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Online Journal of Political Philosophy

Appendice all'introduzione alla dottrina del diritto (233-236)

Ius aequivocum (233-234)

Il diritto in senso stretto è connesso alla facoltà di costringere. Si è anche pensato, però, a un presunto diritto in senso lato in cui questa facoltà non può essere stabilita da una legge. Le sue specie sono due:

  1. equità: diritto senza costrizione

  2. diritto di necessità: costrizione senza diritto.

Per Kant in questi casi non si può propriamente parlare di diritto lato, cioè non rigoroso, ma solo di un diritto dubbio su cui nessun giudice può decidere. Anche per questo l'appendice all'introduzione alla dottrina del diritto che affronta la questione si intitola "diritto equivoco".

I. Equità (234-235)

Quando viene invocata nel diritto, l'equità non ha nulla a che vedere col dovere etico di essere benevoli e generosi. Chi la richiede in un giudizio la esige come suo diritto, contro l'applicazione rigorosa della legge (summum ius, summa iniuria). Per Kant, però, pur essendo questa pretesa giuridica, mancano le condizioni necessarie in base alle quali il giudice può determinare la soddisfazione della sua pretesa. Eccone alcuni esempi:

  • in un'impresa commerciale istituita su un contratto che prevede la divisione in parti uguali, un socio che ha contribuito più degli altri ma ha perso di più, chiede, come compensazione, di avere di più della parte che gli spetta;

  • un domestico che aveva pattuito un salario all'assunzione, vedendoselo fortemente eroso dall'inflazione, chiede di ricevere un aumento per compensare la perdita. 62

Kant chiama l'equità "una divinità muta che non può essere ascoltata" perché in casi come questi il giudice, che deve dirimere le dispute interpretando le disposizioni del contratto, non può trovarvi nessun criterio in base al quale determinare rigorosamente la soddisfazione di simili richieste. Un tribunale dell'equità sarebbe dunque contraddittorio, perché il suo giudice si troverebbe a rifiutare la costrittività delle norme date, per imporne altre non rinvenibili in nessuna fonte del diritto. Si troverebbe, cioè, a dover inventare, rispondendo al tribunale della sua coscienza, una norma coercitiva che non esiste, e a dover negare i diritti stabiliti nel contratto, pur essendo gli unici esternamente accertabili dal tribunale del diritto.

Il giudice può inventare una norma che non c'è solo quando dispone di diritti propri: un caso esemplare può essere quello in cui la corona, vale a dire lo stato di cui il giudice è funzionario, si fa carico dei danni subiti da qualcuno al suo servizio, anche se a rigore costui ha accettato il rischio nel momento in cui ha firmato il relativo contratto. In generale però un tribunale civile, che deve applicare la legge esistente, non può decidere su qualcosa che può essere stabilita come ingiusta solo dal tribunale della coscienza.

Equità: tradizioni a confronto

Aequitas

Se prendiamo in mano un manuale recente di diritto privato, molto probabilmente troveremo una trattazione dell'equità simile a quella, giuspositivista, contenuta nel testo qui a fianco: 63 l'equità è una giustizia del caso singolo, che sfugge alle norme oggettive del diritto positivo e che riposa su interessi e valori diversi da quello della certezza del diritto. Per questo, fatte salve le marginali eccezioni previste dalla legge, l'equità merita di essere limitata: è meglio che l'applicazione del diritto sia percepita come ingiusta, ma sia prevedibile da parte dei cittadini, piuttosto che, per apparire più giusta alla coscienza comune, finisca per dipendere dalla soggettività del giudice.

Kant sembra vicino a queste posizioni quando sostiene che il giudice, pur essendo convinto che l'applicazione stretta delle norme contrattuali sia ingiusta, non può inventare un diritto che non c'è, ma se ne distingue per almeno due motivi:

  1. la rivendicazione di chi si appella all'equità è giuridica, ossia, giusnaturalisticamente, giusta, cioè riconducibile a una legge universale e non limitata al caso singolo;

  2. tanto è vero che quando un giudice agisce come funzionario dello stato, disponendo dei diritti di quest'ultimo, può dare soddisfazione a chi si appella all'equità.

Queste circostanze indicano che a Kant non interessa gran che la certezza del diritto garantita da un rigido sistema di norme "oggettive" imposte dallo stato. Perché, dunque, tratta l'equità come una divinità muta? Per rispondere a questa domanda, dobbiamo prendere in mano un altro manuale, questa volta di storia del diritto romano.

Nella tarda Repubblica – soprattutto in Servio – si affermò anche una propensione metodologica, stimolata da filosofi e retori, che ebbe poi grande sviluppo nel diritto classico: il ricorso all'equità. In senso generico, per aequitas si intende il principio di eguaglianza, che talora dev'essere temperato dal rispetto per la differente dignitas delle persone. «Il diritto è l'equità posta in essere per coloro che appartengono alla stessa comunità politica, affinché ciascuno ottenga il suo», diceva Cicerone nella Topica (2.9). Ma per poter realizzare l'equità, bisogna anche rifuggire da un'applicazione troppo rigida e formalistica del diritto, che lo metterebbe in contrasto con interessi e valori morali diffusi, rendendolo inapplicabile. Perciò, in un senso più specifico, s'intende per equità la ricerca di una “giustizia del caso concreto”, capace di proporre correzioni realistiche alle regole del diritto civile, senza stravolgerne i principi.

In particolare, Mucio e Servio si dimostrarono consapevoli della necessità di rinnovare il diritto della società contadina arcaica, sollecitati dallo sviluppo dei rapporti di mercato. «Summum ius summa iniuria» (= il diritto assoluto è un'assoluta ingiustizia) affermava Cicerone nel De officiis. Il diritto doveva essere aderente ai bisogni sociali, e quindi improntato alla ragionevolezza e al sentimento di giustizia del vir bonus (= uomo di retti costumi). Intesa in questo senso, l'equità fu per secoli il principio ispiratore dell'attività dei magistrati, avvocati, giudici e giuristi, ed è rimasta un elemento essenziale della nostra cultura giuridica. 64

Aequitas significa letteralmente "uguaglianza": essa, però, nella tradizione del diritto romano qui descritta, produce una giustizia del caso concreto tutt'altro che ugualitaria, perché in grado di tenere conto del prestigio e della posizione (dignitas) delle persone.

La giustizia romana dell'equità è molto diversa da quella fondata sul diritto in senso stretto, perché riconosce implicitamente ed esplicitamente delle gerarchie morali e sociali sulla cui base modulare l'interpretazione della legge. Su questo sfondo, si comprende perché Kant limita l'equità: non tanto perché abbia un culto positivistico della certezza del diritto, ma perché è consapevole del rischio paternalistico e oligarchico implicito in una giustizia i cui giudici possano inventare e negare norme coercitive, perfino formalmente generali e astratte, indipendentemente da quelle esplicitamente stabilite.



[ 63 ] P. Schlesinger, A. Torrenti, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli, C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2019, p. 18.

[ 64 ] G. Giliberti, Storia del diritto romano, Torino,Giappichelli, 2001, p. 193.

II. Ius necessitatis (235-236)

Il presunto diritto di necessità è diverso da quello che oggi chiameremmo legittima difesa: non è infatti un diritto a ripagare con la stessa moneta chi mi sta aggredendo minacciando la mia vita, ma la facoltà di sopprimere, per salvarmi, qualcuno che non mi ha fatto nulla di male. Un simile comportamento è a rigore giuridicamente ingiusto: nessun diritto compatibile con una legge universale della libertà può autorizzarmi a trattare la mia vita come talmente speciale da permettermi di uccidere un innocente per conservarla.

Un atto di autoconservazione violenta - come quello del naufrago che scaccia il compagno dalla tavola a cui è aggrappato 65 - rimane dunque giuridicamente colpevole. Quello che lo rende equivoco non è la sua colpevolezza, che è chiara, ma la sua non perseguibilità o impunibilità. Infatti, perfino se si minacciasse la pena capitale, il timore della sanzione non sarebbe un deterrente sufficiente di fronte al rischio immediato di morte. Lo stato di necessità, dunque, non ha legge solo dal punto di vista della sua perseguibilità, ma certamente non può trasformare un atto ingiusto in un atto legittimo.

Kant conclude che a rigore, sul piano del diritto oggettivo, non esiste nessuna ambivalenza. L'equivoco nasce dalla confusione dei fondamenti oggettivi del diritto, con quelli soggettivi della sua applicazione, cioè con le situazioni in cui ci troviamo ad applicare le norme, che ci inducono o a pretendere più del nostro diritto o a disconoscere violentemente il diritto altrui.

Approfondimento: il dilemma del tram

Kant non tratta lo ius necessitatis come un diritto. bensì come una condizione in cui il diritto in senso stretto è impotente. Confrontiamo la sua posizione con quella, molto diversa, esposta in un manuale recente di diritto penale positivo, riportata qui a fianco: l'esclusione della punibilità di un delitto se commesso in stato di necessità si basa su un bilanciamento di "beni" intesi in senso materiale e non in senso formale. Così, l'attrice che corre nuda in strada per sfuggire a un incendio - per ripetere l'esempio bizzarro proposto dagli autori del testo - non è punibile ai sensi dell'articolo 529 del codice penale italiano perché il valore della vita supera quello del comune senso del pudore.

Potremmo pensare che, in quanto si conclude comunque a favore della non punibilità, il modo in cui si arriva sia indifferente e che Kant scelga la via tortuosa dello ius aequivocum solo perché il suo impianto teorico non gli permette di soppesare "beni" dipendenti implicitamente o esplicitamente da una qualche teoria oggettiva della felicità. Ma basta sperimentare le due vie su un famoso problema morale, noto in inglese come the trolley dilemma, per rendersi conto che la loro differenza è molto più significativa di quanto sembri.

Il dilemma, nella sua forma più elementare, propone di immaginarsi nella posizione di un tranviere, alla guida di un veicolo che non può fermare, il quale, in prossimità di uno scambio, vede che sul binario che sta per imboccare ci sono cinque persone, mentre sull'altro soltanto una. Che cosa deve fare? Deviare il tram per uccidere una persona e salvarne cinque? Oppure non intervenire affatto, così da sottrarsi alla responsabilità di una scelta intenzionalmente omicida?

Chi aderisse alla teoria del bilanciamento dei beni risponderebbe, come gli utilitaristi, che il tranviere deve deviare e invocare lo stato di necessità, perché cinque vite sono più di una; Kant invece, pur ammettendo che il tranviere non è punibile, risponderebbe che entrambe le scelte sono ingiuste, perché rimane illegittimo sacrificare qualsiasi agente morale a favore di altri, indipendentemente dal loro numero. Possiamo, infatti, uccidere una persona per salvarne cinque o cinque persone per salvarne una solo sulla base di leggi particolari, incapaci di rispettare tutti gli esseri razionali allo stesso modo.

Il dilemma del tram, nato come un esperimento mentale, è oggi diventato un problema ingegneristico: come programmare il comportamento di un'automobile a guida automatica che si trovasse di fronte al dilemma fra andare a sbattere su un muro uccidendo il passeggero e travolgere una scolaresca di trenta bambini con le loro maestre? I bilanciatori di beni non avrebbero difficoltà a rispondere che l'auto deve sacrificare il passeggero - con la sola controindicazione, mercantile, che ben pochi sarebbero disposti ad acquistare un mezzo di trasporto programmato per ucciderli. Kant, invece, risponderebbe che è in radice ingiusto progettare un sistema che comporti simili dilemmi: se si vogliono produrre veicoli a guida autonoma bisogna escogitare sistemi - per esempio corsie riservate inaccessibili a pedoni e ciclisti - che siano ragionevolmente sicuri per tutti, così da escludere il ricorso all'omicidio automatico. Il soggetto morale - qualsiasi soggetto morale - in quanto fine e non mezzo non può essere oggetto di calcolo.



[ 62 ] Rivendicazioni come quelle degli esempi, tuttavia, sono giuridiche perché chi le compie si trova vincolato a contratti che, a causa di condizioni esterne, hanno mutato la sostanza dell'impegno.

[ 63 ] P. Schlesinger, A. Torrenti, Manuale di diritto privato, a cura di F. Anelli, C. Granelli, Milano, Giuffrè, 2019, p. 18.

[ 64 ] G. Giliberti, Storia del diritto romano, Torino,Giappichelli, 2001, p. 193.

[ 65 ] Lo stesso esempio ricorre nel Detto comune nella discussione sul diritto di resistenza.

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Immanuel Kant, La metafisica dei costumi by Maria Chiara Pievatolo is licensed under a Creative Commons Attribution-ShareAlike 4.0 International License.
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