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Doaj: il piacer d’essere in lista

DOAJ SealSiamo felici di annunciare che il “Bollettino telematico di filosofia politica” non solo continua a essere incluso nella Directory of Open Access Journals, ma è anche fra le riviste insignite del DOAJ Seal.

La lista offerta dal DOAJ non è un indice stilato da un’autorità governativa, che impone con la spada il suo modello d’eccellenza; è l’esito della selezione di un gruppo di redattori,  che controllano, per quanto sta nelle loro competenze e possibilità, la conformità di chi lo chiede agli ideali della scienza aperta, senza nulla pretendere da chi sceglie di percorrere altre strade. Per questo, appunto, ci piace farne parte.

In questa occasione, il nostro comitato scientifico si è arricchito di un nome nuovo: quello del giurista trentino Roberto Caso, la cui competenza e il cui impegno per la scienza aperta si intendono da sé, senza bisogno di sigillo.

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Jacopo Foggi, Reddito minimo e piena occupazione. Note sull’idea dei “piani di lavoro garantito” e di “occupazione di ultima istanza”

Men Inside General Electric Motor 1928Questo articolo, ora disponibile sull’Archivio Marini, è un versione rielaborata di un testo già pubblicato qui. È stato oggetto di una revisione che, nata anonima, alla fine, proficuamente, non lo è stata, perché l’autore ha avuto una conversazione diretta col revisore. Ci siamo potuti permettere questo strumento eterodosso perché qui pubblichiamo per render pubblico e non per fornire pedigree accademici amministrativamente definiti.

La proposta dei piani di lavoro garantito, di cui Jacopo Foggi analizza pregi e difetti, invita a riflettere su quanti beni e servizi potremmo avere in più se, invece di far restare molte persone inoperose per effetto delle dinamiche di mercato, trovassimo, in quanto comunità politica, il modo per offrire ai disoccupati, elasticamente e anticiclicamente, delle occupazioni di ultima istanza su base individuale, volontaria, incondizionata. Questo progetto

parte dall’idea che una gran quantità di disoccupazione involontaria, fatta di persone che, a causa di mancanza strutturale di posti di lavoro, non riescono a trovare lavoro neanche abbassando le proprie pretese ben al di sotto del reddito medio prevalente, e che vi siano al contempo una gran quantità di bisogni sociali che non riescono a trovare una risposta efficace nell’ambito del mercato.

Lo stato, dunque, avrebbe

il compito di offrire un lavoro a tutte le persone disposte a lavorare al salario minimo stabilito.    L’obiettivo è duplice fin dall’inizio: ottenere la piena occupazione creando nuovi posti di lavoro, e di stabilire un pavimento vero ed efficace alla dispersione dei salari verso il basso, cioè alla presenza di posti di lavoro che danno stipendi inferiori alla soglia di povertà.

Lo stato, in questo modo, induce il mercato a comportarsi come se il lavoro avesse un valore non negoziabile e aiuta chi ripone la propria dignità a ritrovarla. Questi, del resto, sono gli strumenti dell’economista. A chi studia filosofia rimane da chiedersi se davvero la propria dignità e il proprio senso si ritrovino ancora, com’era per i protestanti che costruirono questa gabbia,  in un mercato, ancorché corretto, e in un lavoro, ancorché inventato.

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Anonimo scientifico

Un numero recente di “Current science”  (111/2, 25 luglio 2016) ospita un testo di un ignoto, presumibilmente indiano, con una proposta apparentemente ingenua: rendere anonimi gli articoli scientifici e valutare i ricercatori non più per le loro pubblicazioni, ma per i loro discorsi e le loro azioni.

Non è però ingenua l’analisi che le sta alle spalle. Secondo Richard Horton, editor di “The Lancet”, una buona metà della letteratura scientifica potrebbe essere falsa.

Afflitta da studi con campioni piccoli, effetti minuscoli, analisi esplorative dei dati invalide e flagranti conflitti d’interesse, combinati con l’ossessione di inseguire tendenze alla moda di dubbia importanza, la scienza si è avviata su una cattiva strada.

Questi vizi nel metodo e nella selezione dell’oggetto sono esaltati da una valutazione della ricerca che spinge a un’“insana competizione” a pubblicare in alcune riviste selezionate sulla base del fattore d’impatto e a una produttività pletorica, che ha ormai ben poco a che vedere con lo scopo di offrire scoperte e teorie rigorose all’uso pubblico della ragione. Lo spirito competitivo preso nella sua purezza – non da ora, non da oggi – è nemico della ricerca della verità.  Chi fa ricerca deve riconoscere che saper accettare la confutazione e il superamento è una parte importante del gioco della scienza. Così, per esempio, scriveva Max Weber all’inizio del secolo scorso:

Ogni lavoro scientifico ‘compiuto’ comporta nuovi ‘problemi’ e vuol invecchiare ed esser ‘superato’. A ciò deve rassegnarsi chiunque voglia servire la scienza [corsivo mio].

Contro la crisi sono stati suggeriti rimedi amministrativi, deontologici e comunicativi, quali l’auto-pubblicazione e qualche forma di revisione paritaria aperta, allo scopo di riavvicinare la pubblicazione al fine implicito nel suo nome. Nel 2006, tuttavia, “Nature” provò a sperimentare la revisione paritaria aperta – ora oggetto anche di qualche progetto finanziato dell’Unione Europea – ottenendo una partecipazione poco numerosa e poco significativa.

Perché meravigliarsene? In un sistema competitivo di “pubblicazione” proprietaria partecipare a una discussione genuinamente pubblica – perfino sul sito di “Nature” – è ozioso.  In un mondo in cui la “competitività” – o vogliamo chiamarla pleonexia? – è favorita e spesso imposta in quanto incentivo unico alla “produttività” scientifica,  il proprio tempo va investito nella confezione di articoli da regalare a editori bibliometricamente significativi.  Finché le pubblicazioni non recupereranno il loro scopo originario – condividere e registrare teorie e scoperte, non prevalere in una gara eterodiretta fondata sul feticismo bibliometrico – iniettare regolamenti, protocolli e codici etici rischia di avere solo un effetto palliativo.

Le teorie e le scoperte diventano scientifiche se e quando si emancipano dall’inintelligibile genio individuale e si fanno patrimonio comune. Perché una teoria o una scoperta venga riconosciuta come scientificamente solida non occorre – dal punto di vista oggettivo – che sia firmata con un nome e un cognome. Dal punto di vista soggettivo, però, almeno per chi è influenzato da Thomas Hobbes o dall’astrazione dell’homo oeconomicus, le cose sembrano stare differentemente: se non fossimo posti in una competizione che ha variamente a oggetto gli onori accademici, o la misura degli indici H, o, più semplicemente, la sopravvivenza, non avremmo – così si crede – nessuna motivazione per dedicarci alla ricerca.

Eppure, di molti patrimoni artistici e culturali dell’umanità – dalle piramidi egiziane, al tempio di Thanjavur, alle caverne di Ajanta ed Ellora, all’epopea di Gilgamesh, a buona parte delle Sacre Scritture – non conosciamo gli autori, che si sono interamente risolti nelle opere. A maggior ragione, dall’altro lato, sono condannati all’impermanenza i nomi degli autori dell’inflazione di pubblicazioni in riviste proprietarie al servizio della causa della bibliometria più che di quella della scienza.

Anche in occidente la scienza è nata ed è fiorita indipendentemente dell’invenzione delle carriere accademiche e dell’enfasi sulla misura della loro “produttività”, per esempio – individualmente – nella vocazione di chi pensava che una vita senza indagine non fosse degna di essere vissuta, o – socialmente – nella ricerca pura sostenuta dal mecenatismo fiorita nell’Europa protomoderna.

Il concetto di nishkam karma – o azione disinteressata – appartiene alla cultura indiana. Così lo esprime, per esempio, la Bhagavad Gita:

È tuo dovere e competenza solo l’agire, ma che questo non sia motivato dal desiderio dei frutti dell’azione. E non sorga neanche in te l’adesione al non agire. (Bhagavad Gita, 2.47)

Ma qualcosa di simile si ritrova anche in luoghi per noi meno esotici – per esempio nella teoria morale di Kant  – ed è originariamente intrinseco allo stesso ethos scientifico, come può mostrare una lettura mirata della confutazione di Trasimaco nel I libro della Repubblica di Platone. Se ci si facesse beffe del poco realistico ideale della ricerca disinteressata e si misurasse la qualità dei medici sulla loro capacità di farsi pagare, otterremmo esattamente quello i nostri pregiudizi hanno predeterminato: non più medici valenti, ma esperti nell’arte mercenaria.

Si può obiettare che l’anonimato delle pubblicazioni deresponsabilizza gli autori. Il sistema attuale, però, accetta l’anonimato in una funzione più delicata: quella della revisione paritaria, per la quale una critica simile potrebbe avere una forza ancora maggiore. Così, per esempio, scriveva il matematico Giorgio Israel:

L’anonimità dell’esaminatore è invece un’idea sciocca e scandalosa. Chi deve firmare un giudizio e quindi mettere in gioco la propria rispettabilità sta bene attento a quel che scrive, mentre – e si potrebbe produrre un gran numero di esempi al riguardo – un recensore anonimo può permettersi il lusso di emettere giudizi affrettati, superficiali o anche di fare affermazioni palesemente sbagliate, con gli intenti più disparati, senza dover pagare alcun prezzo per questo. Il diffondersi delle procedure di selezione mediante il ricorso a valutatori anonimi, lungi dal garantire la serietà e l’obbiettività del giudizio – si sostiene che il valutatore anonimo sarebbe libero di esprimersi senza le reticenze dettate dai suoi eventuali rapporti di conoscenza o amicizia con il valutato o dal timore di rappresaglie – induce comportamenti poco etici se non addirittura scorretti. Che bisogno c’è dell’anonimato? Una persona che appartiene al mondo della ricerca e dell’università dovrebbe essere capace di conformarsi a criteri di “scienza e coscienza” e non avere il timore di difendere le scelte compiute su tali basi. L’anonimato rischia invece di offrire coperture a comportamenti intellettualmente superficiali o eticamente scorretti (Chi sono i nemici della scienza?, 2013, grassetti miei).

Il sistema di valutazione basato sulle pubblicazioni è un modo per sottrarsi alla responsabilità di giudicare la ricerca spostandola su revisori paritari a loro volta protetti dall’anonimato. Si costruisce così una gabbia d’acciaio apparentemente impersonale in cui nessuno fra coloro che determinano le vite degli altri è davvero disposto a rendere conto delle decisioni – pur molto personali – che si trova a prendere.

Eclissi di soleL’anonimo indiano propone di sovvertire il sistema attuale, oscurando quanto oggi illuminiamo e illuminando quanto oggi oscuriamo. Non è neppure necessario che il nome dell’autore sia un segreto custodito meglio di quello che protegge la revisione paritaria: gli autori potrebbero anche essere contrassegnati da una sorta di ORCID anonimo, e potrebbe esser reso possibile corrispondere con loro tramite le piattaforme di pubblicazione, come si fa attualmente, per interposta persona, con i referee anonimi. Sarebbe sufficiente che l’anonimato fosse un accessorio in un combinato disposto che eliminasse dai criteri per valutare la ricerca e determinare le carriere il numero delle pubblicazioni e il loro peso bibliometrico.  Nelle varie fasi della carriera accademica si dovrebbero invece considerare le persone in luogo dei prodotti, tramite relazioni scritte e colloqui che abbiano a oggetto la tesi di dottorato, la capacità di insegnare e di guidare altri nella ricerca, le attività passate e gli interessi presenti e futuri.

I ricercatori non smetterebbero di pubblicare:  scriverebbero meno e meglio, perché sarebbero motivati solo dallo scopo di condividere la memoria di teorie e scoperte a loro giudizio meritevoli di attenzione. Allo stesso tempo, questa valutazione della ricerca alternativa, fondata sulla cultura delle persone e sulla loro capacità di selezionarla, trasmetterla e discuterla, farebbe emergere, fra i testi anonimi, quelli meritevoli di essere esaminati e studiati. Il denaro sottratto alle multinazionali editoriali e bibliometriche potrebbe essere meglio speso in un’infrastruttura di ricerca pubblica e accessibile a tutti che aiuti gli studiosi nella loro conversazione.

Utopia? Per niente: questa è semplicemente la soluzione antica di un problema altrettanto antico, che si ritrova nel Fedro di Platone. L’invenzione della scrittura – così racconta il mito di Theuth – è alla radice del feticismo della pubblicazione, perché rende possibile separare il prodotto dal processo, il risultato messo per iscritto dalla sperimentazione, dalla dimostrazione e dalla discussione. Si è così esposti alla tentazione di confondere il medium col messaggio: sono un valente scienziato non perché sono in grado di dimostrare le mie ipotesi e scoperte in una discussione pubblica, bensì perché le mie ipotesi e scoperte sono pubblicate in testi a cui si attribuisce variamente autorità scientifica.

Se questa confusione è socialmente e amministrativamente rinforzata, il ricercatore sarà a suo volta esposto alla tentazione di abbandonare la via della sophia per imboccare quella della doxosophia o apparenza di sapienza la quale, nel sistema attuale, equivale a perseguire non l’approssimazione alla verità, bensì la pubblicazione e il successo nella competizione bibliometrica.

Platone, per sottrarsi a questa tentazione, escogitò un rimedio molto simile a quella immaginata dall’anonimo del XXI secolo: non prendere i testi – i nostri figli illegittimi – troppo sul serio, se non come ausilio per la memoria, e dedicarsi invece alla costruzione di comunità di conoscenza che li facciano vivere scientificamente, selezionandoli, curandoli, discutendoli e confutandoli – in una parola, prendendosi la responsabilità di valutarli. Coerentemente, non si presentò mai come autore, ma, similmente al suo Socrate,  come un curatore al servizio di una verità che trascende le persone e le loro gare.

La scienza oggettivamente intesa può permettersi di essere anonima. Che la teoria eliocentrica sia di Copernico o di Aristarco da Samo ne influenza, forse, la plausibilità? Che importa chi parla? Però, soprattutto in un mondo di informazione sovrabbondante, la cura e la selezione dei testi – se vale la pena leggere, discutere e linkare articoli eliocentrici o geocentrici – è frutto di scelte personali. Proprio per la sua soggettività, essa richiede una assunzione di responsabilità con nome e cognome: in una valutazione scientifica della ricerca, chi sceglie deve render pubblicamente conto delle sue decisioni. Il suo stesso logon didonai è parte di quella discussione scientifica che ritrasforma la lettera morta in un vivo processo d’indagine.

Questo prassi desueta può sembrare aleatoria e bizzarra. Ma non è altrettanto bizzarro considerare normale – e non semplicemente normalizzante – un sistema in cui le scelte sociali sulla ricerca sono compiute irresponsabilmente da giudici che non osano mostrare la faccia e da algoritmi proprietari rappresentati come impersonali? Prima di concludere che non ci sono alternative forse vale la pena chiedersi se non siamo talmente abituati alla gabbia che nessuno vuol assumersi la responsabilità di cominciare a crearle.

Il testo mi è stato segnalato da Paola Galimberti.

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Andrea Passoni, Economia delle piattaforme e architettura digitale delle scelte

Andrea Passoni ha depositato sull’archivio Marini Economia delle piattaforme e architettura digitale delle scelte. Appunti sull’alternativa cooperativa, su un tema di grande attualità, la cosiddetta sharing economy. A dispetto del nome accattivante, molte delle sue esperienze più note ricadono nel registro del platform capitalism – sistema da più parti criticato perché, non diversamente dal capitalismo “tradizionale”, tenderebbe a distribuire iniquamente la ricchezza, a disconoscere i diritti dei lavoratori e a privatizzare il welfare minacciandone l’universalità e la qualità. Al platform capitalism si sono tentate di contrapporre forme di platform cooperativism. Capitalismo e cooperativismo delle piattaforme, però  possono essere valutati appieno solo se viene preso sul serio il problema generale dell’architettura digitale delle scelte e del suo condizionamento sulla nostra identità collettiva.

Il testo di Andrea Passoni, che è solo una tappa di un lavoro ancora in corso, è liberamente disponibile qui.

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From the Past to the Future. Alcune riflessioni dopo DH2016

Digital humanities 2016Al rientro da Cracovia, dopo quattro giornate intense e ricche di stimoli, cerco di ordinare alcune riflessioni sparse che mi porto a casa dopo questa bella esperienza di condivisione di idee con la comunità mondiale di Digital Humanities, ritrovatasi in Europa per la conferenza DH2016. Non è facile ricomporre un quadro completo dei molti stimoli ricevuti. Alla conferenza hanno partecipato più di 900 persone, i tweet con l’hashtag #DH2016 hanno costruito, live, una conferenza parallela, e non riesco ancora a districarmi nel programma, nonostante lo abbia portato sempre con me in versione cartacea, come una bibbia, consultato e annotato con Pundit qui sul web. Butto giù, allora, qualche idea in forma di suggestioni piuttosto che una riflessione strutturata, per condividere alcuni spunti.

La prima suggestione mi viene dal titolo della conferenza Digital Humanities scelto per l’edizione di quest’anno, “From the Past to the Future”. Vorrei ripercorrerla attraverso alcuni ricordi. Vado a cercare il sito della prima e unica conferenza che ho seguito, nel 2004 a Göteborg. Al tempo non si chiamava ancora DH ma ALLC/ACH, doppio acronimo di Association for Computers and the Humanities e Association for Literary and Linguistic Computing, segno di un’impronta ancora orientata a identificare l’applicazione delle ICT alle scienze umane prevalentemente con la linguistica computazionale. Della conferenza di Göteborg sul vecchio sito ora visibile sull’Internet Archive si trovano alcune fotografie scattate sul battello che ci portava alla cena sociale, ospitata in una cupa fortezza, Älvsborgs fästning, sulla foce del Göta älv.

Ricordo bene le ottime colazioni svedesi, le chiacchierate con Elena Pierazzo, conosciuta in quell’occasione e poi ritrovata a Pisa, e il poster “The Hyper-Learning project” che portammo con Michele Barbera e che vinse la poster slam. Ricordo anche molto bene la suggestiva conferenza di Susan Hockey, Roberto Busa Award Lecture 2004, e, più di tutto, le lunghe discussioni sullo standard XML-TEI e i suoi sviluppi. Il tempo non è passato invano, ed è trascorso nel segno della continuità: lo dimostra il premio Antonio Zampolli, attribuito a Cracovia proprio al consorzio TEI, a sancire che l’accreditamento dell’iniziativa volta a creare uno standard comune di codifica XML nella comunità degli umanisti è totalmente compiuto.

La seconda suggestione si aggancia alla conclusione della precedente: a distanza di dodici anni, esiste oggi, all’interno della comunità degli umanisti digitali, una convergenza di vedute sugli standard, dalla TEI a EDM e altri Data Model, ed è presente e condivisa l’idea di aderire a macro-infrastrutture comuni che agiscano da connettori di servizi, come dimostra la forte presenza di DARIAH e di progetti a essa correlati. Mi ha comunque colpito l’assenza di Europeana, la grande biblioteca digitale europea, fatta eccezione per il poster “Reflecting On And Refracting User Needs Through Case Studies In The Light Of Europeana Research”. Pur riconosciuta come iniziativa imprescindibile e nonostante il successo di progetti pilota come DM2E – Digitised Manuscripts to Europeana, il riuso dei dati di Europeana trova nella pratica scarsa applicazione. Ho poi riscontrato un’adesione comune, in linea di principio, alla visione open access e al tema dell’apertura dei dati, anche se mancano, almeno nella percezione che ho avuto, esempi reali di progetti che implementino policy open access e, soprattutto, open data, ed è quasi del tutto assente il riferimento all’open science, se non come tendenza verso cui si deve convergere come effetto dei mandati degli enti finanziatori. A tale proposito hanno costituito un’eccezione l’utilissimo panel organizzato dalla Research Data Alliance Digital Data Sharing: Opportunities and Challenges of Opening Research, in cui sono stati presentati casi concreti di gestione di open data umanistici nel Digital Repository of Ireland, e il panel dello stesso pomeriggio Are the Digital Humanists Prepared for Open Access to Research Data? coordinato da Vittore Casarosa, a cui hanno partecipato volti noti del movimento open access come Anna Maria Tammaro e Pierre Mounier di Open Edition. Di natura più teorica del primo, quest’ultimo è stato purtroppo poco partecipato, fornendo una risposta implicita alla domanda che lo intitolava.

Io credo che l’accesso ai dati della ricerca sia un punto importante, che riguarda soprattutto la sostenibilità dei progetti a cui si lavora. L’adozione di formati di dati e di standard condivisi si dovrebbe accompagnare al deposito dei dati di ricerca in repository pubblici aperti, possibilmente internazionali come Zenodo.org. Questa soluzione solleverebbe tra l’altro la comunità scientifica dalla preoccupazione di garantire l’accesso ai dati della ricerca oltre la normale vita di un progetto, di quella lavorativa o, al limite, di quella umana. Consentire l’accesso ai dati nel tempo e favorirne il riuso, anche in forme nuove e inaspettate per chi li ha prodotti, è una questione centrale per l’affermarsi dell’open science, e così dei principi e delle pratiche di condivisione della conoscenza.

Engraving of John Cosin, Bishop of DurhamLa terza e ultima suggestione riguarda, per finire, una riflessione che ha avuto origine dal Keynote di Claire WarwickTouching the interface: Bishop Cosin and unsolved problems in (digital) information design”, che ha chiuso la conferenza di Cracovia. La Warwick ha sottolineato l’importanza che la biblioteca fisica ha avuto in passato e che tutt’oggi riveste nella formazione dei giovani, che continuano a sceglierla come luogo in cui imparare in compagnia di altre persone che fanno la stessa cosa, un luogo ibrido, oggi un misto di digitale e analogico (una foto suggestiva ha mostrato un gruppo di studenti in biblioteca, con tavoli cosparsi di computer portatili e di libri annotati).

Le questioni articolate e stimolanti che Claire Warwick ha posto a partire da queste considerazioni iniziali sono ben sintetizzate nell’abstract:

Some problems in the design of digital resources have turned out to be unexpectedly difficult to solve, for example: why is it difficult to locate ourselves and understand the extent and shape of digital information resources? Why is digital serendipity still so unusual? Why do users persist in making notes on paper rather than using digital annotation systems? Why do we like to visit and work in a library, and browse open stacks, even though we could access digital information remotely? Why do we still love printed books, but feel little affection for digital e-readers? Why are vinyl records so popular? Why is the experience of visiting a museum still relatively unaffected by digital interaction? The answer is very emphatically not because users are luddites, ill-informed, badly-trained or stupid.

I will argue that the reasons these problems persist may be due to the very complex relationship between physical and digital information, and information resources. I will discuss the importance of spatial orientation, memory, pleasure and multi-sensory input, especially touch, in making sense of, and connections between physical and digital information. I will also argue that, in this context, we have much to learn from the designers of early printed books and libraries, such John Cosin, a seventeenth-century bishop of Durham, who founded the little-known marvel that was the first public library in the North of England, and still exists, intact; one of the collections of Durham University library.

Si tratta di temi fondamentali attorno ai quali è però mancata, a mio avviso, una riflessione sui limiti, in termini di usabilità, degli strumenti digitali di cui dispongono gli umanisti e, in generale, i ricercatori, come ho scritto in questo tweet di commento:

I expected a few more words on how to make more usable tools and digital environments. A lack in #DH2016. Hope in #DH2017

— Francesca Di Donato (@ederinita) 15 luglio 2016

Il tweet è nato da un pensiero spontaneo legato alla sensazione – che è stata costante per tutta la conferenza e che mi si è manifestata con chiarezza nella lezione conclusiva proposta dalla docente di Durham – di avere di fronte strumenti potenti e utili ma improntati prevalentemente sull’idea di chi li ha pensati e li usa per fare ricerca, e pochissimo sui bisogni degli utenti.

Io credo che anche l’usabilità e lo studio dell’esperienza e delle esperienze degli utenti riguardino l’accesso alla conoscenza e che, di più, ne siano una condizione necessaria al pari dell’apertura dei dati. Si tratta allora forse, in termini più generali, di ripensare l’idea di biblioteca digitale liberandola dai vincoli che ancora la modellano su quella fisica. Siamo ancora molto legati ai paradigmi delle biblioteche fisiche e cerchiamo di riprodurre tale paradigma in ambito digitale, ma è un errore. Allora quello che dovremmo essere in grado di imparare da John Cosin non è come ordinare i libri in uno scaffale virtuale ma come cercare di offrire un’esperienza piacevole alle persone che vogliono trovare, leggere e interagire con risorse digitali. La biblioteca di Cosin è a tutti gli effetti un’interfaccia e l’opera, frutto di una riflessione che si è articolata nei secoli, è a tutti gli effetti il risultato di uno studio di User Centered Design.

Possiamo pensare la biblioteca digitale, in astratto, come un insieme di dati strutturati, pubblicati in diversi formati standard in numerosi repository, potenzialmente federati, che acquistano senso attraverso interfacce progettate a partire dall’esperienza e dai bisogni di utenti. Le interfacce possono essere molte e diverse, e rispecchiare le diverse interpretazioni di chi le progetta. Una sorta di forma nuova di articoli scientifici che, pur partendo dai medesimi dati, mantengono la propria originale unicità. A uno strato intermedio e separato ci sono i tool che consentono di creare e di gestire flussi di lavoro ad hoc per i gruppi di ricerca che lavorano sui dati al fine di costruire, a partire da essi, nuove interpretazioni. Ma i tool dovrebbero tornare a essere mezzi, e non scopi in sé, e più attenzione si dovrebbe dare ai modi in cui offriamo una interpretazione dei dati, attraverso le “viste” che ne proponiamo, concentrando la maggior parte della ricerca sulle interfacce che costruiamo.

Dovremmo fare in modo che i dati siano strutturati bene e messi “al sicuro”, per dare più spazio al modo in cui vogliamo rappresentarli, sapendo (e sperando) che altri verranno dopo e ne daranno a loro volta nuove interpretazioni e rappresentazioni in forma nuova. Dobbiamo spendere nella progettazione di tali viste più attenzione, più energie, e non accettare come un dato di fatto che il mondo analogico, tattile, fisico, risponda necessariamente meglio al nostro bisogno di capire, di conoscere, di consolidare la conoscenza. Senza scordarci che le difficoltà che incontriamo nel relazionarci a oggetti e a spazi, tanto fisici quanto digitali, dipendono più spesso dalle incapacità di chi li ha progettati che da nostri limiti. Lo scriveva Donald Norman ne La caffettiera del masochista, un classico che ci spinge a considerare anche il design come una questione di accessibilità, e dunque di apertura. Potrebbe essere una prospettiva, tra le tante, con cui guardare al tema dell’accesso alla conferenza DH2017 di Montreal, che sarà a esso dedicata.

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Uscire di minorità: il diritto dell’autore, preso sul serio

Logo Aisa “Roars” ha da poco dedicato un articolo alla proposta di legge avanzata dall‘Aisa sul diritto di ripubblicazione delle opere scientifiche.

Rebus sic stantibus è difficile, per gli studiosi incardinati nelle università e negli enti di ricerca fare uso pubblico della ragione, proprio a causa del combinato disposto di un sistema di valutazione della ricerca autoritario e prevalentemente bibliometrico e della venerazione del cosiddetto copyright editoriale. Ma liberare gli autori scientifici non è utopistico né, tanto meno, difficile: basta una piccola modifica alle legge sul diritto d’autore, come è già stato fatto in Germania e in Olanda.

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