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Brunella Casalini, La cura della vita, dei giovani e delle generazioni

chiocciola

“Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata”.
Jiddu Krishnamurti

Il discorso dell’intervento della Presidente del Consiglio degli studenti Emma Ruzzon durante la cerimonia di inaugurazione dell’università di Padova sono sicura risuoni oggi nelle aule di tutti gli Atenei italiani. Con intelligenza la studentessa ha saputo raccogliere, e con coraggio pronunciare ad alta voce, di fronte alle autorità, parole che nelle università circolano da tempo, anche se spesso ai  suoi margini. La situazione creata dal COVID-19 negli ultimi tre anni ha fatto esplodere un malessere che era presente ormai da anni. Il malessere di tante/i non solo tra coloro che studiano, non solo tra i precari della ricerca, ma anche tra chi nell’università si trova nella posizione privilegiata di docente strutturata/o e persino tra chi lavora nell’amministrazione. Persino l’amministrazione universitaria, infatti, è stata spinta dal succedersi delle riforme a una costante corsa per il raggiungimento degli obiettivi necessari a raggiungere l’eccellenza entro un sistema competitivo, mentre il blocco del turnover – anche nel loro caso, come nel caso dei docenti e ricercatori – riduceva le risorse umane disponibili.

L’università contemporanea è espressione di una società che ha scelto, e continua a scegliere ogni giorno, una narrazione individualista che — come ha ricordato Ruzzon nel suo discorso — è fortemente incentrata sul merito e sulla responsabilizzazione individuale. Una società in cui persino per avere una vita dignitosa devi dimostrare di meritartelo, dove anche studiare è diventata una gara.

La combinazione del mito dell’individualismo, del mito del merito e di quello della misurazione della performance è stata potente nel rendere invisibili le condizioni strutturali che determinano vantaggi e svantaggi sociali. Ancor più potente è  stata nel mostrare come i vantaggi si cumulino e diventino privilegi e gli svantaggi si cumulino e diventino oppressione, laddove la struttura sociale sia congegnata per favorire la riproduzione di alcune vite, lasciandone prive di cura e attenzione altre. In altri termini, ha saputo non solo distogliere il nostro sguardo dalle disuguaglianze economiche e sociali crescenti che caratterizzano oggi il nostro paese, ma anche offrirne una legittimazione talmente efficace da divenire mentalità diffusa.

L’accesso all’università e ancor di più l’accesso ai dottorati e alla carriera accademica è tornato ad essere una questione di classe – come sottintendono le parole di Ruzzon. La nostra è tornata ad essere una società priva di mobilità sociale e rischia di avere un’università accessibile solo alla gioventù economicamente agiata; un’università, quindi, in cui la società nella sua diversità non sarà rappresentata e in cui il sapere non risponderà ai bisogni della società.

L’università ha sofferto e soffre di questo “incantesimo” dell’individualismo, del merito e della misurazione più di altre istituzioni. Sono molti gli esempi che potrebbero essere proposti per illustrare le distorsioni che il sistema attuale produce nella vita universitaria, distorsioni da molti altre/i da tempo denunciate senza ottenere ascolto. Voglio, però, rimanere qui a quella che dovrebbe essere la funzione prioritaria dell’università accanto a quella della ricerca, ovvero la funzione di una didattica che della ricerca si alimenta, che è volta a trasferirne i risultati e soprattutto dovrebbe trasmettere il valore dell’onestà intellettuale, la passione per lo studio, per l’approfondimento, la riflessione, il pensiero critico, il confronto e lo  scambio.

Questa trasmissione avviene solo nel momento in cui la/il docente riesce a creare in aula un clima accogliente, di ascolto e attenzione reciproca e a gettare le basi di una relazione di mutuo sostegno. Da questo punto di vista, la didattica – come ogni lavoro di cura – è un lavoro che consuma energie mentali non solo per l’impegno necessario a trasmettere contenuti, anche complessi, ma anche, e talvolta soprattutto, nel mantenere, curare e riparare la relazione con chi sta camminando sulla strada dell’apprendimento e della formazione. Un cammino che spesso procede oltre l’aula nel percorso per l’elaborazione della tesi, nel quale la relazione diventa più ricca e appagante, e l’attenzione, come la fiducia reciproca, deve essere ancora più grande. Tutto questo richiede tempo: ogni lavoro di cura richiede un tempo non misurabile e non quantificabile. Ogni lavoro di cura – e soprattutto l’insegnamento in ambito universitario – deve concedersi e deve concedere il tempo necessario ad ottenere l’obiettivo della fioritura di una vita individuale, fioritura che avviene solo nell’ascolto, nel camminare accanto, più che dinnanzi, a chi sta crescendo intellettualmente.

La/il docente oggi, però, oltre alla ricerca che nutre la sua didattica è chiamato a svolgere una molteplicità di altri ruoli: le missioni del docente universitario si moltiplicano entrando tra loro in tensione e creando talvolta conflitti che non possono essere risolti che attraverso decisioni individuali più o meno costose. L’impegno nella docenza entra così, per esempio, in conflitto con quello per la pubblicazione dei c.d. “prodotti della ricerca”, la loro collocazione in riviste o editori prestigiosi, o con il fundraising o ancora con la terza e ora anche la quarta missione. Non tutte queste attività premiano nello stesso modo nella carriera, e così talvolta la scelta viene fatta meramente sulla base dell’opportunità, anche in considerazione di ciò che offre maggiore visibilità.

La dimensione della relazione viene sacrificata, che si tratti del rapporto con chi studia con noi o delle/dei colleghi con cui lavoriamo. Rischia, però, di venir sacrificato anche lo studio. Ogni tanto capita di sentire qualche collega che stanco, a mo’ di battuta —ma di quelle battute che tutti sanno nascondono verità —, si lascia andare a dire che nell’università è ormai sempre più raro che un professore/una professoressa abbia tempo per studiare!

Lo studio richiede di dimenticarsi il tempo e di rallentare. Per tuffarsi nella lettura ci si deve concedere un tempo che si ribella ai ritmi di una vita di corsa, di una vita a ritmi sempre più accelerati. Leggere riflessivamente, con attenzione profonda – come ricorda Bernard Stiegler in Prendre soin: De la jeunesse et des générations (2008) –, è il modo attraverso il quale come esseri umani entriamo in contatto con l’altro oltre il tempo e lo spazio, manteniamo il filo del discorso ininterrotto tra le generazioni, costruiamo cultura. Nella lettura non siamo in gara con l’autore del libro che stiamo leggendo: il lettore collabora alla vita del libro e può, grazie al dono che l’altro gli ha fatto con la sua scrittura, far continuare oltre e altrove il viaggio delle idee. Le idee infatti non vivono nel mercato – come sostengono spesso coloro che vorrebbero trasformare ancora di più l’università in un’azienda. Le idee hanno bisogno di tempo per essere elaborate ed essere trasmesse. Avere tempo, d’altra parte, è possibile soltanto se si ha una stabilità sul piano economico, se non si vive in un precariato che costringe a correre e a sottostare al ricatto. Il precariato universitario è un modo per tentare di uccidere la libertà di ricerca, soprattutto di coloro che esprimono il punto di vista di saperi socialmente soggiogati e costretti ai margini. Le idee mainstream trovano, sì, sempre un mercato che è pronto ad accoglierle, perché più facili da vendere ai più.

La metafora della gara è una vecchia rappresentazione dell’individualismo. Parlando di ciò che distingue l’individualismo moderno dall’egoismo come passione umana universale, Tocqueville, nella De la démocratie en Amerique (1835-1840), utilizzava l’immagine della corsa: ogni individuo corre, voltando con ansia ogni tanto lo sguardo indietro per essere sicuro di non essere raggiunto e superato. Nel tentativo di arrivare primi, si perde di vista la dimensione della relazione, dei legami sociali: l’individuo moderno finisce così per avere relazioni stabili e intime solo con la cerchia sempre più ristretta dei familiari.

Andando oltre Tocqueville, e guardando all’oggi, potremmo dire che il costante sentirsi in gara costringe l’individuo ad un isolamento da cui diventa sempre più difficile uscire, che diventa difficile abbandonare anche quando affiora la consapevolezza che l’isolamento rende deboli, deprime le energie e fiacca la motivazione. (La gara stessa, in fondo, funziona solo finché riconosco gli avversari e il senso condiviso dell’impresa per cui insieme si compete e se ho la consapevolezza che si sta compiendo, anche nella competizione, un’impresa comune.) Come ricorda Arendt in The Origins of Totalitarianism (1951), proprio dell’isolamento tra gli individui si avvalgono i regimi autoritari per governare più facilmente la società civile, per tenerla meglio sotto controllo. Certo, l’isolamento non è ancora l’estraneazione, la perdita di sé e di mondo, su cui fanno leva i regimi totalitari, perché consente la solitudine e quindi il dialogo interiore. Quando, tuttavia, l’individuo isolato diventa dipendente da un mondo digitale che oggi promette attraverso i social un surrogato della vita reale, meno faticosamente raggiungibile e più generoso di like, il rischio dell’implosione del sé aumenta e con esso il rischio dell’implosione di ogni baluardo a difesa della libertà e delle istituzioni democratiche.

Queste considerazioni per dire grazie a Emma Ruzzon per averci restituito con parole lucide la fotografia del nostro paese, attraverso il ritratto delle nostre università. Grazie per averci ricordato che il malessere della gioventù è uno specchio del grado di gravità della malattia da cui è afflitta la nostra società. Non bastano punti di ascolto psicologico destinati a chi studia, né Comitati Unici di Garanzia per il benessere organizzativo, a risolvere il problema dell’università oggi. Dovremmo arrestare la corsa, fermarci a riflettere su cosa si è rotto socialmente e come lo si può riparare. Per l’università questo significa tornare a interrogarsi sul suo mandato, sul senso del suo stesso esistere.

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La prima vittima

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Copertine Maurizi-Piro1. Segreti e bugie

Il potere segreto di Stefania Maurizi ricostruisce sistematicamente “la storia di un giornalista” – Julian Assange – “imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia.”1

Mentre la polizia britannica lo stava arrestando, Assange teneva in mano un libro di Gore Vidal, History of the National Security State, che racconta come gli Stati Uniti, vinta la II guerra mondiale, abbiano continuato ad accrescere la loro spesa militare fino a creare il cosiddetto complesso militar-industriale. Gli interessi di un gigantesco apparato offensivo statale e dell’industria bellica privata si sono così raggrumati in un nesso che condiziona la politica a guerre preferibilmente interminabili, il cui scopo implicito non è più vincere, bensì risucchiare denaro pubblico. A denunciarne i rischi, nel 1961, fu lo stesso Dwight D. Eisenhower, in un memorabile discorso di commiato, che Gore Vidal commenta così:

The good thing was, upon— he kept back military spending. And then, when he left office, he made this great speech, and he explained why it was necessary to have such a huge military. Might have been better if he’d said we don’t need this much military for our task in the world to preserve freedom for ourselves. But he said no matter how necessary, and we think it is, that we have this great military–industrial complex, it is a dangerous thing because of the vast amounts of federal money that are going to private corporations for our defense — and he was trying have it both ways — which is necessary, which is necessary. And he said this is going to change everything in the way our country’s governed: It’s going to change us politically; it’ll change us spiritually. And then part of the speech which I’ve always loved, nobody ever quotes it. After all, he’d been president of Columbia University. He said the effect of all this money coming to our universities, even though it’s for the physics department, the nuclear departments, is going to affect all education. And if the universities are not the home of free investigation, suddenly our knowledge of the world is curtailed by this huge amount of money, which will control the responses of everybody, including the history department. He didn’t say that, but that was his meaning. 2

Dopo l’11 settembre 2001 il grumo si è espanso fino a diventare “uno Stato nello Stato con i suoi apparati dalla Cia alla Nsa al Pentagono che, di fatto, non rispondono a nessuno, perché blindati dalla segretezza”,3 il quale ambisce a catturare, sorvegliare e schedare la comunicazione del mondo e che si coordina con oligopoli privati4 e sempre più concentrati, a loro volta sottratti al controllo del pubblico.

Il suo potere pervasivo fa sì che l’illibertà di stampa del cosiddetto occidente si manifesti come coercizione solo occasionalmente, e con la parvenza dello stato di diritto. E però, se la libertà degli autori è un diritto a salvaguardia di tutti gli altri diritti, come ultimo rimedio civile contro norme e istituzioni ingiuste, allora la posta in gioco, nel destino giudiziario di Assange, di Edward Snowden o di Chelsea Manning, non è la loro salvezza personale, bensì la facoltà dei cittadini del mondo di conoscere e di decidere sulla pace e sulla guerra e in generale di determinare gli ordinamenti sotto i quali vivono, contro la pretesa di imporre il diritto positivo di un singolo stato come norma globale, o, più propriamente, imperiale.

2. Maledetti pacifisti: il controllo del discorso pubblico

Nel 2010 Umberto Eco affermava che la possibilità di pubblicare senza filtri ex ante avvantaggia i pochi colti e disorienta i molti incolti. Nel mondo della scienza aperta si sostiene invece che, essendo la pubblicazione in rete divenuta facile, il filtro può operare ex post, come selezione attraverso la discussione e l’uso. Anche un filtro di questo tipo, peraltro, può essere arbitrario e omologante quanto quelli applicati ex ante nel chiuso delle redazioni. Con la differenza, però, che il suo operare non è interamente nascosto e può essere oggetto d’indagine induttiva e di pubblica critica.

Il libro di Nico Piro, Maledetti pacifisti, denuncia uno di questi filtri: quello che protegge la guerra infinita, vale a dire il lato visibile del potere segreto,5 e che, implicitamente, pretende di legittimarlo.

L’informazione giornalistica italiana, per lo più in mano a un’editoria incapace di partecipare attivamente alla rivoluzione digitale, si è sempre più assimilata ai media sociali proprietari, enfatizzando opinioni e polarizzazioni così da mungere i dati dei lettori per l’uso della propaganda economica e politica e risparmiarsi il rischio, la fatica e i costi di ricostruire e mettere allo scoperto fatti.6 In queste condizioni, chi concentra nelle sue mani media e denaro non ha difficoltà a smerciare la guerra infinita come uno scontro fra amici e nemici, fra buoni e cattivi, per l’intrattenimento o l’oblio non più di cittadini elettori, ma di consumatori-tifosi.

L’obiettivo è quello di venderci la guerra come una partita di calcio dove se accade un infortunio si tira fuori il cartellino rosso. Insomma, la guerra è presentata come un male necessario, una cosa brutta ma che può diventare bella per l’ardimento di chi vi partecipa. Se poi si scade nell’orrore è colpa di qualche anomalia: un crimine, appunto.

Si mira a nascondere la verità, cioè che la guerra è di per sé un crimine, il peggiore che si possa commettere sulla faccia della Terra.

Quando una madre con i suoi bimbi esce di casa in una città assediata per procurarsi dell’acqua da bere e si ritrova presa nel fuoco incrociato di un’imboscata contro un convoglio nemico; quando dall’ultimo piano di un palazzo un cecchino spara e l’artiglieria nemica demolisce l’edificio al cui interno ci sono ancora famiglie; quando una IED piazzata lungo la strada per colpire truppe in avanzamento esplode sotto l’auto di un padre che porta le figlie a scuola; quando accadono questi fatti – ricorrenti in una guerra – perché non parliamo di crimini? Gli unici crimini sono gli stupri? I saccheggi? Le esecuzioni sommarie svolte da militari inferociti? 7

Nel primo articolo definitivo della Pace perpetua, Kant scriveva che la costituzione di ogni stato deve essere repubblicana perché a deliberare la guerra non fosse il potere esecutivo, bensì, tramite i loro rappresentanti, quanti, militari o civili, ne avrebbero subito i danni.

Il 18 settembre 2001, il congresso americano, sull’onda dell’emozione dell’attentato alle Torri gemelle, ha approvato una Authorization for Use of Military Force che permette al presidente di usare tutta la forza necessaria e appropriata “against those nations, organizations, or persons he determines planned, authorized, committed, or aided the terrorist attacks that occurred on September 11, 2001, or harbored such organizations or persons, in order to prevent any future acts of international terrorism against the United States by such nations, organizations or persons”. Soltanto una rappresentante, Barbara Lee, la riconobbe come una clausola in bianco che avrebbe sottratto al parlamento il potere di decidere della pace e della guerra per consegnarlo all’esecutivo, ed espresse un voto contrario. Come scrive Nico Piro,

quella decisione emotiva, sull’onda della tragedia dell’11 settembre, costerà agli Stati Uniti due decenni di “guerra al terrore” con il macabro bilancio di 929mila morti – di questi, 387mila civili, senza considerare i deceduti per gli effetti collaterali della guerra sulla sanità, l’accesso all’acqua e al cibo, la contaminazione ambientale – e di 38 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case in veste di sfollati o rifugiati. I soli Stati Uniti hanno speso 8 trilioni di dollari per operazioni antiterrorismo (meglio chiamarle “attività belliche”) che coprono 85 Paesi stranieri e hanno comportato, anche nel loro stesso territorio nazionale, ai danni di cittadini statunitensi, sistematiche violazioni dei diritti umani e civili.8

Quanto vive, nelle nostre post-democrazie, della repubblica di Kant? Chi decide della pace e della guerra? Che cosa giustifica l’inizio e la prosecuzione di una guerra – umanitaria, esportatrice di democrazia, per la difesa dei “nostri valori” o del nostro potere – quando il rischio della pace perpetua nel suo senso cimiteriale è sempre meno un’eventualità teorica? Anche per la guerra ultima e prossima, quella in Ucraina,

nella conversazione pubblica non c’è traccia di pensiero critico, nessuno prova a ricostruire da dove nasca questa guerra e quei pochissimi che tentano di farlo vengono messi a tacere con l’infamante accusa di essere dalla parte del carnefice. Di nuovo il conflitto passa come unica scelta moralmente accettabile in nome di una implicita superiorità morale dell’Occidente.
Eppure nessuno prova a interrogarsi su cosa significhi “Occidente”, sulla continua autoassoluzione rispetto a scelte come quelle dell’invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan, del conflitto in Libia, del caotico intervento in Siria, dell’accordo di Doha. Nessuno che si chieda perché continuiamo a disegnare un mondo dove gli occidentali sono buoni e il resto del mondo è fatto di infidi e pericolosi nemici. Nessuno che si chieda perché l’Occidente non possa liberarsi dell’ipoteca che l’apparato militare rappresenta per la società americana e quindi per tutti gli alleati. Nessuno che provi ad aprire un dibattito su quel concetto variabile di giustizia che porta a giustificare ogni intervento armato piuttosto che pretendere che la sottintesa e perennemente evocata “civiltà superiore” occidentale debba basarsi sulla capacità di mantenere la pace, non sulla presunta forza di avviare guerre.
Nessuno lo fa, e chi ci prova viene messo a tacere con l’accusa di essere antiamericano.9

3. Apparati morali: la normalizzazione della guerra

In un’intervista del 1998, Zbigniew Brzeziński, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, si vantò di aver orchestrato per l’URSS una “trappola afgana” promuovendo e sostenendo il fondamentalismo islamico. Per lui il fine della dissoluzione dell’impero sovietico giustificava un mezzo che, tre anni prima dell’attentato alle Torri gemelle e dell’inizio della guerra in Afghanistan, appariva già una minaccia per tutti. Dovremmo chiederci se gli Stati Uniti e i loro vassalli europei non stiano ora facendo un calcolo analogo, esponendo l’umanità a rischi ancora più gravi.

In un Paese armato fino ai denti come l’Ucraina, dove sulla scena pubblica da anni operano indisturbate formazioni neonaziste e ultranazionaliste, dove sono stati dati fucili d’assalto anche ai detenuti, dopo aver lanciato al mondo ultimatum su base quotidiana (dateci armi, dateci soldi per far funzionare la macchina dello Stato, dateci aerei, dateci la No fly zone) come potrà il Presidente Zelensky caricarsi la responsabilità di un compromesso? Come potrà arretrare dalla posizione di chi guida le truppe a quella di chi firma un accordo sapendo che dietro di lui c’è chi invece non vuole arretrare di un solo passo, perché quelli che l’hanno seguito con più convinzione sono fanatici che vogliono la vittoria a tutti i costi?10

Dovremmo interrogarci sulla prudenza di chi coltiva e arma estremisti e fondamentalisti e fa combattere guerre infinite, per lo scopo nominale di indebolire o distruggere il nemico di turno, almeno con lo stesso zelo con cui ci si sforza di escludere il pacifismo dal novero delle opzioni realistiche in quanto irresponsabile assolutismo morale. Ma perfino un articolo uscito su “Valigia Blu” lo scorso maggio11 ha paragonato i pacifisti a chi, pur potendo indirizzare un vagone fuori controllo, a un bivio, sul binario in cui c’è una sola persona per evitare che travolga le cinque sull’altro, si astiene perché “la vita umana è sacra e non si possono salvare le persone uccidendone altre”.

Per la verità Philippa Foot, quando concepì la prima versione di questo dilemma,12 non si proponeva di contrapporre un’etica della responsabilità a una presunta etica dell’intenzione, da associarsi a interpretazioni di Kant “un po’ letterali e sciocche” e a “molti dei pacifisti più visibili nel dibattito pubblico”: voleva, invece, circoscrivere la legittimità delle azioni compiute in stato di necessità. Se è moralmente accettabile deviare un tram in modo che investa una sola persona anziché cinque, perché allora dovrebbe essere inammissibile uccidere una persona sana per trapiantarne gli organi a cinque pazienti in pericolo di vita?

La dottrina del doppio effetto rispondeva che nel caso del tram la morte di una persona è un mero effetto collaterale, previsto ma non inteso direttamente, mentre in un omicidio a scopo di trapianto la morte dell’involontario donatore è direttamente deliberata come mezzo per conseguire il fine. Philippa Foot trovava però questa distinzione non del tutto convincente, proprio perché basata – a prescindere dai casi in cui l’effetto inteso e quello collaterale sono così contigui da essere indistinguibili – su una dissociazione artificiosa fra intenzione e previsione delle conseguenze di un atto. Se prendessimo sul serio questa dissociazione così da riconoscerci responsabili solo delle nostre intenzioni e non degli effetti prevedibili delle nostre azioni, uno spacciatore di vino addizionato al metanolo potrebbe discolparsi eticamente e giuridicamente coll’argomento che il suo scopo era trar profitto dalla vendita e la morte dei suoi clienti è stata solo un effetto prevedibile ma indesiderato della sua condotta.

La risposta alternativa di Philippa Foot è kantianamente ineccepibile. La differenza moralmente decisiva fra la deviazione del carrello e l’assassinio a scopo di prelievo degli organi non sta nelle intenzioni, bensì nella gerarchia di doveri che ciascuna delle due condotte presuppone: i doveri negativi di astenersi dal ledere i diritti altrui prevalgono o no sui doveri positivi di aiutare gli altri? Nel caso del carrello, il tranviere o l’addetto allo scambio, in un conflitto non evitabile fra doveri negativi verso una o verso cinque vittime potenziali, scelgono la lesione minore; nel caso del trapianto, uccidere il sano per prelevarne gli organi comporta invece una sua esplicita strumentalizzazione per prestare soccorso ad altri. Nel linguaggio di Kant, nella prima situazione abbiamo un caso di necessità con un conflitto fra doveri giuridici (perfetti), nella seconda invece un contrasto fra il dovere giuridico (perfetto) di non ridurre le persone a mezzi al servizio di scopi altrui e il dovere etico (imperfetto) della benevolenza nei confronti del prossimo. Una cosa è intervenire per limitare il danno quando la lesione del diritto altrui è inevitabile, un’altra pianificare omicidi per motivi umanitari.

È stato, d’altra parte, osservato che il dilemma del carrello, applicato alla guerra in Ucraina, può essere usato a favore della causa della pace: se su un binario sta l’appoggio incondizionato a tutte le rivendicazioni dell’Ucraina – o della Russia – fino alla guerra nucleare, e sull’altro un compromesso con qualche sacrificio dell’uno e dell’altro nazionalismo, è abbastanza chiaro che su quest’ultimo sarebbe meglio indirizzare la macchina della guerra. Il saggio sul diritto di mentire per amore degli esseri umani, nel quale Kant sostiene che è immorale dire il falso perfino a un assassino alla porta che ci chiede se un nostro amico si è nascosto da noi, avrebbe permesso di stigmatizzare il presunto assolutismo morale dei pacifisti in modo almeno apparentemente più facile. Perché preferire il dilemma del carrello?

Forse, anche qui, come nella cosiddetta etica dei veicoli a guida autonoma, il tram esercita un fascino mistificatorio. Philippa Foot, col suo esperimento mentale, non voleva avallare la progettazione e la costruzione di tranvie tragicamente insicure, bensì immaginare, come termine di confronto, una situazione artificiale in cui la condizione di partenza e il margine di scelta fossero limitati all’aut aut fra una e cinque vite e i cui esiti fossero interamente prevedibili. Si può applicare il suo dilemma alla guerra effettuale solo se la si rappresenta come uno strumento le cui opzioni e le cui conseguenze sono perfettamente controllabili – a dispetto di Helmuth von Moltke – e riducibili a morale. Lo si può fare, in altre parole, solo se, come scrive Nico Piro, la si normalizza, ossia, in termini tranviari, si fa passare come ordinario e lecito un sistema di trasporto su rotaia progettato così male che i conducenti o i sistemi automatici che li sostituiscono si trovano quotidianamente a determinare quali pedoni maciullare e quali no.

4. La guerra giusta

Nella Metafisica dei costumi Kant scrive che lo ius necessitatis comporta, in condizioni di emergenza, la facoltà di sopprimere, per salvarsi la vita, persone che non ci hanno fatto nulla di male. Per lui però questo presunto diritto è uno ius aequivocum, ambiguo. Uccidere innocenti non diventa giusto perché ci troviamo in una situazione di estremo pericolo: l’estremo pericolo si limita a rendere il diritto inefficace perché privo di sanzioni così spaventose da indurre a superare il terrore dovuto al rischio immediato di morire.

Perché Kant sceglie una via così obliqua per affermare che le azioni compiute in stato di necessità non sono giuridicamente punibili? Perché l’alternativa – trattare come legittima l’uccisione di innocenti in caso di emergenza – normalizzerebbe una condotta che deve rimanere ingiusta. Se lo ius necessitatis fosse diritto in senso stretto, la cura della sicurezza dei trasporti su rotaia – così come il ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali – potrebbe essere trattata come facoltativa.

Coerentemente, Kant criticava il diritto internazionale giusnaturalista perché normalizzava la guerra. Se si riconosce che ciascuno stato è giudice in causa propria e può far legittimamente valere le proprie ragioni con la forza, non si avalla la legge del diritto, bensì, come in un’ordalia, la legge del più forte. Proprio per questo, secondo Kant, per superare la barbarie della guerra è indispensabile ammettere prelimìnarmente che non possono esistere guerre “giuste”13 anche se, in mancanza di un giudice sovranazionale terzo e dotato di potere coercitivo, ci possono essere guerre che sono o sembrano tristemente necessarie.

Chi crede di combattere una guerra giusta si dà ragione da sé, come un giudice in causa propria e in conflitto di interessi, e la fa valere con la forza: sottoscriverà dunque trattati di pace con la riserva di disattenderli appena possibile, perché un nemico ingiusto non merita il rispetto della parola data; tenderà a interferire violentemente nella costituzione e nel governo di altri stati ritenendoli illegittimi ed ergendosene a giudice; e propenderà a combattere con mezzi tali da rendere impossibile ricostruire, fra le parti, la fiducia per trattare una pace futura, perché con un nemico ingiusto non si può scendere a patti.

Come por fine alla guerra infinita senza deporre l’armamentario della guerra giusta? I crimini di guerra statunitensi rivelati da Wikileaks negli Iraq War Logs, la giustificazione dell’aggressione a stati sovrani con la pretesa, fallimentare, di esportare la democrazia e, soprattutto, una pervasiva menzogna propagandistica mostrano che anche il cosiddetto occidente continua a farne un uso sistematico. Come scrive Stefania Maurizi,

la guerra in Iraq è un caso esemplare di manipolazione dell’intelligence al servizio di una causa politica: gli Stati Uniti avevano invaso il paese il 20 marzo 2003 sulla base di informazioni completamente false, secondo cui il regime di Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa e aveva legami con al Qaeda. Si trattava di una totale invenzione dell’amministrazione di George W. Bush, in combutta con il governo inglese di Tony Blair, per giustificare l’invasione. Ma la manipolazione delle informazioni di intelligence avrebbe raggiunto il suo scopo molto più difficilmente se i media americani avessero fatto il loro dovere: trattare con scetticismo i servizi segreti e loro padroni politici.
[…]
La miscela tra la manipolazione dell’intelligence e la propaganda dei media produsse una guerra da cui il Medio Oriente non si è ancora ripreso, perché non solo ha creato milioni di morti e rifugiati, ma ha contribuito a generare la barbarie dell’Isis, emerso proprio nei territori iracheni sprofondati nel caos e nella violenza innescata dall’intervento americano, poi da lì i suoi fanatici sono arrivati a colpire fino in Afghanistan, in un crescendo di teste tagliate, attacchi suicidi, crocifissioni, stupri di massa, perfino più brutali – se possibile – di quelli di al Qaeda.14

Con questi precedenti, come credere, ora, che l’ultimo atto della guerra infinita sia così “giusto” o, almeno, così necessario da non meritare di finire?

5. Una propaganda quasi inevitabile

Il 5 novembre 2022 si è svolta in Italia una manifestazione per la pace, il cui scopo non era invitare l’Ucraina a una resa senza condizioni, bensì pretendere da stati che si dicono democratici l’impegno a lavorare per una soluzione politica, contro una guerra che fa male non solo ai popoli che la subiscono direttamente, ma all’intero pianeta: “tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. E anche secondo il realista Henry Kissinger solo la via, difficile, della diplomazia e dell’autodeterminazione dei popoli tramite referendum sotto supervisione internazionale può evitarci di ripetere l’errore che nel 1914 condusse l’Europa al suicidio culturale: sprofondare, come in trance, in una guerra che si pensava normale senza conoscere – e tanto meno riuscire a governare – la distruttività del potenziale tecnico che avrebbe scatenato.

Nel 1955 Raymond Aron illustrò così le radici di questo difetto di conoscenza sociale:

Trent’anni fa Julien Benda inventò la fortunata espressione trahison des clercs. L’opinione pubblica non aveva ancora dimenticato le mozioni firmate di qua e di là dal Reno dai più grandi nomi della letteratura e della filosofia. Gli intellettuali avevano ripetuto ai soldati che essi si battevano “gli uni per la cultura, gli altri per la civiltà; avevano denunziato la barbarie del nemico, senza sottoporre a critica le testimonianze addotte; avevano trasfigurato una contesa di forza, simile a tante altre che L’Europa aveva vissuto durante i secoli passati sotto forma di guerra santa. Avevano conferito agli interessi degli Stati e agli odi dei popoli una forma articolata e sedicente razionale. Avevano rinnegato la loro missione, che consiste nel servire i valori non temporali: la verità, la giustizia.15

Aron era consapevole che la defezione degli intellettuali è organizzata amministrativamente tramite la loro crescente dipendenza: “l’intellettuale al servizio d’uno Stato, d’un partito o d’un sindacato, dirigente delle ricerche per conto dell’aviazione americana o dell’agenzia per l’energia atomica, come può sottrarsi alle regole del suo ufficio?”16 Anche oggi, secondo Kissinger, conviviamo – e forse anche coltiviamo – con un difetto collettivo di conoscenza altrettanto pericoloso: “overcoming the disjunction between advanced technology and the concept of strategies for controlling it, or even understanding its full implications, is as important an issue today as climate change, and it requires leaders with a command of both technology and history.”

E però, poco dopo la manifestazione del 5 novembre, un altro articolo di Federico Zuolo su “Valigia Blu” rappresenta ancora il pacifismo come privo di senso della realtà e della responsabilità: “attualmente, nei posizionamenti pubblici la questione del pacifismo si esprime nell’urgenza di richiedere la fine delle ostilità qui e ora. È la natura incondizionata della richiesta che sembra demarcare i pacifisti da altre posizioni che, a loro volta, genuinamente vogliono la pace. Quindi la disputa è tra chi vuole la fine del conflitto (quasi) a qualsiasi condizione e chi dà valore alle condizioni. Infatti, anche se abbiamo sempre un dovere di limitare morte e sofferenza, le condizioni contano poiché determinano il modo in cui si continuerà a vivere dopo la fine delle ostilità.”

Questa interpretazione è semplicemente un espediente retorico per attribuire l’esclusiva dell’irresponsabilità a chi preferisce una guerra finita invece che infinita? Forse no, ma soltanto se si riesce a ricondurre il conflitto armato fra stati sotto controllo morale. Zuolo tenta di farlo con tre argomenti:

  1. Uno stato aggredito ha il diritto di difendersi.
  2. Una guerra deliberata da un governo legittimo è più giustificabile di una imposta da uno illegittimo: “da un lato abbiamo una popolazione che quasi unanimemente sostiene lo sforzo di autodifesa, dall’altro una popolazione che in piccola parte dissente, in larga parte teme la repressione e se ne ha i mezzi cerca di sfuggire alla chiamata alle armi. Contrapporre a quest’ultimi fenomeni la (quasi inevitabile) propaganda di Zelensky sembra veramente un sofisma in cattiva fede. Quindi, le recenti illazioni sullo scarso pedigree democratico dell’Ucraina e sulle presunte volontà di alcuni territori russofoni di adesione alla Russia, anche quando fossero vere, non giustificherebbero l’equiparazione dell’Ucraina alla Russia quanto a legittimità istituzionale.”
  3. Le ostilità di un aggredito che rispetta generalmente lo ius in bello sono più giustificabili di quelle del suo aggressore che sistematicamente si macchia di crimini di guerra: “da un lato abbiamo il ricorso abbondante a bombardamenti a danno dei civili, lo stupro di donne e l’uccisione indiscriminata di civili gettati in fosse comuni; dall’altra parte, oltre alle ‘ordinarie’ operazioni dell’esercito, al massimo si possono menzionare azioni di sabotaggio e guerriglia dei civili che si difendono dall’invasore. Laddove ci sono state azioni contrarie a convenzioni o al diritto internazionale da parte dell’aggredito, esse non hanno avuto carattere sistematico o programmatico, né per modalità né per frequenza né per intensità.”

Queste tesi bastano a moralizzare la guerra, così da renderne il superamento soltanto opzionale?

I. Anche se si volesse attribuire all’aggressore esclusivamente la colpa di aver ampliato un conflitto già in corso, attenuato solo provvisoriamente da trattati sottoscritti con riserve mentali fin dall’inizio evidenti, non si può negare all’aggredito la facoltà di difendersi. Ma una cosa è fondare questa facoltà sullo ius aequivocum dello stato di necessità, un’altra trattarla come un diritto in senso stretto. Una cosa è riconoscere che una guerra può essere tristemente necessaria, un’altra rappresentarla anche come giusta. Non è solo una sottigliezza da kantisti: chi crede di combattere una guerra giusta può sentirsi autorizzato a prolungare il massacro oltre l’indispensabile, eventualmente fino a una pace accettabile anche dal generale descritto icasticamente da Emilio Lussu, e a esonerarsi dalla responsabilità per le conseguenze della sua scelta.

II-III. È possibile che l’Ucraina stia combattendo una guerra, se non giusta, inevitabile a causa del carattere incomparabilmente dispotico e criminale del suo nemico. Ma abbiamo gli strumenti per misurarlo? Per rappresentare l’opinione popolare di una parte, che obbliga anch’essa obiettori e renitenti alla leva, come generalmente favorevole alla continuazione della guerra e trattarne i crimini come trascurabili, dovremmo poter disporre di un’informazione libera e accurata e non di una “(quasi inevitabile) propaganda”.

6. La prima vittima

Nel saggio Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani, frainteso anche dai non pochi specialisti che ne ignorano il senso politico,17 Kant sostiene che un patto costituzionale che comprendesse il diritto di mentire non potrebbe sussistere, perché includerebbe la facoltà di trasgredire per convenienza tutti gli impegni pubblici su cui la costituzione stessa si fonda e di governare invece con la forza e con l’inganno. E ciò non si applica solo all’interno dei singoli ordinamenti: lo stato di diritto di cui anche la democrazia liberale ha bisogno si realizza solo se la sua garanzia pubblica non vale soltanto occasionalmente e per alcuni, ma per sempre e per tutti – cosa, questa, irrealizzabile in un sistema di relazioni che, normalizzando la guerra, si regge sulla legge della forza e non su quella del diritto.

Una democrazia dovrebbe non solo consentire, ma anche garantire la pubblicità di tutte le informazioni necessarie ai cittadini per deliberare consapevolmente sulla pace e sulla guerra. Una costituzione materiale – orientale o occidentale che sia – sotto la quale i coraggiosi che rivelano violazioni e crimini sono perseguitati, incarcerati o costretti all’esilio e la propaganda bellica e il potere segreto sono dati per scontati si espone al sospetto che le guerre che fa combattere non siano affatto inevitabili. Nel detto secondo il quale la verità è la prima vittima della guerra si cela un luogo che sta diventando difficile rendere comune: la prima vittima della guerra è la democrazia, che avrebbe potuto essere la sua prima nemica.

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Daniela Tafani, La libertà di stampa come contropotere in Kant

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La publicité est la sauvegarde du peuple Daniela Tafani, studiosa di filosofia politica e morale, entra a far parte della redazione del Bollettino telematico di filosofia politica proponendo alla revisione paritaria aperta l’articolo Il palladio dei diritti del popolo. La libertà di stampa come contropotere in Kant e negli scritti rivoluzionari.

Quando Kant scriveva che la libertà della penna è l’unico palladio dei diritti del popolo non stava – come potrebbe pensare un lettore europeo o americano poco attento alla costituzione materiale che oggi si trova a subire – facendo retorica. Stava riecheggiando non solo il motto della medaglia dei venditori ambulanti di giornali (colporteurs) all’inizio della Rivoluzione francese, ma anche un’ampia letteratura repubblicana che rappresentava la libertà della stampa come un diritto a salvaguardia degli altri diritti, perfino contro il potere costituito.

La posizione di Kant, fondata sul carattere strutturalmente pubblico della giustificazione morale, era già chiara prima della rivoluzione francese quando, nel saggio sull’Illuminismo, scrive che ogni essere umano ha la vocazione a pensare da sé, contro il ministro Zedlitz che invece la riconosceva a una minoranza. E il suo senso politico diventa ancora più accentuato quando, nel 1793, la libertà della penna, che è libertà spirituale dell’autore invece che mera libertà economica dell’editore, funge da spartiacque fra un regime che contiene leggi ingiuste a cui si può ancora por rimedio tramite il dibattito pubblico e un regime basato sulla mera forza contro il quale è invece lecito fare la rivoluzione.

Il collegamento fra i testi di Kant e il contesto storico dà forza a una lettura non condivisa da tutti gli interpreti, che, anche come tale, merita di essere sottoposta a una revisione paritaria aperta – nella convinzione che promozioni e bocciature in mano a tribunali segreti e arbitrariamente nominati siano ben più vicine a forme di potere politicamente o economicamente dispotico che all’uso pubblico della ragione.

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I custodi del sapere

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David Stanley Bibliotheca Alexandrina1. Per lo stato o per il pubblico?

I used to work for the government, but now I work for the public. It took me nearly three decades to recognize that there was a distinction.1

Per il governo degli Stati Uniti d’America Edward Snowden è un traditore che ha messo a rischio la sicurezza nazionale rivelando che la National Security Agency sottopone – legalmente – buona parte del mondo a sorveglianza e schedatura di massa. Se il “pubblico” e lo stato, o ancor più specificamente lo stato inteso come apparato amministrativo, fossero due concetti sovrapponibili, sarebbe difficile evitare di condividere questa opinione.

Questa dissociazione, però, non è un pretesto escogitato da Snowden. Si ritrova nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo scritta da Kant nel 1783, e precisamente nella sua distinzione fra uso pubblico e privato della ragione. Per Kant, quando agisco come funzionario di un’organizzazione collettiva particolare il mio uso della ragione è privato, deficitario, perché, rivolgendomi a un gruppo istituzionalmente delimitato, devo attenermi a norme che non necessariamente mi appaiono giustificate. Quando invece parlo come studioso il mio uso della ragione è pubblico, e deve essere libero, perché non mi esprimo come funzionario di un’istituzione particolare, bensì come partecipe di una comunione ideale aperta alla discussione con tutti gli esseri razionali. Come potrebbe uno studioso servire credibilmente la verità se fosse allo stesso tempo sottomesso agli interessi particolari di chi gli paga lo stipendio? Questa comunione, detta da Kant “cosa comune” e società cosmopolitica, è molto più dello stato: in caso di conflitto fra ciò di cui sono convinto come studioso e ciò che sono tenuto a dire e fare come funzionario è la mia coscienza a dover prevalere. Snowden, lontano dallo studioso ordinario, ha fatto, tradendo un governo di cui non era neppure funzionario, quanto buona parte degli impiegati che oggi lavorano all’università non osa immaginare: render pubblico quello che sapeva rischiando del proprio, anche – almeno in apparenza – contro gli interessi dello stato di cui era cittadino.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso, cambiare idea in rete era facile come cambiare persona: Internet poteva dunque apparire, in opposizione allo stato, come la migliore approssimazione al “pubblico”: uno spazio virtuale di discussione libera in cui nulla – neppure la preoccupazione per la propria reputazione – ci incatena ai nostri tutori.

In the 1990s, the Internet had yet to fall victim to the greatest iniquity in digital history: the move by both government and businesses to link, as intimately as possible, users’ online personas to their offline legal identity. Kids used to be able to go online and say the dumbest things one day without having to be held accountable for them the next. This might not strike you as the healthiest environment in which to grow up, and yet it is precisely the only environment in which you can grow up — by which I mean that the early Internet’s dissociative opportunities actually encouraged me and those of my generation to change our most deeply held opinions, instead of just digging in and defending them when challenged.2

Nell’Internet di oggi, gli stati e le aziende monopolizzano, frammentano, recintano e sorvegliano lo spazio della discussione. Identificarla col pubblico è divenuto difficile. Ma una democrazia che non voglia assorbirsi in una tecnocrazia più propensa a rispondere ai pochi che ai molti, avrebbe ora più che mai bisogno della libertà del sapere anche e soprattutto a proposito di se stessa.

Kant pensava il pubblico come una società virtuale: ridurlo in un’istituzione, anche mondiale, lo avrebbe infatti esposto al rischio di essere sottomesso all’uso privato della ragione. Pretendeva, tuttavia, che le organizzazioni particolari, indebitamente dette “pubbliche”, al pubblico fossero aperte, riconoscendo a chi parla come studioso la possibilità di farlo liberamente. E se per pubblico s’intende uno spazio ulteriore a quello istituzionale, sottratto al controllo del governo e alla sorveglianza delle aziende, nel quale e per il quale le istituzioni possano aprirsi alla discussione, venir criticate e talvolta superate o abbandonate, a preoccuparsi per esso dovrebbe essere non solo Snowden, bensì in primo luogo l’università, in quanto organizzazione di studiosi soggetta a un’amministrazione sempre più ostile alla sua indipendenza.

In Italia, pur essendo possibile fare altrimenti, la maggior parte delle università affida servizi di comunicazione essenziali quali la posta elettronica o la didattica a distanza a Microsoft e Google, che contribuivano e possono contribuire allo spionaggio denunciata da Snowden perché soggetti alla legge statunitense. Anche la ricerca, la cui comunicazione e valutazione è amministrativamente consegnata ai monopolisti dell’editoria commerciale, è abbandonata alla loro sorveglianza, cioè al controllo di privati con scopi – e capacità di manipolazione e di indirizzo – ben lontani dalla scienza, e dall’interesse pubblico in generale.

2. Biblioteche, monasteri, università

Dov’è, dove può essere, come può sopravvivere l’apertura al “pubblico”?
Karen Maex, rettrice dell’università di Amsterdam, ha cercato di rispondere a questa domanda in un discorso per la celebrazione del suo 389 Dies Natalis. Ciò che qui chiamiamo “pubblico” è vissuto in spazi progettati per organizzare durevolmente il sapere: la biblioteca di Alessandria, i monasteri, le accademie e le università. Tutti questi luoghi non aggregano e aggregarono soltanto libri, ma anche studiosi che facevano uso dei testi e ridavano loro la parola da lettera morta che erano.

Ideas, great or small, can communicate their effect only through the institutions that organize them. Some of the most powerful ideas are those with the capacity to reorganize the ways in which people pursue knowledge: who pursues it, where and how they do so, and how they judge themselves to have attained it.3

Da quando si è tentato di riversare il sapere in testo e di costruirvi attorno istituzioni che lo conservino, lo riproducano, lo disseminino e lo discutano, queste hanno acquisito la capacità di influenzare e formare la conoscenza stessa. La biblioteca di Alessandria concentrò i libri nello spazio, al servizio di una scienza ecumenica ed enciclopedica e di un disegno originariamente ellenistico basato sull’egemonia del greco come lingua veicolare: il prezzo di questa intrapresa fu la spoliticizzazione della conoscenza – letteralmente, il suo allontanamento dalla polis e il suo spostamento entro la gabbia dorata della dipendenza da una successione di imperi, per legarsi sia alla loro forza sia alla loro finale fragilità.
I monasteri, concepiti per sopravvivere al collasso della civiltà antica, permisero di tramandare la conoscenza nel tempo, affidandola a una rete di comunità che copiavano e riadattavano i libri. Le università, che si aggregarono come corporazioni nella rinascita urbana del basso Medioevo, riportarono lo studio nella civiltà, pur attraverso crisi connesse ora alla loro dipendenza da poteri politici non più capaci di essere ecumenici, ora al loro essere esse stesse formazioni di potere non sempre in grado di restare cosmopolitiche.4

Lo sguardo sulla storia aiuta la rettrice, ingegnera elettronica di formazione, a non ridurre la rivoluzione digitale a un’innovazione tecnica – come se l’informatica non si occupasse di automazione dell’informazione e del suo trattamento, bensì soltanto di progettarne erogatori più efficienti ma altrimenti neutrali.

Le istituzioni del passato hanno concentrato i testi nello spazio, li hanno estesi nel tempo e vi hanno costruito attorno comunità di conoscenza ora lasciando la polis per sottomettersi all’impero, ora allontanandosi dal consorzio civile, ora aggregandosi in corporazioni o in accademie, ora dividendosi in raggruppamenti disciplinari: ogni volta, per ottenere questo scopo, hanno rinunciato a qualcosa – dal consorzio con la polis fino a quello con la società – ma hanno ottenuto l’essenziale, vale a dire la possibilità di tramandare e coltivare un sapere relativamente indipendente e pubblico in virtù del controllo della propria “biblioteca”. Ora, però, la biblioteca, divenuta digitale, è governata ed elaborata da macchine cognitive la cui automazione – la potenza delle procedure basate su un sapere passato che pare esonerare gli umani dalla comprensione – induce a credere che non più di comunità di conoscenza ci sia bisogno, ma solo di inseritori di dati.

Dall’ultimo quarto del secolo scorso le biblioteche hanno cominciato a smettere di essere depositi di volumi di loro proprietà da rendere disponibili a tutti, per diventare sempre più simili a ugelli erogatori di materiali non più loro, ma semplicemente sotto licenza, grazie a una “proprietà” intellettuale inasprita ed estesa perché cucita addosso a interessi commerciali e non scientifici e alla dissociazione bibliometrica della valutazione della ricerca dalle comunità scientifiche e quindi dalla ricerca stessa. L’accesso aperto, in un sistema in cui non viene fatto contare quanto facciamo e scriviamo, ma il suo metadato citazionale, può cambiare ben poco. Mentre gli editori ancora sfruttano il monopolio detto copyright, mentre la “pirateria” offre il servizio pubblico che essi non danno, mentre si pagano cifre oltraggiosamente alte per rendere i testi visibili, le biblioteche – o quel che ne resta – smettono di essere luoghi aperti a tutti, per cedere il governo dell’accesso in lettura e scrittura a privati che ne traggono profitto.

Ma non solo di biblioteche si tratta. La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente. È normale per i ricercatori cercare l’H index proprio e altrui su Google Scholar, collaborare fra loro regalando documenti e dati a Google Docs, fare lezione su Microsoft Teams o ricorrere spensieratamente a Google Drive o ai servizi cloud di Amazon per condividere dati. I ricercatori, del resto, grazie alla bibliometria, sono abituati a essere condizionati nelle loro letture e nelle loro scelte di ricerca da algoritmi non scelti da loro e di proprietà altrui: la differenza rispetto al passato non è nella specie, ma soltanto nel grado. Prima che i media sociali proprietari restringessero e polarizzassero la sfera pubblica generale a scopo di profitto, gli editori commerciali5 e gli algoritmi di valutazione avevano già ristretto e pervertito la discussione scientifica. E come si è accettato questo pervertimento, altrettanto passivamente si accetta che ne venga coinvolta anche la relazione fra docente e discente.

3. Proteggere l’università digitale

L’indipendenza della didattica e della ricerca è – o è stata – una parte importante dalla tradizione intellettuale europea della scienza aperta, resa possibile dal carattere pubblico dell’università, dalla pluralità delle sue discipline e dalla sua accessibilità a studenti di ambienti e prospettive differenti. Ma proprio questa indipendenza, che ha messo in grado l’università di rivolgersi da pari a pari ad altre istituzioni, industria compresa, è ora a rischio, entro un ecosistema post-democratico profondamente sbilanciato a favore di monopoli e oligopoli privati. Ed è così a rischio che la rettrice olandese, da poco eletta presidente della LERU, chiede agli stati nazionali e a un’Unione Europea che si è adoperata molto di più a favore delll’uso privato che di quello pubblico della ragione un Digital University Act per:

  • assicurare che i dati di ricerca siano oggetto di archiviazione e accesso pubblico organizzato da università e infrastrutture altrettanto pubbliche;
  • garantire un accesso aperto alle pubblicazioni universitarie in lettura e scrittura libero dal controllo e dal commercio privato dei relativi dati;
  • fare sì che gli strumenti digitali di apprendimento e ricerca siano generalmente sotto controllo pubblico e basati su pubbliche infrastrutture; se in parziale collaborazione con piattaforme private, le università devono influenzarne le scelte di sviluppo e controllarne la raccolta e l’elaborazione dei dati degli utenti;
  • esigere che docenti e ricercatori accedano ai dati delle piattaforme che usano.

Non possiamo decidere pubblicamente senza pubblicamente sapere: ciò che vale per il futuro dell’insegnamento e della ricerca indipendente vale anche, dice Karen Maex, per il futuro della democrazia. Ben difficilmente, infatti, uno stato che non protegge il sapere indipendente e pubblico, o addirittura ne incoraggia e sostiene la privatizzazione, potrà tornare dalla parte del pubblico.

Perché le università hanno bisogno di costrizione e tutela legale? Perché, salvo eccezioni non italiane, trattano il sapere non più come un problema ancora non del tutto risolto, bensì come un complesso di prodotti soggetti a valutazione esterna. Le modalità della loro erogazione sono indifferenti: i prodotti, come unità cristallizzate e indivisibili, possono dunque essere distribuiti da monopolisti editoriali e tecnologici senza che il loro carattere venga alterato. Anche qui c’è una dissociazione fra l’istituzione e il pubblico: la ricerca non viene valutata tramite l’uso pubblico della ragione, bensì amministrativamente, cioè con l’uso privato. Se la valutazione della ricerca fosse stata ancora interna alla ricerca stessa,6 università e biblioteche avrebbero riflettuto un po’ di più prima di consegnarsi alle determinazioni di enti amministrativi e di monopolisti privati.

http://www.andreasaltelli.eu/file/repository/Lobbies_0_1.pdf Andrea Saltelli, in Science and regulatory capture, analizza cinque casi europei di “regulatory capture” basati su un uso strategico di una legittimazione scientifica organizzata ad hoc. L’espressione inglese regulatory capture, che si riferisce a casi in cui interessi particolari organizzati influenzano l’intervento politico, legislativo o amministrativo dello stato, si traduce in italiano, meno asetticamente, con “politica clientelare”. È grazie a una politica clientelare, racconta Saltelli, che un’associazione industriale è riuscita addirittura a introdurre un nuovo principio, il principio di innovazione contro quello di precauzione, nell’ordinamento giuridico europeo.

In un simile clima, chi difende gli interessi dei molti è esposto, indipendentemente dalle sue intenzioni, al rischio di essere esso stesso catturato dalla regulatory capture, o perché, come è avvenuto nella vicenda della direttiva europea sul copyright, si accontenta delle briciole lasciate cadere dal tavolo su cui banchettano i potenti, o perché si limita a reclamare un’eccezione per la propria istituzione, quando, come del resto pare consapevole Karen Maex, la conoscenza indipendente e pubblica non è solo la ragion d’essere dell’università, ma la base dell’autonomia, in senso distributivo e collettivo, di una società che voglia emanciparsi dai clientelismi. Anche se un discorso come quello di Karen Maex si potrebbe difficilmente immaginare nella bocca di un rettore italiano, e anche se la sua proposta è pragmaticamente encomiabile, un giudizio filosofico deve fare i conti con un orizzonte più ampio e con rischi più grandi. E in questa prospettiva non basta una legge speciale a protezione dell’università per fare i conti con la generale sudditanza dell’università stessa, della società e di chi le governa, e anzi perfino il doverla chiedere è già un’ammissione di marginalità. A emanciparsi dal clientelismo dovrebbero infatti essere la politica e la legislazione europea in merito ai monopoli sui testi, sulle idee e sulla comunicazione in generale. E difficilmente lo faranno, almeno finché l’ordine del mondo continuerà a ridurre ciascuno a far parte per se stesso.

Appendice

doi.org/10.1002/acp.3844 Cliccando sull’immagine qui a fianco il lettore può vedere un campione dei traccianti contenuti in un articolo scelto a caso in Wiley Online Library. Chi volesse verificare personalmente può aprire con Chromium un qualsiasi articolo sul sito del suo oligopolio editoriale preferito, da “Strumenti per sviluppatori” selezionare “Sources” e confrontare quanto ottenuto con una lista di traccianti noti, quale, per esempio, quella resa disponibile da DuckDuckGo.
Nel momento in cui questo testo viene composto, chi facesse la stessa operazione su Open Reseach Europe, dato in gestione a F1000 Research, si renderebbe conto che anch’esso contiene dei traccianti di terzi, anche invadenti e occhiuti come quelli di Google.

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Nico De Federicis, Kant e le ambiguità della sovranità

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250 Jahre Immanuel Kant La filosofia politica moderna, a partire da Hobbes, ha impiegato il concetto di sovranità statale con un’ambiguità peculiare: da una parte, essa si giustifica come la forma di un ordine politico a garanzia delle libertà individuali, dall’altra, però, la sua stessa assolutezza produce un potere smisurato, assai più pericoloso di quelli degli singoli immaginati nel disordine pre-statuale dello stato di natura. Sull’arena internazionale, così, si replica l’alternativa fra stato di natura e assolutismo nella forma potenziata di una contrapposizione fra disordine mondiale e dispotismo internazionale, a proposito della quale, paradossalmente, difensori della sovranità quali C. Schmitt si schierano a favore del primo per timore del secondo.

Nico De Federicis, nel suo articolo “Kant e la filosofia politica moderna“, sostiene che Kant sfugge da questa ambiguità perché:

  • la sua repubblica mondiale non supera lo stato di natura fra stati fondendoli in un superstato, secondo una visione monista della sovranità, bensì tramite un federalismo che non la scinde solo orizzontalmente, con la divisione dei poteri, ma anche verticalmente;
  • la fondazione ultima della repubblica, o, meglio, ciò che la rende possibile, è una legittimazione morale, vale a dire il diritto degli esseri umani intesi come agenti razionali liberi e uguali.

In altre parole, mentre Hobbes e i teorici della sovranità monista propongono un aut aut fra guerra civile e dispotismo, Kant sostiene che proprio la sovranità in quanto concentrazione di potere basata sulla forza produce e guerra civile e dispotismo, e che l’unico modo per uscirne sia distribuire il potere, in luogo di concentrarlo, e prendere sul serio la questione della sua legittimazione morale.

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