sé ed è in grado di accedere ad informazioni precluse agli altri: il suo anello, se posseduto esclusivamente da chi governa, è una garanzia di controllo monopolistico o oligopolistico della conoscenza, e dunque di potere.

Il racconto esemplare di Glaucone propone il problema generale della preferibilità della giustizia indipendentemente dal controllo sociale. La questione, pertanto, è posta dal lato dei governati e non da quello dei governanti: nella realtà quotidiana, la giustizia può affidarsi al controllo sociale perché la conoscenza è distribuita e controllata in modo incompleto e disuguale, ma che giustizia sarebbe possibile se la conoscenza fosse distribuita e controllata in modo completo e uguale, cioè se tutti avessero un anello di Gige al dito? Se una persona giusta e una persona ingiusta potessero fare tutto quello che vogliono, senza controllo, entrambi cercherebbero di pleonektéin (soverchiarsi) a vicenda, perché kata physin, secondo natura, questo è il bene, e solo il nomos, cioè la convenzione o la legge, costringe a rispettare l’uguaglianza.

Infatti in privato ogni uomo pensa che l’ingiustizia sia molto più utile della giustizia, e a ragione, come direbbe chi facesse un simile discorso: perché se qualcuno, venuto in possesso di una tale facoltà, non volesse mai fare ingiustizia né arraffare cose altrui, a quelli che se ne accorgessero sembrerebbe disgraziatissimo e dissennatissimo, anche se lo loderebbero dinanzi agli altri, ingannandosi a vicenda per paura di subire ingiustizia (360c-d).

Nel mondo di Glaucone c’è una sfera privata fatta di sopraffazione e disordine, e una sfera pubblica fondata su timore ed insincerità. La divaricazione fra pubblico e privato è dovuta anche ad una differente libertà della conoscenza: quello che si dice e si pensa in privato si tiene per sé, e in pubblico il flusso di quello che si sa e si pensa è tenuto sotto controllo per paura. Una giustizia fondata sulla paura e sul controllo della conoscenza tiene insieme la sregolatezza della vita privata e la sorveglianza della sfera pubblica. La sfera pubblica, oltre ad essere il luogo della sorveglianza, è anche il luogo della manipolazione: se abbiamo i mezzi per farlo, ci conviene essere ingiusti e farsi passare per giusti, piuttosto che essere giusti ma avere la reputazione di ingiusti (361b ss.).

Il soccorso di Adimanto: le responsabilità dell'educazione tradizionale

Adimanto, a sostegno del fratello, aggiunge che queste convizioni sulla giustizia sono dovute all'educazione tradizionale. La giustizia viene di solito elogiata solo per la buona reputazione che ne deriva e per i vantaggi ad essa connessi. Anche la religione, promettendo ricompense ai giusti e supplizi eterni agli ingiusti, nell’Ade, tratta la giustizia solo come un bene non di per sé, ma per qualcos’altro ( 363a ss.). Discorsi del genere sono fatti dalla gente comune e dai poeti, che raccontano che l’autocontrollo (sophrosyne) e la giustizia sono gravose, e buone solo per la doxa, l’opinione, e il nomos, la legge o convenzione; che insegnano a rispettare i potenti ingiusti e a disprezzare i deboli e i poveri, anche se migliori di loro; che fanno credere che il favore degli dei, ammesso che esistano e si diano pensiero delle cose umane, si possa comprare con preghiere e sacrifici (364b ss.). Stando così le cose, conclude Adimanto, nessuno è giusto semplicemente perché vuole essere tale, ad eccezione di chi, per sua divina natura, prova ripugnanza a commettere ingiustizia, o se ne astiene perché è riuscito ad afferrare la scienza (epistéme) (366c-d).

Questa situazione, prosegue Adimanto, è dovuta al tipo di argomentazioni che sono state usate per educare alla giustizia:

… nessuno mai biasimò l’ingiustizia né lodò la giustizia altrimenti che per la reputazione (doxa), gli onori (timé) e i doni che ne derivano. Ma a proposito di che cosa faccia ciascuna di per sé, per propria capacità, entro l’anima di chi la possiede, nascosta agli dei e agli uomini, mai nessuno, né in poesia né in prosa, ha adeguatamente argomentato col discorso che l’ingiustizia è il maggiore di tutti i mali che l’anima tiene in sé e che la giustizia è il bene più grande. Infatti, se aveste tutti parlato così dall’inizio e ci aveste persuasi fin da giovani, per evitare l’ingiustizia non ci saremmo guardati l’un l’altro, ma ciascuno sarebbe stato il miglior custode (phylax) di sé, per timore di trovarsi, a causa dell’ingiustizia propria, a coabitare con il peggiore dei mali (366e-367a).

Nel primo libro, Polemarco aveva definito la giustizia come un'arte della custodia (phylakia) di oggetti materiali; l'ipotesi contrattualistica di Glaucone fonda la giustizia su una sorveglianza esteriore sugli esseri umani, che Platone si propone di superare, perché ciascuno diventi custode di se stesso. 15 Sia Platone, sia Aristotele presentano la versione del contrattualismo che fonda la giustizia su una convenzione come una soluzione da scartare. Per i due filosofi antichi, la comunità politica, per essere effettivamente una comunità di uomini liberi, deve avere un fondamento etico liberamente condiviso dai suoi cittadini. 16

Bibliografia e URL rilevanti

Platone. La Repubblica 357a-367e.

Bibliografia sul Platone e il contrattualismo.



[ 13 ] Secondo quanto riportato da Athen., X, 454 F, l’epitaffio sulla tomba di Trasimaco diceva appunto che la sua techne era la sophia.

[ 14 ] Hobbes conosceva bene la cultura sofistica del V secolo e Tucidide. Quando in De Cive 1.2 egli nega che l’uomo sia per natura uno zoon politikòn, nel senso lato di animale sociale, e afferma che gli uomini si riuniscono in società per ricavarne o un utile, o un eudokiméin (cfr. Resp. 358a), sta semplicemente riproponendo una soluzione già scartata dall’antichità.

[ 15 ] Questa reinterpretazione graduale del termine phylax avviene tramite un processo assai simile a quello che conduce alla scoperta del governo di sé nel Menone, ma con una importante differenza: prima di parlare del governo di sé, Socrate propone un progetto politico nel quale il compito di governare e proteggere la città è affidato, appunto, a degli specialisti detti phylakes.

[ 16 ] Kant coglie perfettamente questo aspetto, nel celebre omaggio alla Repubblica contenuto nella Critica della ragion pura (B 370/A314 ss.), quando la designa come una costituzione che miri alla maggior libertà umana secondo leggi che facciano sì che la libertà di ciascuno possa coesistere con quella degli altri. Quanto più la legislazione e il governo fossero ordinati in accordo a questa idea, prosegue Kant, tanto più rare sarebbero le pene: ed è ragionevole pensare che, in un ordinamento perfetto (soltanto) archetipico, le pene sarebbero inesistenti – cioè: non ci sarebbe bisogno del controllo e dell’asimmetria conoscitiva richiesta dal rapporto controllore-controllato, perché una giustizia resistente al vaglio dell’anello di Gige sarebbe condivisa in pubblico e in privato.

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