L’onore degli ambasciatori: citazioni ad accesso aperto

Chi pubblica i propri lavori ad accesso aperto fa un uso pubblico della ragione. Chi preferisce l’accesso chiuso ne fa un uso privato: anziché rivolgersi ai cittadini del mondo valendosi della miglior tecnologia di comunicazione disponibile al momento, parla a un gruppo ristretto, selezionato con criteri economici. La scelta dell’accesso chiuso è di solito dovuta o a un’adesione d’abitudine alla prassi della comunità accademica di riferimento, o alla cura per la propria carriera e al timore che una pubblicazione ancora percepita come poco tradizionale possa condurre a valutazioni negative. Qui il teatro dell’azione non è una sfera pubblica virtualmente universale, bensì istituzioni particolari.

La citazione è “la moneta corrente nel commercio della comunicazione scientifica ufficiale“. Serve, quando costruisco tesi su idee altrui, sia a pagare dei debiti, sia a esibire la solidità del mio credito: la mia voce suona più forte, sostenuta dal patrimonio di letteratura che ho prelevato dalla banca del sapere.

La citazione è anche la materia prima degli indici bibliometrici, che possono essere decisivi per la valutazione della ricerca, gli avanzamenti nella carriera e le politiche d’acquisto delle riviste nelle biblioteche. In questa seconda funzione, le citazioni non sono moneta soltanto metaforicamente, ma anche in un senso assai letterale.

In un’opera pubblicata in rete le citazioni, in forma di link, sono moneta anche nel senso dell’economia dell’attenzione: tutte le volte che faccio un collegamento a una risorsa, migliorando il suo ranking nei motori di ricerca e rendendola più visibile, aumento il suo valore. E dato che i testi ad accesso aperto sono citati di più, ottenervi citazioni significa ricevere un bellissimo regalo.

Se le risorse citate sono a loro volta ad accesso aperto, la citazione è un segno di gratitudine per il dono della loro presenza. Ma se sono ad accesso chiuso si può dire lo stesso?

George Monbiot, in un recente articolo sul Guardian, ha chiamato gli oligopolisti dell’editoria scientifica “i capitalisti più spietati del mondo occidentale”, perché sfruttano il lavoro, per loro gratuito, di ricercatori e revisori finanziati con fondi pubblici, privatizzandone il prodotto e imponendogli un prezzo esorbitante. Che senso ha, per chi sceglie l’accesso aperto, far loro pubblicità gratis e senza reciprocità, per il loro profitto?

Potremmo raccomandare a chi pubblica ad accesso aperto la soluzione radicale, ma ingiusta, di citare esclusivamente risorse ad accesso aperto. Il marketing dell’attuale oligopolio della comunicazione scientifica tende a farci credere che la validità di un contenuto dipenda dal luogo in cui viene pubblicato (Björn Brembs, What’s wrong with scholarly publishing today? slide 87): se escludessimo la possibilità che un’idea veramente buona appaia in una rivista ad accesso chiuso commetteremmo lo stesso errore. Si può allora pensare a una politica di riduzione del danno, con alcune innovazioni rispetto alla consuetudine.

1. Preferire sistematicamente la letteratura ad accesso aperto;

2. citare i documenti ad accesso aperto depositati negli archivi istituzionali e disciplinari anche quando ne è stata pubblicata una versione ad accesso chiuso;

3, quando il testo da citare è rilevante per le idee che contiene e non per l’autore, cercare un documento ad accesso aperto che riporti tesi analoghe, anche quando questo significhi menzionare il lavoro di un dottorando in luogo di quello di un’academic star;

4. se il testo ad accesso chiuso è insostituibile, non citarlo direttamente, ma citare le risorse ad accesso aperto che lo segnalano e lo schedano; se mancano, produrre una sua breve presentazione ad accesso aperto per l’uso della citazione, avendo cura di sottolineare, quando è il caso, che la risorsa è ad accesso chiuso e a pagamento, mentre avrebbe potuto non esserlo.

La citazione di seconda mano non solo lascia quasi invariato l’impatto citazionale del testo ma ha un altro, importante, pregio.

In un ambiente in cui l’informazione è fin troppo abbondante il curatore – o il battitore di piste alla Vannevar Bush – ha un ruolo creativo; indica da che parte voltarsi, riduce la complessità con criteri più raffinati e umani degli algoritmi basati sulla popolarità, produce idee nuove da nuove combinazioni di concetti già noti. Già soltanto per questo merita di essere riconosciuto.

Ma il curatore che segnala in accesso aperto una risorsa ad accesso chiuso, esponendone il contenuto, fa qualcosa di ancora più significativo: libera per l’uso pubblico della ragione una risorsa che era a uso privato, dice nella luce quanto è stato detto nelle tenebre, grida sui tetti quanto gli è stato sussurrato all’orecchio. In questo senso il vero studioso è lui: perché è lui che racconta ai cittadini del mondo quanto l’autore aveva riservato agli eletti selezionati da un carisma economico.

A tutti noi, quando abbiamo scritto la nostra tesi di laurea, è stato detto non era bello fare citazioni di seconda mano, perché ci si esponeva al sospetto di non aver letto i testi citati e al rischio di recepire le eventuali inesattezze della citazione copiata. La politica di citazione qui proposta innova questa regola, indicando una situazione in cui la citazione di seconda mano è doverosa, perché non è un segno della pigrizia del citante, ma di una scelta – spesso non del tutto consapevole – del citato, che parla a pochi e per interessi particolari quando potrebbe parlare a tutti e per interessi universali. La citazione di seconda mano renderebbe evidente che chi rinuncia a entrare in prima persona nella sfera pubblica deve rassegnarsi alla mediazione – non necessariamente benevola e accurata – di qualcun altro che si prende il suo merito. E che oggi l’uso pubblico della ragione, superati i limiti tecnologici ed economici dell’età della stampa, si fa nell’accesso aperto.

Questa proposta nasce dall’esperienza della comunicazione ancora prevalente nell’ambito umanistico e tenta di affrontare il problema della mancanza di reciprocità nel rapporto fra accesso aperto e accesso chiuso, in un mondo in cui buona parte della ricerca mainstream continua ad adottare la seconda opzione, spesso soltanto per mancanza di consapevolezza. Ci possono essere soluzioni migliori? La discussione è aperta.

–dnt

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Don’t hate the aggregator. Become the aggregator

E pluribus unumIl 25 ottobre 2012 ho partecipato a una conferenza sull’Open Access con Jean-Claude Guédon, organizzata da SardegnaRicerche.

Le criticità degli oligopoli dell’editoria scientifica sono già evidenti, all’estero. In Italia però, complice una valutazione della ricerca costruita su database parziali, proprietari e opachi e su qualche conflitto d’interessi, l’accesso aperto è un fenomeno degno di nota ma minoritario.

Guédon ha sostenuto che consegnare il sigillo della scientificità a multinazionali come Thomson Reuters, che include nel suo database proprietario le riviste a suo arbitrio meritevoli, significa creare non solo oligopolio e oligarchia, ma anche colonialismo culturale. Quando i ricercatori dei paesi emergenti sottopongono i loro articoli a core journals mappati in una prospettiva anglo-americanocentrica, dedicano la loro intelligenza agli interessi dei ricchi, anziché ai propri.

Long TailSe accettiamo che il marchio della scientificità sia impresso dai journals, ma desideriamo una ricerca meno oligarchica, la distribuzione ottimale dell’impatto delle riviste dovrebbe essere una curva non solo lunga, ma anche il più possibile piatta. Senza posizioni preponderanti diventerebbe più difficile drenare risorse dal privato al pubblico e dal centro alla periferia, come è avvenuto nel sistema che ha condotto alla crisi del prezzo dei periodici

Applicare alla ricerca il modello della competizione – privilegiando la parte alta della curva – significa impoverirla, in una monocultura della conoscenza  concentrata su pochissimi interessi e pericolosamente priva di biodiversità.

La rete, rendendo facile la pubblicazione, può aiutarci a uscire dalla povertà. Internet, però, non è esente da posizioni dominanti: come ha mostrato Jaron Lanier, il ruolo giocato, nella pubblicazione scientifica, dalle multinazionali editoriali passa ad aggregatori come i motori di ricerca e le reti sociali proprietarie. In entrambi i casi qualcosa che nasce gratuito viene sfruttato per il proprio marketing e per il proprio profitto.

La pubblicazione ad accesso aperto usa le rete e il software libero per abbattere le barriere economiche che separano l’autore dal lettore. Le riviste ad accesso aperto  come il Bollettino telematico di filosofia politica sono solo un’attività collaterale alla ricerca: possono dunque essere gratuite per chi le legge e per chi ci scrive. Naturalmente, però, una rivista che diventasse mainstream, ricevendo centinaia di articoli al mese, non potrebbe più amministrarsi in modo artigianale: avrebbe bisogno di un’organizzazione più costosa, a spese del lettore, come nell’editoria tradizionale, o a spese dell’autore, come in Plos.

Essere piccoli, oscuri e poveri è il prezzo della libertà. Varrebbe la pena pagarlo, se.solo di libertà si trattasse.  Chi compie una simile scelta rischia, però, di rimanere vittima delle forme più ottuse di valutazione della ricerca e di vedersi rubare la scena da vecchi e nuovi signori delle nuvole. Ci troviamo, dunque, di fronte a un dilemma: o stare nella coda lunga della curva della distribuzione a legge di potenza o stare nella sua parte alta – o essere piccoli, artigianali, liberi, gratuiti e pluralisti, ma oscuri e facilmente sfruttabili, o diventare grossi, industriali e famosi, ma perdere se stessi.

Super-riviste

La soluzione di Guédon al dilemma che gli ho proposto s’ispira al modello delle super-riviste o mega-journals. Plos One, per esempio, pubblica qualsiasi testo scientificamente rigoroso che superi la revisione paritaria, senza nessun’altra considerazione editoriale. La rivista riesce a rispondere rapidamente agli autori e a offrire articoli con cadenza quotidiana,  grazie a un numero enorme di redattori accademici e a un flusso di lavoro automatizzato.

Se tutte le riviste incluse nel Doaj si federassero raggruppandosi in aree disciplinari ampie sotto testate unitarie anch’esse ad accesso aperto, otterremmo delle super-riviste in grado di pubblicare – completamente gratis – un volume enorme di articoli.  Il carattere federale permetterebbe a ciascuna testata federata di mantenere la propria struttura, il proprio comitato scientifico, i propri interessi e i propri tempi di lavoro, mentre le dimensioni della federazione condurrebbero a un volume di articoli e di citazioni troppo grande per essere ignorato. E pluribus, unum.

Naturalmente, perché il federalismo sia possibile, le riviste ad accesso aperto devono intendere la loro attività non in concorrenza, ma in cooperazione.  Si tratta di un passaggio difficile per chi applica alla scienza i modelli aziendalistici, ma facile per quanti sanno che una ricerca non ha successo quando vince il campionato della bibliometria, ma quando aiuta a comprendere meglio una porzione di mondo. La loro generosità, in ogni caso, sarà ricompensata dall’impatto della super-rivista, che ricadrà su ciascuna testata federata.

Questa rivoluzione culturale – un unico giardino aperto, cento fiori – avrebbe, per le scienze umane, un beneficio aggiuntivo: potrebbe aiutarle a superare la pluralità piccola e provinciale degli horti conclusi per aprirsi al pluralismo interconnesso teorizzato, per esempio, da Gregory Crane.

 

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Jaron Lanier, You are not a Gadget

Mechanic of Cloud and Guardian of Hills IIJaron Lanier è un programmatore e un musicista. Il suo testo (*) – tradotto anche in italiano – parla degli esiti della rivoluzione telematica, in una prospettiva critica e non contemplativa come la metafisica di alcuni filosofi professionisti, che s’ispirano alla digitalizzazione per ridurre la realtà a “documentalità” come condizione di possibilità dell’anima, o, all’opposto, a un’“infosfera” popolata d’inforgs.

Nel Fedro Platone, da utente del testo scritto, s’interroga molto più sul “come” che sul “che cosa”, riflettendo sulle possibilità e sui limiti della scrittura e dei media non interattivi in generale. Socrate non discute con un tecnico della comunicazione, com’è Fedro, per stabilire se l’anima ci sia o no – ne parla solo in un mito – ma per capire la relazione fra le tecnologie della parola e l’ambiente culturale che esse contribuiscono a creare. È sociologia della comunicazione? Certamente. Ma è anche filosofia come critica e prassi teorica, come riflessione che s’interroga sui suoi strumenti, anziché cristallizzarli in un’esposizione metafisica. Solo una lettura superficiale può rappresentare Platone come un mero detrattore della scrittura a favore dell’interiorità segreta di un’anima non documentabile.

1. Smanettando con la filosofia

Se adottiamo la prospettiva di Lanier le metafisiche che affrontano la digitalizzazione in modo contemplativo non sono soltanto oziose: sono pericolose.

Costruiamo estensioni per il vostro essere, come occhi e orecchi remoti (web-cam e telefoni cellulari) e memorie espanse (la massa di minuzie che si può cercare online). Esse diventano le strutture con cui vi connettete al mondo e agli altri. Queste strutture, a loro volta, possono cambiare il modo in cui concepite voi stessi e il mondo. Smanettiamo con la vostra filosofia manipolando direttamente la vostra esperienza cognitiva, non indirettamente, tramite l’argomentazione. Basta un minuscolo gruppo di ingegneri per creare una tecnologia in grado di dar forma, a incredibile velocità, a tutto il futuro dell’esperienza umana. Perciò sviluppatori e utenti dovrebbero fare le discussioni fondamentali sulla relazione umana con la tecnologia prima di progettare tali manipolazioni (You are not a Gadget, cap. I).

Il software non è un dato: è una costruzione, una visione del mondo, che incide su di noi – proprio come la poesia criticata da Platone nella Repubblica – al di qua del ragionamento. E, come la poesia, è soggetto ai vincoli della tradizione, o, più specificamente, del lock-in che “trasforma i pensieri in fatti“. Gli umanisti conoscono bene questo fenomeno: è la sedimentazione di idee, costumi e istituzioni che rende tanto potenti e costrittive la culture umane – è l’eticità di Hegel, la convenzione e la prescrizione di Burke, il sistema di tutele che rende così difficile uscire di minorità nello scritto sull’Illuminismo di Kant. Il medesimo fenomeno,  però, trasferito al software, rischia di trovarli disarmati e proni a una contemplazione servile dell’esistente, a meno che non appartengano alla particolarissima categoria dei digital humanists. Lanier suggerisce di essere scettici sugli strumenti che usiamo: ma lo scetticismo – per non ridursi a tecnofobia – richiede una conoscenza tecnica di cui non sempre i contemplativi si curano. Lo stesso concetto di digital humanities – quando viene distinto dalle scienze umane – presuppone che gli strumenti e le interfacce del conoscere siano oggetto di specializzazione molto esclusiva e non interesse di una scienza semplicemente umana.

 2. You are a gadget, indeed

Dal punto di vista applicativo, la differenza fra il sito di una rete sociale e il web come esisteva prima che le reti sociali venissero introdotte è questione di piccoli dettagli. Sul proprio sito web si poteva sempre creare una lista di link ai propri amici e spedire messaggi di posta elettronica a una cerchia per annunciare quanto ci stava a cuore. Tutto quello che offrono i servizi di reti sociali è un pungolo a usare il web in un modo particolare, secondo una filosofia particolare (You are not a Gadget, cap. III).

Quando Tim-Berners Lee inventò il web,  progettò, pensandolo per la comunità del Cern, un’architettura aperta e minimalista, che riuscì a guadagnare, solo perché si fondava su una buona idea, una partecipazione e una cooperazione spontanea. I media sociali proprietari mercificano questa spontaneità, incoraggiando le persone a creare presenze standardizzate in modo da poterle classificare più facilmente nei propri database. Chi accetta di sottomettersi ai modelli riduttivi dei media sociali – il loro confinamento della gente in bolle, con i cacciatori di relazioni su Facebook e i carrieristi su Linkedin – accetta di ridurre se stesso, di limitarsi secondo stereotipi pensati da altri, e per fini diversi – e spesso opposti – ai suoi. Il denaro, in rete, serve in primo luogo a pagare la pubblicità (You are not a Gadget, cap. IV): questo significa che l’interesse più forte e prevalente nella società digitale non è la socialità, o l’arte, o la scienza, ma la manipolazione.

Lanier interpreta  il test di Turing alla rovescia, suggerendo di pensarlo non come esame empirico di umanità  per la macchina. ma come test di meccanicità per l’essere umano. Lo supererebbe, in questa prospettiva, non la macchina che si comporta in modo “umano” bensì l’uomo che, avendo accettato la riduzione a gadget, si comporta in modo meccanico – cosa, questa, non infrequente nel mondo dei media sociali.

3. Noosfera: dalla quantità alla qualità?

I frammenti della fatica umana che hanno inondato l’internet sono percepiti da qualcuno come componenti di una mente ad alveare, o noosfera.  Si usano termini come questi per descrivere una cosa concepita come una nuova superintelligenza che sta emergendo globalmente sulla rete. Alcuni, come Larry Page, uno dei fondatori di Google, si aspettano che internet a un certo punto diventerà viva, mentre altri, come lo storico della scienza George Dyson, pensano che potrebbe già esserlo. Derivati popolari come “blogosfera”  sono divenuti luoghi comuni.

Un’idea di moda nei circoli tecnici è che la quantità non solo si trasforma in qualità quando raggiunge una misura estrema, ma che lo fa secondo principi che noi capiamo già. Alcuni dei miei colleghi pensano che un milione o forse un miliardo di insulti frammentari produrrà alla fine una sapienza superiore a quella di qualsiasi saggio ben ponderato, a condizione che sofisticati algoritmi statistici segreti ricombinino i frammenti. Io non sono d’accordo. Viene in mente un modo di dire dell’informatica dei primordi: garbage in, garbage out (You are not a Gadget, cap. III).

La rete può pensare al nostro posto, grazie alla mera massa dei dati, delle connessioni e della potenza di calcolo? Quando dobbiamo spiegare un fenomeno dobbiamo trattarlo come deterministico: questa è scienza. Credere, però, che dalla mole digitalizzata dei dati, delle spiegazioni, delle connessioni e delle confutazioni scaturisca una coscienza cosmica significa passare dalla scienza allo scientismo.

Tuttavia, vedere la coscienza come qualcosa di misterioso, che non può ridursi a illusione perché tale riflessione presuppone pur sempre la coscienza stessa, non è tanto infondato quanto sostenere che l’anima senza l’informazione è, a sua volta, nulla? Fra queste due visioni del mondo che si confrontano teoreticamente in uno scontro indecidibile c’è però una differenza pratica. Credere in un’informazione che torreggia su di noi induce a un atteggiamento contemplativo; credere nell’autonomia della ragione – e già Kant sapeva bene che non vi si può coerentemente accedere tramite un algoritmo, ma solo tramite una vocazione – induce a un atteggiamento critico. La noosfera, in questa prospettiva, è semplicemente il mondo della cultura, con tutte le sue strutture, le sue sedimentazioni, i suoi lock-in, i suoi dati chiusi o aperti, le sue reti semantiche e no, e i suoi pregiudizi: ipostatizzarla significa scegliere di trattarla come un dato anziché come un costrutto.

 4. Maoismo digitale

Il maoismo digitale non rifiuta ogni gerarchia. Ricompensa, invece, in maniera preponderante un’unica gerarchia prediletta, quella dei metadati digitali [digital metaness], nella quale un pastone [mashup] è più importante delle fonti che sono state ridotte in poltiglia. Un blog di blog è più celebrato di un mero blog. Se avete catturato una nicchia molto alta nell’aggregazione dell’espressione umana – per esempio nel modo in cui Google ha fatto con la ricerca –  riuscite a diventare potentissimi. Lo stesso vale per l’operatore di un hedge fund.  Nella nuvola, meta equivale a potere (You are not a Gadget, cap. IV)..

Metaforicamente: la Bibbia è un testo meraviglioso frutto della collaborazione fra generazioni e autori per lo più anonimi. Ma una cosa è apprezzarla come prodotto della sedimentazione culturale, finestra sull’umanità e – per chi è credente – espressione indiretta di Dio. Un’altra è trattarla, fanaticamente, come la parola diretta di Dio, consegnando, così, un potere grande e incontrollabile a chi svolge il ruolo dell’aggregatore che ordina, accoglie ed espunge contributi secondo il suo arbitrio (You are not a Gadget, cap. III). Questa seconda posizione – usare un prodotto collettivo come un oracolo, enfatizzare la massa e la sua eventuale violenza rispetto al singolo  – è ciò che Lanier chiama maoismo digitale.

5. Il valore del lavoro intellettuale

Un effetto della cosiddetta cultura libera è che potrebbe infine costringere chiunque vuole sopravvivere sulla base di un’attività intellettuale (diversa dal badare alla nuvola) a entrare in una qualche specie di fortezza giuridica o politica  – o diventare favoriti di un ricco mecenate – per essere protetti dalla rapacità della mente ad alveare. In realtà “libero” significa che artisti, musicisti, scrittori e registi saranno costretti ad ammantare se stessi in istituzioni indigeste (You are not a Gadget, cap. IV)..

Questa tesi non può essere ridotta a un attacco al Web 2.0:, perché tocca un problema più ampio: in che modo le società fanno i conti con la loro “anima”?  In che modo riconoscono il lavoro dell’intelligenza?

Prima della stampa l’attività dell’intelletto era un privilegio che compensava se stesso, ed era per lo più scontato che il suo prodotto fosse comune. Gli autori poveri di mezzi dovevano rassegnarsi a dipendere dal mecenatismo. L’invenzione della stampa non decretò la loro indipendenza, ma il potere di nuovi mediatori, gli editori, dapprima, più intensamente, con il regime del privilegio librario e poi, più moderatamente, con un copyright, che però divenne sempre più sbilanciato a favore dei distributori.  La pubblicazione scientifica mainstream, garantendo ricche rendite da oligopolio a pochi latifondisti del sapere che privatizzano quanto ricevono a titolo gratuito, è il caso limite di questa tendenza. La mente ad alveare non ha inventato nulla: il comunismo della conoscenza e il tentativo di sfruttarlo per trarne profitto o per manipolare le coscienze  accompagnano tutta la storia della cultura umana. Il Web 2.0 con i suoi signori delle nuvole e i suoi servi della gleba digitali che li omaggiano di pezzi stereotipati di se stessi ne sono solo la manifestazione più recente.

La soluzione di Lanier – ispirata al progetto Xanadu – si adegua al presupposto che un bene comune e gratuito sia privo di valore. Con queste premesse l’anima può riottenere la sua dignità solo diventando di nuovo privata e monetizzabile. Anche se i costi di transazione di un sistema centralizzato di micropagamenti che permettesse l’accesso ma non la copia risultassero superiori alle remunerazioni degli autori, l’efficienza del mercato dovrebbe essere sacrificata alla sua pedagogia. L’unica alternativa a questo capitalismo inefficiente sarebbe il socialismo, che però è soltanto – esorcisticamente? – evocato, sebbene la critica di Lanier al Web 2.0 sia tecnicamente consonante con quella di Dmytri Kleiner, telecomunista.

6. Oltre il lock-in?

Molto prima che venisse inventato il Web 2.0, il sistema della pubblicazione e della valutazione scientifica ha sperimentato un oligopolio basato sull’alienazione del lavoro intellettuale a favore di un’oligarchia di multinazionali dell’editoria scientifica.  Si era riusciti a far credere che il valore dei testi non dipendesse dai loro contenuti, bensì dalla loro distribuzione e aggregazione bibliometrica. Questo sistema è simile al Web 2.0 perché monetizza quanto offerto gratuitamente, a favore di pochissimi signori delle nuvole. I suoi testi, però, oltre ad essere recintati in bolle di dati proprietari e chiusi, sono accessibili solo  a caro prezzo.

Il movimento per l’accesso aperto ha reagito all’oligopolio  impegnandosi perché tutti possano leggere i testi senza pagare il pedaggio ai signori delle nuvole. Nello spirito di Lanier, avremmo potuto esigere che gli  autori e i revisori degli articoli scientifici fossero remunerati per il proprio lavoro in proporzione ai profitti degli editori. Ma non lo abbiamo fatto. Non lo abbiamo fatto perché non siamo prigionieri del lock-in che sembra incantare Lanier: per noi il valore dell’attività dell’intelletto non è monetario, né, in generale, la moneta è la misura ultima di tutti i valori. Esistono e sono esistite società libere da questo pregiudizio: gli stessi mecenati che, nella prima età moderna, finanziarono la rivoluzione scientifica vivevano in un mondo in cui era il denaro – e non l’attività dell’intelletto – a doversi giustificare, trasferendosi su valori ulteriori.

Chi sente la monetarizzazione del valore come un lock-in culturale si rende conto che il potere dei signori delle nuvole non riposa sulla svalutazione dell’attività dell’intelletto, ma sulla nostra incapacità ideologica di riaffermare il valore gratuito – la grazia – del nostro lavoro e di farlo riconoscere alla società con forme di remunerazione alternative al monopolio – dal crowdfunding, a una politica fiscale adeguata, alla promozione della cooperazione -, e sulla nostra difficoltà tecnica a esaminare criticamente gli strumenti che usiamo e la filosofia che incorporano.

Se vogliamo una repubblica del sapere senza recinzioni, ma popolata da cittadini e non da gadget, Lanier merita risposte che non si limitino a una difesa d’ufficio del Web 2.0. Da umanista, ne propongo alla discussione due, fra loro connesse:

1. Tecnicamente, occorre tornare dall’enfasi sull’user generated content all’user generated interface. I contenitori – dagli editori tradizionali ai media sociali proprietari – non sono indifferenti, soprattutto quando ci impongono una filosofia e una visione del mondo, che può andare dal culto del copyright alla riduzione a gadget. Questo significa – per gli umanisti e in generale per chi usa la rete per fare ricerca – prendere o riprendere in mano il codice, e chiedere agli sviluppatori che ci aiutino a uscire di minorità. Non possono esistere contenuti liberi se non sono liberi, preliminarmente, i loro contenitori.

2. Filosoficamente, occorre collegare la questione dell’uso pubblico della ragione a quella del grado di controllo che a ciascuno deve essere riconosciuto nel proprio rapporto col pubblico. La cultura, con le sue strutture. ma anche con i suoi pregiudizi, è oggetto di responsabilità – e irresponsabilità – collettiva. I media sociali proprietari – come i monopoli tradizionali basati sul copyright – non possono sostituire le comunità di conoscenza senza togliere al “tempo libero” della ricerca e della vita la sua libertà. Bisogna lavorare perché queste idee diventino tanto banali quanto da noi  lo è, almeno formalmente, il principio della libertà d’espressione

(*) Il libro, anche se si trova facilmente in rete,  è ad accesso chiuso; è stato tuttavia segnalato perché merita di essere aperto e discusso. I brani citati sono stati tradotti da me e non vengono dalla versione italiana commercializzata ad accesso altrettanto chiuso da un editore potente a cui non desidero fare pubblicità.

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Clay Shirky, Internet e il collegio invisibile

Come Internet sta cambiando il nostro modo di pensare?

Fra le 172 risposte presentate da Edge, Clay Shirky ne propone una particolarmente interessante per i ricercatori di professione.

Internet, scrive Shirky, ha aumentato straordinariamente la capacità espressiva dell’umanità. Ma che una risorsa divenga abbondante, da scarsa che era, è una sfortuna, almeno per chi su quella scarsità fondava il suo potere economico e sociale. Nel 1500 bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi da vivere: nei secoli successivi l’alfabetizzazione, proprio mentre diventava sempre più importante per la società, perse gradualmente il suo valore professionale. Qualcosa di simile accade ora per la capacità editoriale; mentre nel XX secolo rivolgersi al pubblico era un privilegio che dava influenza, denaro e prestigio, oggi lo può fare chiunque sia in rete.

Il primo esito evidente è un mondo de-professionalizzato, in cui sono in crisi tutti i modelli consolidati di valutazione della qualità. Questo è solamente un male, agli occhi dei più conservatori. Attraverso le rivoluzioni mediatiche dell’ultimo millennio il libro, nato come pezzo unico e opera d’arte, diventa prodotto industriale di massa, per finire come qualcosa che può comporre chiunque sappia usare un computer e collegarsi in rete.

Una società in cui chiunque abbia accesso alla sfera pubblica e in cui la partecipazione amatoriale – per dilettantismo, per amore – di massa sia qualcosa di scontato, può essere imprevedibilmente diversa dal mondo gerarchico di produttori attivi e consumatori passivi a cui erano abituate le generazioni precedenti. Quando venne inventata la stampa a caratteri mobili, fu usata dapprima al servizio della religione costituita, riproducendo Bibbie e indulgenze: nessuno avrebbe immaginato che nel giro di pochi decenni sarebbe stata determinante per il successo della Riforma di Lutero.

L’esperienza delle rivoluzioni mediatiche del passato può però darci una prospettiva su qualche futuro possibile.

Nella prima metà del Seicento, non c’era, in principio, una gran differenza fra chimici e alchimisti: entrambi indagavano sui misteri della materia in laboratori di storte e alambicchi. La cerchia attorno a Robert Boyle.- il cosiddetto invisible college che fu il germe della Royal Society — abbracciò il principio di credere solo a quanto dimostrato e di sottoporre i suoi membri a reciproco esame. Questo principio li indusse alla pubblicità, alla chiarificazione e alla condivisione dei risultati e delle procedure: gli alchimisti, che lavoravano da soli, mantenevano il segreto e tramandavano il loro sapere da maestro ad allievo o lo divulgavano in modo oscuro, furono soppiantati nel giro di un paio di decenni. Gli adepti del collegio invisibile divennero scienziati non semplicemente perché usavano la stampa, ma perché la usavano per sostenere e diffondere una cultura di comunicazione, trasparenza e discussione libera.

La rete può essere un invisible college sia nel senso di una scuola media invisibile – un luogo di divulgazione, narcisismo ossessivo e socializzazione vuota – sia in quello di un”università invisibile in cui si fa ricerca, si condividono risultati e ci si sottopone a un libero esame reciproco al di là dalle gerarchie delle accademie visibili. Sta a noi, conclude Shirky, decidere quale delle due opzioni sarà prevalente.

Kant, scrivendo di filosofia della storia, osservava che non è difficile fare previsioni sul futuro se il profeta ha il potere di influenzare i fatti con le sue parole e le sue azioni. Umberto Eco, che, pur non disdegnando di approfittare del lavoro gratuito altrui su Wikipedia, pubblica ad accesso chiuso perché crede nell’insostituibilità dei filtri dell’editoria e dell’accademia, contribuisce col suo comportamento a creare il tipo di Internet che critica – la scuola media invisibile. I fisici delle alte energie, che mettono immediatamente a disposizione di tutti anche i loro risultati più controversi e li discutono in pubblico contribuiscono alla rete come università invisibile. Per Eco la fisica è una disciplina talmente esoterica da aver paradigmaticamente bisogno di un sistema di pubblicazione altrettanto esoterico: l’esperienza dei fisici, però, dimostra che perfino questo esempio non è del tutto appropriato.

In questo momento, ci sono collegi invisibili che riescono a riproporsi con successo nel passaggio dal mondo esclusivo della stampa a quello più aperto della rete, e altri – specialmente nel settore delle scienze umane – che non ci provano nemmeno, o lo fanno con esasperante lentezza. Una simile scelta però, se vogliamo prendere sul serio l’analogia proposta da Shirky, non è priva di conseguenze: chi, nel corso di una rivoluzione mediatica “democratizzante”, si comporta come gli alchimisti si espone al rischio di fare la loro fine.

ResearchBlogging.orgThe OPERA Collaboraton: (2011). Measurement of the neutrino velocity with the OPERA detector in the CNGS beam Arxiv arXiv: 1109.4897v1

David, P. (2008). The Historical Origins of ‘Open Science’: An Essay on Patronage, Reputation and Common Agency Contracting in the Scientific Revolution Capitalism and Society, 3 (2) DOI: 10.2202/1932-0213.1040

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L’archivio storico di Phil. Trans. in condivisione su The Pirate Bay

Un utente di nome Gregory Maxwell ha condiviso l’archivio storico anteriore al 1923 delle Philosophical Transactions of the Royal Society – la madre di tutte le riviste scientifiche – violando consapevolmente le condizioni d’uso di Jstor. La giustificazione del suo gesto, molto interessante, può essere letta in traduzione italiana qui.

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