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Jaron Lanier, You are not a Gadget

Mechanic of Cloud and Guardian of Hills IIJaron Lanier è un programmatore e un musicista. Il suo testo (*) – tradotto anche in italiano – parla degli esiti della rivoluzione telematica, in una prospettiva critica e non contemplativa come la metafisica di alcuni filosofi professionisti, che s’ispirano alla digitalizzazione per ridurre la realtà a “documentalità” come condizione di possibilità dell’anima, o, all’opposto, a un’“infosfera” popolata d’inforgs.

Nel Fedro Platone, da utente del testo scritto, s’interroga molto più sul “come” che sul “che cosa”, riflettendo sulle possibilità e sui limiti della scrittura e dei media non interattivi in generale. Socrate non discute con un tecnico della comunicazione, com’è Fedro, per stabilire se l’anima ci sia o no – ne parla solo in un mito – ma per capire la relazione fra le tecnologie della parola e l’ambiente culturale che esse contribuiscono a creare. È sociologia della comunicazione? Certamente. Ma è anche filosofia come critica e prassi teorica, come riflessione che s’interroga sui suoi strumenti, anziché cristallizzarli in un’esposizione metafisica. Solo una lettura superficiale può rappresentare Platone come un mero detrattore della scrittura a favore dell’interiorità segreta di un’anima non documentabile.

1. Smanettando con la filosofia

Se adottiamo la prospettiva di Lanier le metafisiche che affrontano la digitalizzazione in modo contemplativo non sono soltanto oziose: sono pericolose.

Costruiamo estensioni per il vostro essere, come occhi e orecchi remoti (web-cam e telefoni cellulari) e memorie espanse (la massa di minuzie che si può cercare online). Esse diventano le strutture con cui vi connettete al mondo e agli altri. Queste strutture, a loro volta, possono cambiare il modo in cui concepite voi stessi e il mondo. Smanettiamo con la vostra filosofia manipolando direttamente la vostra esperienza cognitiva, non indirettamente, tramite l’argomentazione. Basta un minuscolo gruppo di ingegneri per creare una tecnologia in grado di dar forma, a incredibile velocità, a tutto il futuro dell’esperienza umana. Perciò sviluppatori e utenti dovrebbero fare le discussioni fondamentali sulla relazione umana con la tecnologia prima di progettare tali manipolazioni (You are not a Gadget, cap. I).

Il software non è un dato: è una costruzione, una visione del mondo, che incide su di noi – proprio come la poesia criticata da Platone nella Repubblica – al di qua del ragionamento. E, come la poesia, è soggetto ai vincoli della tradizione, o, più specificamente, del lock-in che “trasforma i pensieri in fatti“. Gli umanisti conoscono bene questo fenomeno: è la sedimentazione di idee, costumi e istituzioni che rende tanto potenti e costrittive la culture umane – è l’eticità di Hegel, la convenzione e la prescrizione di Burke, il sistema di tutele che rende così difficile uscire di minorità nello scritto sull’Illuminismo di Kant. Il medesimo fenomeno,  però, trasferito al software, rischia di trovarli disarmati e proni a una contemplazione servile dell’esistente, a meno che non appartengano alla particolarissima categoria dei digital humanists. Lanier suggerisce di essere scettici sugli strumenti che usiamo: ma lo scetticismo – per non ridursi a tecnofobia – richiede una conoscenza tecnica di cui non sempre i contemplativi si curano. Lo stesso concetto di digital humanities – quando viene distinto dalle scienze umane – presuppone che gli strumenti e le interfacce del conoscere siano oggetto di specializzazione molto esclusiva e non interesse di una scienza semplicemente umana.

 2. You are a gadget, indeed

Dal punto di vista applicativo, la differenza fra il sito di una rete sociale e il web come esisteva prima che le reti sociali venissero introdotte è questione di piccoli dettagli. Sul proprio sito web si poteva sempre creare una lista di link ai propri amici e spedire messaggi di posta elettronica a una cerchia per annunciare quanto ci stava a cuore. Tutto quello che offrono i servizi di reti sociali è un pungolo a usare il web in un modo particolare, secondo una filosofia particolare (You are not a Gadget, cap. III).

Quando Tim-Berners Lee inventò il web,  progettò, pensandolo per la comunità del Cern, un’architettura aperta e minimalista, che riuscì a guadagnare, solo perché si fondava su una buona idea, una partecipazione e una cooperazione spontanea. I media sociali proprietari mercificano questa spontaneità, incoraggiando le persone a creare presenze standardizzate in modo da poterle classificare più facilmente nei propri database. Chi accetta di sottomettersi ai modelli riduttivi dei media sociali – il loro confinamento della gente in bolle, con i cacciatori di relazioni su Facebook e i carrieristi su Linkedin – accetta di ridurre se stesso, di limitarsi secondo stereotipi pensati da altri, e per fini diversi – e spesso opposti – ai suoi. Il denaro, in rete, serve in primo luogo a pagare la pubblicità (You are not a Gadget, cap. IV): questo significa che l’interesse più forte e prevalente nella società digitale non è la socialità, o l’arte, o la scienza, ma la manipolazione.

Lanier interpreta  il test di Turing alla rovescia, suggerendo di pensarlo non come esame empirico di umanità  per la macchina. ma come test di meccanicità per l’essere umano. Lo supererebbe, in questa prospettiva, non la macchina che si comporta in modo “umano” bensì l’uomo che, avendo accettato la riduzione a gadget, si comporta in modo meccanico – cosa, questa, non infrequente nel mondo dei media sociali.

3. Noosfera: dalla quantità alla qualità?

I frammenti della fatica umana che hanno inondato l’internet sono percepiti da qualcuno come componenti di una mente ad alveare, o noosfera.  Si usano termini come questi per descrivere una cosa concepita come una nuova superintelligenza che sta emergendo globalmente sulla rete. Alcuni, come Larry Page, uno dei fondatori di Google, si aspettano che internet a un certo punto diventerà viva, mentre altri, come lo storico della scienza George Dyson, pensano che potrebbe già esserlo. Derivati popolari come “blogosfera”  sono divenuti luoghi comuni.

Un’idea di moda nei circoli tecnici è che la quantità non solo si trasforma in qualità quando raggiunge una misura estrema, ma che lo fa secondo principi che noi capiamo già. Alcuni dei miei colleghi pensano che un milione o forse un miliardo di insulti frammentari produrrà alla fine una sapienza superiore a quella di qualsiasi saggio ben ponderato, a condizione che sofisticati algoritmi statistici segreti ricombinino i frammenti. Io non sono d’accordo. Viene in mente un modo di dire dell’informatica dei primordi: garbage in, garbage out (You are not a Gadget, cap. III).

La rete può pensare al nostro posto, grazie alla mera massa dei dati, delle connessioni e della potenza di calcolo? Quando dobbiamo spiegare un fenomeno dobbiamo trattarlo come deterministico: questa è scienza. Credere, però, che dalla mole digitalizzata dei dati, delle spiegazioni, delle connessioni e delle confutazioni scaturisca una coscienza cosmica significa passare dalla scienza allo scientismo.

Tuttavia, vedere la coscienza come qualcosa di misterioso, che non può ridursi a illusione perché tale riflessione presuppone pur sempre la coscienza stessa, non è tanto infondato quanto sostenere che l’anima senza l’informazione è, a sua volta, nulla? Fra queste due visioni del mondo che si confrontano teoreticamente in uno scontro indecidibile c’è però una differenza pratica. Credere in un’informazione che torreggia su di noi induce a un atteggiamento contemplativo; credere nell’autonomia della ragione – e già Kant sapeva bene che non vi si può coerentemente accedere tramite un algoritmo, ma solo tramite una vocazione – induce a un atteggiamento critico. La noosfera, in questa prospettiva, è semplicemente il mondo della cultura, con tutte le sue strutture, le sue sedimentazioni, i suoi lock-in, i suoi dati chiusi o aperti, le sue reti semantiche e no, e i suoi pregiudizi: ipostatizzarla significa scegliere di trattarla come un dato anziché come un costrutto.

 4. Maoismo digitale

Il maoismo digitale non rifiuta ogni gerarchia. Ricompensa, invece, in maniera preponderante un’unica gerarchia prediletta, quella dei metadati digitali [digital metaness], nella quale un pastone [mashup] è più importante delle fonti che sono state ridotte in poltiglia. Un blog di blog è più celebrato di un mero blog. Se avete catturato una nicchia molto alta nell’aggregazione dell’espressione umana – per esempio nel modo in cui Google ha fatto con la ricerca –  riuscite a diventare potentissimi. Lo stesso vale per l’operatore di un hedge fund.  Nella nuvola, meta equivale a potere (You are not a Gadget, cap. IV)..

Metaforicamente: la Bibbia è un testo meraviglioso frutto della collaborazione fra generazioni e autori per lo più anonimi. Ma una cosa è apprezzarla come prodotto della sedimentazione culturale, finestra sull’umanità e – per chi è credente – espressione indiretta di Dio. Un’altra è trattarla, fanaticamente, come la parola diretta di Dio, consegnando, così, un potere grande e incontrollabile a chi svolge il ruolo dell’aggregatore che ordina, accoglie ed espunge contributi secondo il suo arbitrio (You are not a Gadget, cap. III). Questa seconda posizione – usare un prodotto collettivo come un oracolo, enfatizzare la massa e la sua eventuale violenza rispetto al singolo  – è ciò che Lanier chiama maoismo digitale.

5. Il valore del lavoro intellettuale

Un effetto della cosiddetta cultura libera è che potrebbe infine costringere chiunque vuole sopravvivere sulla base di un’attività intellettuale (diversa dal badare alla nuvola) a entrare in una qualche specie di fortezza giuridica o politica  – o diventare favoriti di un ricco mecenate – per essere protetti dalla rapacità della mente ad alveare. In realtà “libero” significa che artisti, musicisti, scrittori e registi saranno costretti ad ammantare se stessi in istituzioni indigeste (You are not a Gadget, cap. IV)..

Questa tesi non può essere ridotta a un attacco al Web 2.0:, perché tocca un problema più ampio: in che modo le società fanno i conti con la loro “anima”?  In che modo riconoscono il lavoro dell’intelligenza?

Prima della stampa l’attività dell’intelletto era un privilegio che compensava se stesso, ed era per lo più scontato che il suo prodotto fosse comune. Gli autori poveri di mezzi dovevano rassegnarsi a dipendere dal mecenatismo. L’invenzione della stampa non decretò la loro indipendenza, ma il potere di nuovi mediatori, gli editori, dapprima, più intensamente, con il regime del privilegio librario e poi, più moderatamente, con un copyright, che però divenne sempre più sbilanciato a favore dei distributori.  La pubblicazione scientifica mainstream, garantendo ricche rendite da oligopolio a pochi latifondisti del sapere che privatizzano quanto ricevono a titolo gratuito, è il caso limite di questa tendenza. La mente ad alveare non ha inventato nulla: il comunismo della conoscenza e il tentativo di sfruttarlo per trarne profitto o per manipolare le coscienze  accompagnano tutta la storia della cultura umana. Il Web 2.0 con i suoi signori delle nuvole e i suoi servi della gleba digitali che li omaggiano di pezzi stereotipati di se stessi ne sono solo la manifestazione più recente.

La soluzione di Lanier – ispirata al progetto Xanadu – si adegua al presupposto che un bene comune e gratuito sia privo di valore. Con queste premesse l’anima può riottenere la sua dignità solo diventando di nuovo privata e monetizzabile. Anche se i costi di transazione di un sistema centralizzato di micropagamenti che permettesse l’accesso ma non la copia risultassero superiori alle remunerazioni degli autori, l’efficienza del mercato dovrebbe essere sacrificata alla sua pedagogia. L’unica alternativa a questo capitalismo inefficiente sarebbe il socialismo, che però è soltanto – esorcisticamente? – evocato, sebbene la critica di Lanier al Web 2.0 sia tecnicamente consonante con quella di Dmytri Kleiner, telecomunista.

6. Oltre il lock-in?

Molto prima che venisse inventato il Web 2.0, il sistema della pubblicazione e della valutazione scientifica ha sperimentato un oligopolio basato sull’alienazione del lavoro intellettuale a favore di un’oligarchia di multinazionali dell’editoria scientifica.  Si era riusciti a far credere che il valore dei testi non dipendesse dai loro contenuti, bensì dalla loro distribuzione e aggregazione bibliometrica. Questo sistema è simile al Web 2.0 perché monetizza quanto offerto gratuitamente, a favore di pochissimi signori delle nuvole. I suoi testi, però, oltre ad essere recintati in bolle di dati proprietari e chiusi, sono accessibili solo  a caro prezzo.

Il movimento per l’accesso aperto ha reagito all’oligopolio  impegnandosi perché tutti possano leggere i testi senza pagare il pedaggio ai signori delle nuvole. Nello spirito di Lanier, avremmo potuto esigere che gli  autori e i revisori degli articoli scientifici fossero remunerati per il proprio lavoro in proporzione ai profitti degli editori. Ma non lo abbiamo fatto. Non lo abbiamo fatto perché non siamo prigionieri del lock-in che sembra incantare Lanier: per noi il valore dell’attività dell’intelletto non è monetario, né, in generale, la moneta è la misura ultima di tutti i valori. Esistono e sono esistite società libere da questo pregiudizio: gli stessi mecenati che, nella prima età moderna, finanziarono la rivoluzione scientifica vivevano in un mondo in cui era il denaro – e non l’attività dell’intelletto – a doversi giustificare, trasferendosi su valori ulteriori.

Chi sente la monetarizzazione del valore come un lock-in culturale si rende conto che il potere dei signori delle nuvole non riposa sulla svalutazione dell’attività dell’intelletto, ma sulla nostra incapacità ideologica di riaffermare il valore gratuito – la grazia – del nostro lavoro e di farlo riconoscere alla società con forme di remunerazione alternative al monopolio – dal crowdfunding, a una politica fiscale adeguata, alla promozione della cooperazione -, e sulla nostra difficoltà tecnica a esaminare criticamente gli strumenti che usiamo e la filosofia che incorporano.

Se vogliamo una repubblica del sapere senza recinzioni, ma popolata da cittadini e non da gadget, Lanier merita risposte che non si limitino a una difesa d’ufficio del Web 2.0. Da umanista, ne propongo alla discussione due, fra loro connesse:

1. Tecnicamente, occorre tornare dall’enfasi sull’user generated content all’user generated interface. I contenitori – dagli editori tradizionali ai media sociali proprietari – non sono indifferenti, soprattutto quando ci impongono una filosofia e una visione del mondo, che può andare dal culto del copyright alla riduzione a gadget. Questo significa – per gli umanisti e in generale per chi usa la rete per fare ricerca – prendere o riprendere in mano il codice, e chiedere agli sviluppatori che ci aiutino a uscire di minorità. Non possono esistere contenuti liberi se non sono liberi, preliminarmente, i loro contenitori.

2. Filosoficamente, occorre collegare la questione dell’uso pubblico della ragione a quella del grado di controllo che a ciascuno deve essere riconosciuto nel proprio rapporto col pubblico. La cultura, con le sue strutture. ma anche con i suoi pregiudizi, è oggetto di responsabilità – e irresponsabilità – collettiva. I media sociali proprietari – come i monopoli tradizionali basati sul copyright – non possono sostituire le comunità di conoscenza senza togliere al “tempo libero” della ricerca e della vita la sua libertà. Bisogna lavorare perché queste idee diventino tanto banali quanto da noi  lo è, almeno formalmente, il principio della libertà d’espressione

(*) Il libro, anche se si trova facilmente in rete,  è ad accesso chiuso; è stato tuttavia segnalato perché merita di essere aperto e discusso. I brani citati sono stati tradotti da me e non vengono dalla versione italiana commercializzata ad accesso altrettanto chiuso da un editore potente a cui non desidero fare pubblicità.

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Gregory Crane e i cittadini della repubblica delle lettere

Sargent, Perseus on Pegasus Slaying MedusaChi studia l’antichità conosce Gregory Crane anche quando non ne rammenta il nome, non per quello che ha scritto ma per quello che ha reso possibile scrivere. Crane è il direttore del Perseus Project, una biblioteca digitale che libera gli studiosi dal microcosmo chiuso e inaccessibile della monografia accademica, permettendo loro di lavorare sui classici in forma ipertestuale e stratificata, per esempio così.

Il suo intervento alla conferenza Going Digital. Evolutionary and Revolutionary Aspects of Digitization (2011) ha in epigrafe una citazione famosa del logos epitaphios dedicata, prima che alla democrazia nella repubblica delle lettere, alla democrazia nella repubblica.

Siamo i soli a considerare chi non partecipa [agli affari pubblici] non già senza occupazioni (apragmon) ma inetto (achreios): e siamo in grado di deliberare con sicurezza o almeno di valutare correttamente quanto non fatto da noi. Non consideriamo impedimento alle azioni i discorsi, ma la mancanza della conoscenza che va guadagnata col discorso prima dell’azione. [Thuc. 2.40.2]

Per quanto l’ideale ateniese possa apparire ingenuo, la sua condizione indispensabile – offrire a tutti gli strumenti informativi e tassonomici che nel mondo della stampa stavano rinchiusi nei libri e nelle menti di un’élite di studiosi – sta diventanto un compito urgente perché, indipendentemente da noi, il World Wide Web ha reso accessibile una quantità di informazione prima inimmaginabile e ha generalizzato la necessità di filtrarla. Gli umanisti – scrive Crane – hanno sempre sostenuto che il loro insegnamento forma menti critiche capaci di orientarsi nel passato e di formulare idee nuove per il futuro. Questo è il momento di metterli alla prova.

Paradossalmente, la repubblica piccolissima degli alfieri del pensiero critico ha sempre trattato gli studenti e in generale gli esterni alla comunità accademica come sudditi e non come cittadini. Questa discriminazione non è più giustificabile, né tecnicamente né scientificamente. Ci troviamo a vivere, come in una rivoluzione copernicana, in uno spazio documentale improvvisamente enorme e a disporre di strumenti di annotazione, connessione e confronto fra testi in grado di raccogliere e di far tesoro del contributo di tutti.

Sono percepibili quattro cambiamenti fondamentali. In primo luogo, dobbiamo ri-inventare gli strumenti elementari del nostro studio, come edizioni, lessici e grammatiche. In secondo luogo, discipline come la linguistica dei corpora ci permettono di vedere all’interno delle collezioni esistenti con una risoluzione e precisione precedentemente impossibile. In terzo luogo, settori come la linguistica computazionale e l’information retrieval ci hanno reso possibile lavorare con corpora di documenti pubblici, ora disponibili in forma digitale, molto ampliati rispetto al passato. In quarto luogo, stiamo contemplando non solo  una trasformazione nello studio dei classici, ma la necessità di integrare la ricerca su argomenti come la cultura greco-romana con temi quali le civiltà del Vicino Oriente antico (con cui interagiva il mondo greco-romano), e l’India e la Cina antiche. Dobbiamo pensare ai classici come a una rete globale di culture, le cui interazioni possono essere rintracciate in più di quattro millenni di registrazioni linguistiche. La repubblica delle lettere deve attingere più pienamente da una serie più ampia di comunità di studi (per esempio studiosi della cultura greco-romana che pubblicano in croato o in arabo) e promuovere nuove comunità che connettano campi prima separati come il greco classico e il cinese classico. In una parola, abbiamo bisogno di una repubblica della lettere che sia globale nella sua portata e incoraggi i popoli di tutto il mondo a contribuire come cittadini.

La prospettiva di Crane trascende dunque i tre provincialismi che, mentre il mondo sta muovendosi altrimenti, affliggono ancora buona parte della ricerca italiana,  d’abitudine o d’autorità:

  • il provincialismo dell’accesso chiuso: perché la sapienza classica possa essere per tutti un possesso per sempre in una rete globale di culture, la sua ricerca deve essere cosmopoliticamente accessibile;
  • il provincialismo neocolonialista che porta a identificare la ricerca “importante” con quella che interessa al mainstream anglosassone e parla la sua lingua;
  • il provincialismo della gerarchia accademica che induce a disconoscere la qualità di cittadini a  studenti, ricercatori precari, scrilettori  studiosi di altre discipline o semplici citizen scientists.

La repubblica delle lettere può sopravvivere soltanto superando se stessa, per risolversi nella società cosmopolitica dell’uso pubblico della ragione. Non rendersene conto significa condannarsi all’esistenza irrilevante e impoverita dell’accademia dei morti viventi.

 

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Francesca Di Donato, Comunicare la cultura: il dibattito sulla repubblica delle lettere nell’Illuminismo tedesco

Depositato nell’archivio “Giuliano Marini”, l’articolo di Francesca Di Donato offre una prospettiva storica sul modo e sul grado di consapevolezza teorica  con  cui gli studiosi organizzano se stessi

L’espressione respublica literaria compare per la prima volta nel 1417 in una lettera scritta da Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini. La repubblica delle lettere è  la comunità degli studiosi che, condividendo i medesimi interessi e la medesima occupazione, si scambiano notizie sulle proprie ricerche e scoperte, dapprima per via epistolare e poi tramite la stampa. Nella prima modernità, che vede la crisi della respublica Christiana, la comunità internazionale dei dotti si ispira a ideali di cosmopolitismo, pacifismo, libertà, uguaglianza e condivisione del metodo critico-razionale, dapprima inteso nella sua unità ispirata all’emancipazione umanistica dal giogo dell’autorità costituita, e successivamente bipartito a seconda che si parli di lettere o di scienze. In ogni caso, studioso non è semplicemente chi ama il sapere, ma chi ha la vocazione e la capacità di comunicarlo.

La respublica literaria nasce con una lingua comune, il latino, a cui successivamente subentrano le varie lingue nazionali, in un gioco delicato fra il rischio della frammentazione del discorso scientifico e la volontà di raggiungere pubblici più ampi. Anche la Germania, a partire dalla fine del Seicento, partecipa a questo sviluppo, favorito dal principio luterano dell’interpretazione dei testi tramite retta ragione e pubbliche confutazioni e da una fitta rete di periodici eruditi e di riviste politico-culturali. Per esempio Thomasius, vittima di una censura di stato, si difese tramite la teoria delle personae morali di Pufendorf: come il maestro di equitazione del re, pur essendo tenuto ad obbedirgli come suddito, deve trattarlo come qualsiasi altro allievo quando gli insegna ad andare a cavallo, così lo studioso può essere a un tempo suddito di uno stato, e, nella sua funzione, libero. 

Le trattazioni degli eruditi cominciano a distinguere due repubbliche: una prima (astratta) che coincide con la sfera della libertà di pensiero e di espressione; una seconda (storica), che include le istituzioni, le tradizioni, le regole e l’organizzazione di società dedite alla ricerca. Si crea una nuova attenzione nei confronti dell’influenza che i processi storici, sociali e politici possono avere sulla scienza, e su tale base l’universalità della repubblica delle lettere viene messa in discussione.

In questo quadro, il poeta Klopstock fa uscire, nel 1774,  Die deutsche Gelehrtenrepublik. La sua repubblica ha una struttura gerarchica, con degli anziani eletti da corporazioni, di cui cui fa parte chiunque abbia prodotto qualcosa di “più che mediocre” in una qualche scienza, e un popolo privo di influenza politica e sociale. I suoi princípi sono tre:

  1.  impegnarsi nella “ricerca, nella determinazione, nella scoperta, nell’invenzione, nella composizione e nell’animazione di più nuovi e più degni oggetti del pensiero e dei sensi
  2. condividere i più nuovi e più belli di tali oggetti con gli altri, comunicandoli attraverso gli scritti e tramite l’insegnamento
  3. promuovere le opere migliori, per contenuto e per forma, operando dunque una sorta di selezione delle migliori produzioni scientifiche e artistiche”

Dalla repubblica sono esclusi gli stranieri, chi non parla in tedesco e i filosofi, in quanto astratti ideatori di sistemi e autori di “scritti polemici”. Klopstock, che, sul piano pratico, condivide con illuministi come Lessing il progetto di emancipare gli studiosi dagli stampatori,

sa che la repubblica delle lettere è una costruzione storica e sociale, è a conoscenza del fatto che l’organizzazione culturale e intellettuale della repubblica ha prodotto controllo interno e censura, e anche che serve a dominare le menti degli illetterati. Gli piace soprattutto per questo: come progetto in chiave anti-illuministica e antifrancese. […] Il progetto del poeta si propone di regolare e controllare la critica nella comunità erudita, teoreticamente con l’esclusione della filosofia dalla repubblica, e praticamente fondando un’accademia che abbia il potere di filtrare il dibattito erudito al pubblico.

Da parte illuministica, il progetto fu criticato come oligarchico da Wieland; e analizzato sistematicamente da Moses Mendelssohn.  Costruire la respublica literaria entro lo stato nazionale e secondo il suo modello, anziché come cosmopolitica e indipendente, significa rendere anche gli studiosi dipendenti da poteri politici particolari. Gli scienziati, però, pur dovendo prescindere da ogni interesse personale, hanno il diritto e il dovere di essere in primo luogo partigiani della conoscenza, e non asettici burocrati. Né si possono escludere i filosofi dalla repubblica sulla base di una critica alla filosofia, perché la critica è parte dello sviluppo dell’attività filosofica stessa.  La barriera linguistica, infine, se può aver senso per la letteratura, non ce l’ha per la scienza: lo scienziato non cerca una “verità” nazionale, perché le sue teorie sono scientifiche solo se valgono per il mondo intero.

Questo articolo aiuta a capire perché, pochi anni dopo, Kant, sostenendo che chi fa uso pubblico della ragione in quanto studioso, appartiene alla società cosmopolitica, evita accuratamente di menzionare la repubblica delle lettere, e perché la sua teoria politica successiva, applicando il cosmopolitismo all’ordinamento degli stati, ribalta di fatto l’impostazione di Klopstock.  Se poi, oggi, le comunità di studiosi siano più simili a come le desiderava Klopstock o a come le sognavano gli illuministi, è questione che merita di essere offerta alla riflessione del lettore. 

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Clay Shirky, Internet e il collegio invisibile

Come Internet sta cambiando il nostro modo di pensare?

Fra le 172 risposte presentate da Edge, Clay Shirky ne propone una particolarmente interessante per i ricercatori di professione.

Internet, scrive Shirky, ha aumentato straordinariamente la capacità espressiva dell’umanità. Ma che una risorsa divenga abbondante, da scarsa che era, è una sfortuna, almeno per chi su quella scarsità fondava il suo potere economico e sociale. Nel 1500 bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi da vivere: nei secoli successivi l’alfabetizzazione, proprio mentre diventava sempre più importante per la società, perse gradualmente il suo valore professionale. Qualcosa di simile accade ora per la capacità editoriale; mentre nel XX secolo rivolgersi al pubblico era un privilegio che dava influenza, denaro e prestigio, oggi lo può fare chiunque sia in rete.

Il primo esito evidente è un mondo de-professionalizzato, in cui sono in crisi tutti i modelli consolidati di valutazione della qualità. Questo è solamente un male, agli occhi dei più conservatori. Attraverso le rivoluzioni mediatiche dell’ultimo millennio il libro, nato come pezzo unico e opera d’arte, diventa prodotto industriale di massa, per finire come qualcosa che può comporre chiunque sappia usare un computer e collegarsi in rete.

Una società in cui chiunque abbia accesso alla sfera pubblica e in cui la partecipazione amatoriale – per dilettantismo, per amore – di massa sia qualcosa di scontato, può essere imprevedibilmente diversa dal mondo gerarchico di produttori attivi e consumatori passivi a cui erano abituate le generazioni precedenti. Quando venne inventata la stampa a caratteri mobili, fu usata dapprima al servizio della religione costituita, riproducendo Bibbie e indulgenze: nessuno avrebbe immaginato che nel giro di pochi decenni sarebbe stata determinante per il successo della Riforma di Lutero.

L’esperienza delle rivoluzioni mediatiche del passato può però darci una prospettiva su qualche futuro possibile.

Nella prima metà del Seicento, non c’era, in principio, una gran differenza fra chimici e alchimisti: entrambi indagavano sui misteri della materia in laboratori di storte e alambicchi. La cerchia attorno a Robert Boyle.- il cosiddetto invisible college che fu il germe della Royal Society — abbracciò il principio di credere solo a quanto dimostrato e di sottoporre i suoi membri a reciproco esame. Questo principio li indusse alla pubblicità, alla chiarificazione e alla condivisione dei risultati e delle procedure: gli alchimisti, che lavoravano da soli, mantenevano il segreto e tramandavano il loro sapere da maestro ad allievo o lo divulgavano in modo oscuro, furono soppiantati nel giro di un paio di decenni. Gli adepti del collegio invisibile divennero scienziati non semplicemente perché usavano la stampa, ma perché la usavano per sostenere e diffondere una cultura di comunicazione, trasparenza e discussione libera.

La rete può essere un invisible college sia nel senso di una scuola media invisibile – un luogo di divulgazione, narcisismo ossessivo e socializzazione vuota – sia in quello di un”università invisibile in cui si fa ricerca, si condividono risultati e ci si sottopone a un libero esame reciproco al di là dalle gerarchie delle accademie visibili. Sta a noi, conclude Shirky, decidere quale delle due opzioni sarà prevalente.

Kant, scrivendo di filosofia della storia, osservava che non è difficile fare previsioni sul futuro se il profeta ha il potere di influenzare i fatti con le sue parole e le sue azioni. Umberto Eco, che, pur non disdegnando di approfittare del lavoro gratuito altrui su Wikipedia, pubblica ad accesso chiuso perché crede nell’insostituibilità dei filtri dell’editoria e dell’accademia, contribuisce col suo comportamento a creare il tipo di Internet che critica – la scuola media invisibile. I fisici delle alte energie, che mettono immediatamente a disposizione di tutti anche i loro risultati più controversi e li discutono in pubblico contribuiscono alla rete come università invisibile. Per Eco la fisica è una disciplina talmente esoterica da aver paradigmaticamente bisogno di un sistema di pubblicazione altrettanto esoterico: l’esperienza dei fisici, però, dimostra che perfino questo esempio non è del tutto appropriato.

In questo momento, ci sono collegi invisibili che riescono a riproporsi con successo nel passaggio dal mondo esclusivo della stampa a quello più aperto della rete, e altri – specialmente nel settore delle scienze umane – che non ci provano nemmeno, o lo fanno con esasperante lentezza. Una simile scelta però, se vogliamo prendere sul serio l’analogia proposta da Shirky, non è priva di conseguenze: chi, nel corso di una rivoluzione mediatica “democratizzante”, si comporta come gli alchimisti si espone al rischio di fare la loro fine.

ResearchBlogging.orgThe OPERA Collaboraton: (2011). Measurement of the neutrino velocity with the OPERA detector in the CNGS beam Arxiv arXiv: 1109.4897v1

David, P. (2008). The Historical Origins of ‘Open Science’: An Essay on Patronage, Reputation and Common Agency Contracting in the Scientific Revolution Capitalism and Society, 3 (2) DOI: 10.2202/1932-0213.1040

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Il crepuscolo delle idee

Segnalo questo dibattito non perché sia originale, ma perché non lo è per nulla: il suo tema è infatti quello, famosissimo, della critica alla scrittura contenuta nel mito platonico di Theuth, anche se non sempre chi discute ne è consapevole.

Secondo Neal Gabler (*) stiamo attualmente vivendo in un’età post-illuministica e “post-ideale”. Internet offre l’accesso a una quantità senza precedenti di informazione, che però non si trasforma in sapere, sia per la sua sovrabbondanza, sia il nostro imbarbarimento. Non ci sono più “grandi idee”: non abbiamo più visioni originali del mondo e teorie scientifiche in grado di catalizzare il dibattito al di là delle cerchie degli specialisti. Responsabili di questa situazione sono Internet in generale e i social media in particolare, che, sovraccaricandoci di informazione per lo più irrilevante, ci impediscono di riflettere.

Il Fedro di Platone non sosteneva nulla di diverso, quando trattava la scrittura – il primo strumento per conservare e diffondere il sapere che trascendeva le persone – come un mezzo che produceva soltanto un’illusione di cultura. L’informazione può trasformarsi in sapere esclusivamente tramite il ragionamento degli esseri umani entro comunità di conoscenza durevoli nel tempo.

Gabler riecheggia la pars destruens della tesi platonica senza citare il Fedro: le idee di Platone sono riuscite a crescere tanto da sparire dall’orizzonte semplicemente perché sono diventate esse stesse orizzonte. Chi pensa alle grandi idee come secrezioni di academic star al centro del dibattito pubblico non si avvede neppure di esservi dentro.

Secondo Megan Garber, Gabler ragiona nella prospettiva dei mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso: le grandi idee per lui sono idea ampiamente riconosciute, conosciute e accettate. In questo senso, sono figlie di media non frammentati Fatalmente, in un mondo in cui le idee nascono e si diffondono orizzontalmente e collettivamente tramite media frammentati, chi condivide la prospettiva di Gabler tenderà a pensare che non ci sono più grandi idee solo perché vede orizzonti ma non stelle. “Lungi dal vivere in un mondo post-ideale, stiamo creandone uno così saturo di idee che stiamo perdendo il bisogno di distinguerle, innanzi tutto, come tali.”

Si deve aggiungere che la nostalgia per la gerarchia degli editori e dei filtri induce a prospettive virtualmente fuorvianti. Mentre le idee di Platone si sono fatte orizzonte grazie a comunità di conoscenza consapevoli che hanno sfidato i confini e i millenni, i social network sono nelle mani di aziende private non necessariamente trasparenti e i cui interessi hanno poco a che fare con la ricerca della verità. Vederli come praterie in cui i barbari galoppano liberi può essere molto pericoloso.

(*) Url alternativo: qui.

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Andrea Zanni, Collaboratory Digital Libraries for Humanities in the Italian context

Archiviato su Zenodo, il testo si occupa del senso attuale e futuro dell’uso delle tecnologie informatiche nella ricerca umanistica, nell’interessante prospettiva dell’autore, matematico per formazione e segretario di Wikimedia Italia.

Il web, secondo Tim Berners-Lee, non è stato inventato come un mezzo per scorrere delle pagine, ma come uno spazio di informazione per permettere a chiunque di comunicare condividendo conoscenza – uno spazio nel quale perfino lo studioso di scienze umane potrebbe uscire dalla solitudine.

Il fondatore dell’informatica umanistica (digital humanities) è un italiano, il gesuita Roberto Busa, che durante la seconda guerra mondiale cominciò a cercare macchine per l’automazione dell’analisi linguistica dei testi scritti, trovandole nel 1949 presso l’IBM. La composizione del suo Index Thomisticus è dunque parallela alla storia della rivoluzione digitale della seconda metà del secolo scorso.

Le digital humanities usano strumenti informatici per l’ecdotica e la filologia, linguaggi di mark-up per la rappresentazione dei testi in modo strutturato, formale e semantico e la loro connessione con metadati interpretativi e descrittivi, nonché con strumenti per la meta-informazione multimediale, e riflettono sui documenti digitali e sulle loro caratteristiche. Secondo padre Busa, l’informatica testuale si divide in una corrente documentaristica, che si occupa delle infrastrutture della comunicazione telematica, una editoriale, che si occupa della pubblicazione dei testi in entità discrete, e una ermeneutica, associata con l’analisi linguistica – e col suo personale progetto di un linguaggio disciplinato che consenta la traduzione automatica.

Tradizionalmente, la ricerca umanistica è un mondo irto di barriere disciplinari, popolato da studiosi individualisti. L’Italia, in particolare, dominata dal conservatorismo di una gerarchia gerontocratica, è priva di progetti istituzionali di digitalizzazione in grande stile – sul modello di Gallica e lascia questo compito a iniziative amatoriali, come LiberLiber o la stessa Wikipedia. Eppure, il potenziale di collaborazione intrinseco nel web può dare i suoi frutti anche nel nostro ambito: io stessa, senza essere una studiosa di Tommaso, ho potuto facilmente individuare come tale un importante riferimento tomistico in un testo di Kant, proprio grazie al lavoro iniziato da padre Busa. Ma si può fare molto di più: come afferma Gregory Crane, fondatore del Perseus Project, mentre l’invenzione della scrittura, amplificata da quella della stampa, ha reso possibile immagazzinare le idee fuori dai cervelli umani, le biblioteche digitali, con testi che non sono più letti e connessi solo da esseri umani, ma anche da macchine, hanno già cominciato a separare dai cervelli l’intelligenza e l’azione. I limiti di questo processo sono ormai soltanto culturali. Il mondo della stampa era un mondo di autori, che legittimavano se stessi in quanto individualmente creativi o singolarmente sapienti, quello che sta nascendo è un mondo di auctores, di promotori di imprese collettive il cui senso cresce e si costruisce fuori di loro.

Le biblioteche digitali possono essere dei meri depositi per raccogliere testi, o anche degli ambienti virtuali di ricerca, con strumenti, interazioni e nessi più complessi, dal Memex fino ai Linked data. Nel contesto italiano, una biblioteca digitale per la comunità umanistica può essere collaborativa, o, ancor meglio, può diventare un ambiente virtuale condiviso di collaborazione (collaboratory)? E questa biblioteca digitale collaborativa e condivisa può essere costruita su un wiki?

Per rispondere a queste domande, l’autore sceglie la via dalla ricerca qualitativa tramite interviste a studiosi di scienze umane, fra le quali quella ad Umberto Eco, resa interamente pubblica su Wikinews. Le tre questioni pongono all’ambiente accademico sfide di complessità crescente.

Al primo livello, la libera disponibilità dei testi è nell’interesse immediato di chi fa ricerca. Perfino Umberto Eco, come autore, si rende conto che la cosiddetta pirateria è pubblicità a sua vantaggio e, come utente, apprezza la comodità di Wikipedia – salvo rifiutarsi di correggerla quando si imbatte in errori: “Se poi l’errore è di un altro, non vedo perché dovrei perdere tempo a modificare. Non sono la Croce Rossa.

Eco, nella sua intervista, presupponendo che le tecniche di selezione e di valutazione dell’attendibilità dei testi siano necessariamente il patrimonio di una élite, sostiene che la ricchezza di informazione non filtrata dalla rete faccia bene ai ricchi – cioè alla minoranza degli studiosi – e faccia male ai poveri, cioè alla maggioranza composta da persone mediaticamente ingenue, incapaci di discernere l’informazione con la perizia del professore. Per questo l’azione di filtro da parte di comunità scientifiche ristrette e gerarchiche sarà sempre necessario. E sarà sempre necessaria, in luogo del sapere collettivo, l’individualità dell’autore: nelle scienze umane non esiste un progresso, nel quale le teorie inesatte vengono superate, ma da una parte non si butta via nulla e tutto viene riscoperto, dall’altra ciascuno ha pretesa di originalità e mal si adatta ad essere un mero “portatore d’acqua”.

Se le cose stessero per natura come le vede Umberto Eco, gli umanisti professionisti, nel pascolo tragico dei beni comuni della conoscenza, potrebbero tutt’al più fare i free rider che sfruttano parassitariamente il lavoro altrui. Altri intervistati, probabilmente meno famosi e influenti, la pensano però – come si riassume nel capitolo finale – in maniera diversa.

La cooperazione ha indubbiamente un forte potenziale di innovazione, in discipline altrimenti immobili. Un editing collettivo nello stile di Wikipedia, oltre ad abbassare i costi, favorisce un processo simile a quella neutralizzazione con la quale i filologi cercano di pervenire alla versione più attendibile del documento che studiano. Una voce di Wikipedia non è mai definitiva, ma è solo l’esito provvisorio di un comune work in progress, al di sotto del quale rimangono visibili le discussioni e le stratificazioni che hanno contribuito a crearla.

La stratificazione renderebbe anche possibile la convivenza di interpretazioni diverse, per esempio partendo dall’immagine del testo, sovrapponendovi la sua trascrizione con eventuali variazione, aggiungendovi all’esterno uno stand off mark up, dei link per rendere il testo concretamente intertestuale, e delle annotazioni collaborative e no, e lasciando alla fine uno spazio grande quanto la rete per la collaborazione sociale attorno ai testi. Il mondo della scrittura e del libro ci ha abituato a pensare all’umanista come uno studioso solitario; ma questa immagine potrebbe essere tanto mitica quanto quella dell’autore come individuo dotato di una creatività primigenia.

Perché questa virtualità diventi attuale, in modo tale che la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale non rimanga prevalentemente nelle mani di dilettanti – sarebbe però necessario che ci fosse certezza sulla valutazione delle pubblicazioni digitali nei concorsi, e, soprattutto, che venisse creata, anche con pochi fondi – com’è reso possibile dal software libero – un’infrastruttura istituzionale per l’e-science.

Ma perché occorre attendere l’intervento – di questi tempi, improbabile – di immaginarie autorità lungimiranti? Uno degli intervistati di Zanni, con la sincerità dell’anonimato, ci aiuta a capirlo (pp. 99-100). L’accademico è dominato dalla paura di perdere il suo senso e il suo potere, ed è letteralmente terrorizzato dalla parola “collaborativo” – perfino quando la cooperazione renderebbe la ricerca più efficiente.

Una simile considerazione mi porta – avendo dedicato del tempo alla segnalazione e alla discussione del testo di un altro – a chiedermi perché questi studiosi così impauriti facciano ricerca. La cooperazione paritaria, per chi lavora per diffondere e far crescere delle idee, è uno strumento prezioso, che può apparire temibile solo se lo scopo implicito della ricerca si esaurisce nella conquista di fama e influenza individuale. Il disprezzo con il quale Umberto Eco distingue se stesso dalla Croce Rossa suggerisce – volendo insistere sulla metafora da lui scelta – che per molti di noi il dottor Guido Tersilli rimane ancora più degno di stima del medico che si impegna per salvare delle vite.

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