Brunella Casalini, La cura della vita, dei giovani e delle generazioni

chiocciola

“Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata”.
Jiddu Krishnamurti

Il discorso dell’intervento della Presidente del Consiglio degli studenti Emma Ruzzon durante la cerimonia di inaugurazione dell’università di Padova sono sicura risuoni oggi nelle aule di tutti gli Atenei italiani. Con intelligenza la studentessa ha saputo raccogliere, e con coraggio pronunciare ad alta voce, di fronte alle autorità, parole che nelle università circolano da tempo, anche se spesso ai  suoi margini. La situazione creata dal COVID-19 negli ultimi tre anni ha fatto esplodere un malessere che era presente ormai da anni. Il malessere di tante/i non solo tra coloro che studiano, non solo tra i precari della ricerca, ma anche tra chi nell’università si trova nella posizione privilegiata di docente strutturata/o e persino tra chi lavora nell’amministrazione. Persino l’amministrazione universitaria, infatti, è stata spinta dal succedersi delle riforme a una costante corsa per il raggiungimento degli obiettivi necessari a raggiungere l’eccellenza entro un sistema competitivo, mentre il blocco del turnover – anche nel loro caso, come nel caso dei docenti e ricercatori – riduceva le risorse umane disponibili.

L’università contemporanea è espressione di una società che ha scelto, e continua a scegliere ogni giorno, una narrazione individualista che — come ha ricordato Ruzzon nel suo discorso — è fortemente incentrata sul merito e sulla responsabilizzazione individuale. Una società in cui persino per avere una vita dignitosa devi dimostrare di meritartelo, dove anche studiare è diventata una gara.

La combinazione del mito dell’individualismo, del mito del merito e di quello della misurazione della performance è stata potente nel rendere invisibili le condizioni strutturali che determinano vantaggi e svantaggi sociali. Ancor più potente è  stata nel mostrare come i vantaggi si cumulino e diventino privilegi e gli svantaggi si cumulino e diventino oppressione, laddove la struttura sociale sia congegnata per favorire la riproduzione di alcune vite, lasciandone prive di cura e attenzione altre. In altri termini, ha saputo non solo distogliere il nostro sguardo dalle disuguaglianze economiche e sociali crescenti che caratterizzano oggi il nostro paese, ma anche offrirne una legittimazione talmente efficace da divenire mentalità diffusa.

L’accesso all’università e ancor di più l’accesso ai dottorati e alla carriera accademica è tornato ad essere una questione di classe – come sottintendono le parole di Ruzzon. La nostra è tornata ad essere una società priva di mobilità sociale e rischia di avere un’università accessibile solo alla gioventù economicamente agiata; un’università, quindi, in cui la società nella sua diversità non sarà rappresentata e in cui il sapere non risponderà ai bisogni della società.

L’università ha sofferto e soffre di questo “incantesimo” dell’individualismo, del merito e della misurazione più di altre istituzioni. Sono molti gli esempi che potrebbero essere proposti per illustrare le distorsioni che il sistema attuale produce nella vita universitaria, distorsioni da molti altre/i da tempo denunciate senza ottenere ascolto. Voglio, però, rimanere qui a quella che dovrebbe essere la funzione prioritaria dell’università accanto a quella della ricerca, ovvero la funzione di una didattica che della ricerca si alimenta, che è volta a trasferirne i risultati e soprattutto dovrebbe trasmettere il valore dell’onestà intellettuale, la passione per lo studio, per l’approfondimento, la riflessione, il pensiero critico, il confronto e lo  scambio.

Questa trasmissione avviene solo nel momento in cui la/il docente riesce a creare in aula un clima accogliente, di ascolto e attenzione reciproca e a gettare le basi di una relazione di mutuo sostegno. Da questo punto di vista, la didattica – come ogni lavoro di cura – è un lavoro che consuma energie mentali non solo per l’impegno necessario a trasmettere contenuti, anche complessi, ma anche, e talvolta soprattutto, nel mantenere, curare e riparare la relazione con chi sta camminando sulla strada dell’apprendimento e della formazione. Un cammino che spesso procede oltre l’aula nel percorso per l’elaborazione della tesi, nel quale la relazione diventa più ricca e appagante, e l’attenzione, come la fiducia reciproca, deve essere ancora più grande. Tutto questo richiede tempo: ogni lavoro di cura richiede un tempo non misurabile e non quantificabile. Ogni lavoro di cura – e soprattutto l’insegnamento in ambito universitario – deve concedersi e deve concedere il tempo necessario ad ottenere l’obiettivo della fioritura di una vita individuale, fioritura che avviene solo nell’ascolto, nel camminare accanto, più che dinnanzi, a chi sta crescendo intellettualmente.

La/il docente oggi, però, oltre alla ricerca che nutre la sua didattica è chiamato a svolgere una molteplicità di altri ruoli: le missioni del docente universitario si moltiplicano entrando tra loro in tensione e creando talvolta conflitti che non possono essere risolti che attraverso decisioni individuali più o meno costose. L’impegno nella docenza entra così, per esempio, in conflitto con quello per la pubblicazione dei c.d. “prodotti della ricerca”, la loro collocazione in riviste o editori prestigiosi, o con il fundraising o ancora con la terza e ora anche la quarta missione. Non tutte queste attività premiano nello stesso modo nella carriera, e così talvolta la scelta viene fatta meramente sulla base dell’opportunità, anche in considerazione di ciò che offre maggiore visibilità.

La dimensione della relazione viene sacrificata, che si tratti del rapporto con chi studia con noi o delle/dei colleghi con cui lavoriamo. Rischia, però, di venir sacrificato anche lo studio. Ogni tanto capita di sentire qualche collega che stanco, a mo’ di battuta —ma di quelle battute che tutti sanno nascondono verità —, si lascia andare a dire che nell’università è ormai sempre più raro che un professore/una professoressa abbia tempo per studiare!

Lo studio richiede di dimenticarsi il tempo e di rallentare. Per tuffarsi nella lettura ci si deve concedere un tempo che si ribella ai ritmi di una vita di corsa, di una vita a ritmi sempre più accelerati. Leggere riflessivamente, con attenzione profonda – come ricorda Bernard Stiegler in Prendre soin: De la jeunesse et des générations (2008) –, è il modo attraverso il quale come esseri umani entriamo in contatto con l’altro oltre il tempo e lo spazio, manteniamo il filo del discorso ininterrotto tra le generazioni, costruiamo cultura. Nella lettura non siamo in gara con l’autore del libro che stiamo leggendo: il lettore collabora alla vita del libro e può, grazie al dono che l’altro gli ha fatto con la sua scrittura, far continuare oltre e altrove il viaggio delle idee. Le idee infatti non vivono nel mercato – come sostengono spesso coloro che vorrebbero trasformare ancora di più l’università in un’azienda. Le idee hanno bisogno di tempo per essere elaborate ed essere trasmesse. Avere tempo, d’altra parte, è possibile soltanto se si ha una stabilità sul piano economico, se non si vive in un precariato che costringe a correre e a sottostare al ricatto. Il precariato universitario è un modo per tentare di uccidere la libertà di ricerca, soprattutto di coloro che esprimono il punto di vista di saperi socialmente soggiogati e costretti ai margini. Le idee mainstream trovano, sì, sempre un mercato che è pronto ad accoglierle, perché più facili da vendere ai più.

La metafora della gara è una vecchia rappresentazione dell’individualismo. Parlando di ciò che distingue l’individualismo moderno dall’egoismo come passione umana universale, Tocqueville, nella De la démocratie en Amerique (1835-1840), utilizzava l’immagine della corsa: ogni individuo corre, voltando con ansia ogni tanto lo sguardo indietro per essere sicuro di non essere raggiunto e superato. Nel tentativo di arrivare primi, si perde di vista la dimensione della relazione, dei legami sociali: l’individuo moderno finisce così per avere relazioni stabili e intime solo con la cerchia sempre più ristretta dei familiari.

Andando oltre Tocqueville, e guardando all’oggi, potremmo dire che il costante sentirsi in gara costringe l’individuo ad un isolamento da cui diventa sempre più difficile uscire, che diventa difficile abbandonare anche quando affiora la consapevolezza che l’isolamento rende deboli, deprime le energie e fiacca la motivazione. (La gara stessa, in fondo, funziona solo finché riconosco gli avversari e il senso condiviso dell’impresa per cui insieme si compete e se ho la consapevolezza che si sta compiendo, anche nella competizione, un’impresa comune.) Come ricorda Arendt in The Origins of Totalitarianism (1951), proprio dell’isolamento tra gli individui si avvalgono i regimi autoritari per governare più facilmente la società civile, per tenerla meglio sotto controllo. Certo, l’isolamento non è ancora l’estraneazione, la perdita di sé e di mondo, su cui fanno leva i regimi totalitari, perché consente la solitudine e quindi il dialogo interiore. Quando, tuttavia, l’individuo isolato diventa dipendente da un mondo digitale che oggi promette attraverso i social un surrogato della vita reale, meno faticosamente raggiungibile e più generoso di like, il rischio dell’implosione del sé aumenta e con esso il rischio dell’implosione di ogni baluardo a difesa della libertà e delle istituzioni democratiche.

Queste considerazioni per dire grazie a Emma Ruzzon per averci restituito con parole lucide la fotografia del nostro paese, attraverso il ritratto delle nostre università. Grazie per averci ricordato che il malessere della gioventù è uno specchio del grado di gravità della malattia da cui è afflitta la nostra società. Non bastano punti di ascolto psicologico destinati a chi studia, né Comitati Unici di Garanzia per il benessere organizzativo, a risolvere il problema dell’università oggi. Dovremmo arrestare la corsa, fermarci a riflettere su cosa si è rotto socialmente e come lo si può riparare. Per l’università questo significa tornare a interrogarsi sul suo mandato, sul senso del suo stesso esistere.

Tags:

Accessi: 164

Ricercatori di successo

Grazie a Rangle mi è lecito segnalare i risultati di una ricerca ad accesso semiaperto.

Secondo Daniele Fanelli, ricercatore dell’Institute for the Study of Science, Technology and Innovation (ISSTI) presso l’Università di Edinburgh, un modo per verificare l’obiettività con cui i risultati della ricerca vengono prodotti e proposti è quello di selezionare i lavori in cui l’obiettivo è la verifica di un’ipotesi e scoprire in quanti casi gli autori concludono che l’ipotesi si rivela corretta (o no). Proporre un’ipotesi ed indagarne la “bontà” è una pratica consolidata nel mondo della ricerca scientifica, lo fanno in maniera propria e spesso i matematici (non starò qua a discutere i problemi di Hilbert) ed è abbastanza comprensibile che la tendenza generale sia quella di pubblicare studi in cui l’ipotesi si dimostra fondata, comprensibile ma fino ad un certo punto perché la pubblicazione di risultati che non corrispondono alle aspettative è altrettanto cruciale per il progresso della conoscenza scientifica.

Il rischio è che “vi sia  un processo patologico che si insinua nel corpo della ricerca scientifica, una tendenza ad interpretare i risultati negativi come insuccessi e si eviti di proporli privilegiando la pubblicazione di lavori più utili ai fini della carriera e della ricerca di fondi.” Le ricerche di Fanelli usano un database privato e accessibile solo a pagamento, gli Essential Science Indicators di Thomson-Reuters, che comprende però le testate dove pubblicano – grazie a un marketing pervasivo e costante nel tempo – i ricercatori “di successo”. Ebbene:

la percentuale di articoli che riportano un risultato positivo cresce in media del 6% ogni anno, si parte con il 70.2% del 1990-91 e si arriva all’85.9% del 2007 con un picco dell’88.6% nel 2005; i risultati sono molto differenti per differenti discipline, sia per la frequenza media di risultati positivi che per la rapidità di crescita del fenomeno, le scienze fisiche (in particolare le scienze dello spazio) sono le più “virtuose”, le scienze sociali tendono a comunicare quasi solo casi “positivi” e lo stesso accade per le discipline “applicate” rispetto a quelle “pure”; gli autori che lavorano nei paesi asiatici (in particolare in Giappone) riportano risultati positivi più di quelli che lavorano negli Stati Uniti, a loro volta “più positivi” degli europei (in particolare di chi lavora nel Regno Unito).

Queste statistiche sembrano suggerire la progressiva prevalenza di un modello di ricerca individualistico-imprenditoriale che valorizza esclusivamente l’affermazione di sé e della propria idea sul mondo che si dovrebbe interrogare.

Un modello simile si ritrova, applicato alla retorica, nel Gorgia di Platone. La bussola del mondo antico era la politica e non l’economia: la funzione della retorica era dunque paragonabile a quella svolta oggi dal marketing, e cioè convincere la gente nei luoghi in cui è più utile per acquistare potere. La retorica si fondava sulla competitività: riuscire a ottenere ragione era essenziale; farsi confutare significava perdere la faccia; cercare di confutare qualcun altro equivaleva ad attaccarlo. 

Platone impose un’idea di scienza diversa. Nel Gorgia, Socrate interrompe la conversazione col sofista per chiedergli  se in generale pensa che la confutazione sia o no utile a liberarci dagli errori. Gorgia è costretto a una risposta obbligata: neppure il più competitivo dei ricercatori potrebbe mantenere il suo onore professionale dichiarando che in astratto dell’accuratezza scientifica non gli importa nulla perché gli interessa solo aver ragione anche quando ha torto.

Per riconoscere il valore dell’insuccesso dobbiamo intendere la ricerca non come competizione, bensì come collaborazione, secondo un interesse che supera quello strettamente personale. Chi confuta i miei argomenti “di ferro e diamante” fa un favore non solo alla scienza, ma anche a me come scienziato. I miei oppositori, anche se sostenessero tesi falsificate, sono indispensabili nel cammino della ricerca.

Il Socrate del Gorgia conduce sistematicamente i suoi interlocutori in situazioni che impongono loro di rispondere nel modo da lui desiderato, con un’abilità retorica paragonabile e superiore a quella dei sofisti. Fra il loro sapere e la scienza socratica c’è, in realtà, soltanto una differenza: il riconoscimento del valore della confutazione, del risultata negativo, dell’insuccesso. La ricerca non è l’arte di avere ragione: è un metodo per rendersi conto dei propri torti. Dimenticarsene significa esporre i sistemi di pubblicazione e di valutazione al rischio di selezionare ottimi retori, prima e piuttosto che ricercatori di valore. 

 ResearchBlogging.orgFanelli D (2010). “Positive” results increase down the Hierarchy of the Sciences. PloS one, 5 (4) PMID: 20383332

 

Tags:

Accessi: 743

image_print