Andrea Zanni, Collaboratory Digital Libraries for Humanities in the Italian context

Archiviato su Zenodo, il testo si occupa del senso attuale e futuro dell’uso delle tecnologie informatiche nella ricerca umanistica, nell’interessante prospettiva dell’autore, matematico per formazione e segretario di Wikimedia Italia.

Il web, secondo Tim Berners-Lee, non è stato inventato come un mezzo per scorrere delle pagine, ma come uno spazio di informazione per permettere a chiunque di comunicare condividendo conoscenza – uno spazio nel quale perfino lo studioso di scienze umane potrebbe uscire dalla solitudine.

Il fondatore dell’informatica umanistica (digital humanities) è un italiano, il gesuita Roberto Busa, che durante la seconda guerra mondiale cominciò a cercare macchine per l’automazione dell’analisi linguistica dei testi scritti, trovandole nel 1949 presso l’IBM. La composizione del suo Index Thomisticus è dunque parallela alla storia della rivoluzione digitale della seconda metà del secolo scorso.

Le digital humanities usano strumenti informatici per l’ecdotica e la filologia, linguaggi di mark-up per la rappresentazione dei testi in modo strutturato, formale e semantico e la loro connessione con metadati interpretativi e descrittivi, nonché con strumenti per la meta-informazione multimediale, e riflettono sui documenti digitali e sulle loro caratteristiche. Secondo padre Busa, l’informatica testuale si divide in una corrente documentaristica, che si occupa delle infrastrutture della comunicazione telematica, una editoriale, che si occupa della pubblicazione dei testi in entità discrete, e una ermeneutica, associata con l’analisi linguistica – e col suo personale progetto di un linguaggio disciplinato che consenta la traduzione automatica.

Tradizionalmente, la ricerca umanistica è un mondo irto di barriere disciplinari, popolato da studiosi individualisti. L’Italia, in particolare, dominata dal conservatorismo di una gerarchia gerontocratica, è priva di progetti istituzionali di digitalizzazione in grande stile – sul modello di Gallica e lascia questo compito a iniziative amatoriali, come LiberLiber o la stessa Wikipedia. Eppure, il potenziale di collaborazione intrinseco nel web può dare i suoi frutti anche nel nostro ambito: io stessa, senza essere una studiosa di Tommaso, ho potuto facilmente individuare come tale un importante riferimento tomistico in un testo di Kant, proprio grazie al lavoro iniziato da padre Busa. Ma si può fare molto di più: come afferma Gregory Crane, fondatore del Perseus Project, mentre l’invenzione della scrittura, amplificata da quella della stampa, ha reso possibile immagazzinare le idee fuori dai cervelli umani, le biblioteche digitali, con testi che non sono più letti e connessi solo da esseri umani, ma anche da macchine, hanno già cominciato a separare dai cervelli l’intelligenza e l’azione. I limiti di questo processo sono ormai soltanto culturali. Il mondo della stampa era un mondo di autori, che legittimavano se stessi in quanto individualmente creativi o singolarmente sapienti, quello che sta nascendo è un mondo di auctores, di promotori di imprese collettive il cui senso cresce e si costruisce fuori di loro.

Le biblioteche digitali possono essere dei meri depositi per raccogliere testi, o anche degli ambienti virtuali di ricerca, con strumenti, interazioni e nessi più complessi, dal Memex fino ai Linked data. Nel contesto italiano, una biblioteca digitale per la comunità umanistica può essere collaborativa, o, ancor meglio, può diventare un ambiente virtuale condiviso di collaborazione (collaboratory)? E questa biblioteca digitale collaborativa e condivisa può essere costruita su un wiki?

Per rispondere a queste domande, l’autore sceglie la via dalla ricerca qualitativa tramite interviste a studiosi di scienze umane, fra le quali quella ad Umberto Eco, resa interamente pubblica su Wikinews. Le tre questioni pongono all’ambiente accademico sfide di complessità crescente.

Al primo livello, la libera disponibilità dei testi è nell’interesse immediato di chi fa ricerca. Perfino Umberto Eco, come autore, si rende conto che la cosiddetta pirateria è pubblicità a sua vantaggio e, come utente, apprezza la comodità di Wikipedia – salvo rifiutarsi di correggerla quando si imbatte in errori: “Se poi l’errore è di un altro, non vedo perché dovrei perdere tempo a modificare. Non sono la Croce Rossa.

Eco, nella sua intervista, presupponendo che le tecniche di selezione e di valutazione dell’attendibilità dei testi siano necessariamente il patrimonio di una élite, sostiene che la ricchezza di informazione non filtrata dalla rete faccia bene ai ricchi – cioè alla minoranza degli studiosi – e faccia male ai poveri, cioè alla maggioranza composta da persone mediaticamente ingenue, incapaci di discernere l’informazione con la perizia del professore. Per questo l’azione di filtro da parte di comunità scientifiche ristrette e gerarchiche sarà sempre necessario. E sarà sempre necessaria, in luogo del sapere collettivo, l’individualità dell’autore: nelle scienze umane non esiste un progresso, nel quale le teorie inesatte vengono superate, ma da una parte non si butta via nulla e tutto viene riscoperto, dall’altra ciascuno ha pretesa di originalità e mal si adatta ad essere un mero “portatore d’acqua”.

Se le cose stessero per natura come le vede Umberto Eco, gli umanisti professionisti, nel pascolo tragico dei beni comuni della conoscenza, potrebbero tutt’al più fare i free rider che sfruttano parassitariamente il lavoro altrui. Altri intervistati, probabilmente meno famosi e influenti, la pensano però – come si riassume nel capitolo finale – in maniera diversa.

La cooperazione ha indubbiamente un forte potenziale di innovazione, in discipline altrimenti immobili. Un editing collettivo nello stile di Wikipedia, oltre ad abbassare i costi, favorisce un processo simile a quella neutralizzazione con la quale i filologi cercano di pervenire alla versione più attendibile del documento che studiano. Una voce di Wikipedia non è mai definitiva, ma è solo l’esito provvisorio di un comune work in progress, al di sotto del quale rimangono visibili le discussioni e le stratificazioni che hanno contribuito a crearla.

La stratificazione renderebbe anche possibile la convivenza di interpretazioni diverse, per esempio partendo dall’immagine del testo, sovrapponendovi la sua trascrizione con eventuali variazione, aggiungendovi all’esterno uno stand off mark up, dei link per rendere il testo concretamente intertestuale, e delle annotazioni collaborative e no, e lasciando alla fine uno spazio grande quanto la rete per la collaborazione sociale attorno ai testi. Il mondo della scrittura e del libro ci ha abituato a pensare all’umanista come uno studioso solitario; ma questa immagine potrebbe essere tanto mitica quanto quella dell’autore come individuo dotato di una creatività primigenia.

Perché questa virtualità diventi attuale, in modo tale che la digitalizzazione del nostro patrimonio culturale non rimanga prevalentemente nelle mani di dilettanti – sarebbe però necessario che ci fosse certezza sulla valutazione delle pubblicazioni digitali nei concorsi, e, soprattutto, che venisse creata, anche con pochi fondi – com’è reso possibile dal software libero – un’infrastruttura istituzionale per l’e-science.

Ma perché occorre attendere l’intervento – di questi tempi, improbabile – di immaginarie autorità lungimiranti? Uno degli intervistati di Zanni, con la sincerità dell’anonimato, ci aiuta a capirlo (pp. 99-100). L’accademico è dominato dalla paura di perdere il suo senso e il suo potere, ed è letteralmente terrorizzato dalla parola “collaborativo” – perfino quando la cooperazione renderebbe la ricerca più efficiente.

Una simile considerazione mi porta – avendo dedicato del tempo alla segnalazione e alla discussione del testo di un altro – a chiedermi perché questi studiosi così impauriti facciano ricerca. La cooperazione paritaria, per chi lavora per diffondere e far crescere delle idee, è uno strumento prezioso, che può apparire temibile solo se lo scopo implicito della ricerca si esaurisce nella conquista di fama e influenza individuale. Il disprezzo con il quale Umberto Eco distingue se stesso dalla Croce Rossa suggerisce – volendo insistere sulla metafora da lui scelta – che per molti di noi il dottor Guido Tersilli rimane ancora più degno di stima del medico che si impegna per salvare delle vite.

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Lawrence Lessig, The architecture of access to scientific knowledge: just how badly we have messed this up

E’ una conferenza tenuta da Lawrence Lessig al Cern di Ginevra il 18 aprile di quest’anno. Il suo video è disponibile presso il Cern Document Server; a partire da qui si possono trovare i sottotitoli in inglese e in altre lingue, compresa quella italiana.

Lessig esordisce proponendo due impressioni. La prima è un effetto chiamato White, dal cognome del giudice della Corte Suprema Byron White che, nominato da Kennedy nel 1962, iniziò la sua carriera come progressista e la concluse, votando con la maggioranza nel caso Bowers vs. Hardwick, come un conservatore, non perché avesse cambiato le sue idee ma perché non le aveva mai cambiate. La seconda è offerta dagli scaffali vuoti dello studio dell’economista di Harvard Gita Gopinath: “Tutto quello che mi serve ora è in rete”.

Fra Gopinath e la maggior parte di noi c’è però una differenza, che si chiama copyright – una norma di diritto positivo, volta a correggere un fallimento del mercato. Il monopolio temporaneo della distribuzione e dello sfruttamento economico delle opere concesso da questa norma dovrebbe incoraggiare la creatività degli artisti. Ma, a dispetto della sua giustificazione, sancita giudizialmente dalla sentenza Donaldson vs. Beckett del 1774, esso, quando lo incontriamo in rete, ha per lo più a che fare con gli editori e con i loro interessi.

Per la scienza, c’è davvero bisogno di un copyright?

Un politologo che cercasse campaign finance su Google Scholar scoprirebbe che i primi 10 risultati – che coinvolgono siti di editori commerciali o l’archivio non a scopo di lucro Jstor – sono tutti ad accesso riservato e a pagamento. Tutto è in Internet per Gita Gopinath, in un’università d’élite, ma non per molti suoi colleghi, e certamente non per il pubblico in generale. Gli unici a trarre profitto dall’accesso riservato sono gli editori: gli autori scientifici, che lavorano gratis, avrebbero infatti interesse alla massima disseminazione delle loro opere. Jstor, che nel 1994 sembrava una cosa bellissima, sconta ora un effetto White talmente intenso da apparire moralmente oltraggioso: come può una sedicente organizzazione senza scopo di lucro far pagare 20 dollari per un articolo di sei pagine?

Il movimento per l’accesso aperto, che risponde a questo scandalo, è ispirato sia da motivazioni economiche, la crisi dei prezzi dei periodici, sia dall’indignazione: che senso ha lavorare gratis perché altri guadagnino? La fonte di Lessig sulla serial price crisis è questo studio, e in particolare il grafico della figura 1, che mostra quanto spropositatamente siano aumentati i costi delle riviste in raffronto a un prodotto tecnicamente analogo come le monografie.

Naturalmente, perché l’accesso aperto sia pieno e permanente, la ricerca scientifica non deve essere solo accessibile, ma anche protetta da licenze libere. Questa, per esempio, è la scelta di Plos, che ha adottato la licenza Creative Commons meno restrittiva. E in questo senso lavora il ramo scientifico di Creative Commons, Science Commons.

Da questo studio sulle riviste ad accesso aperto, risulta che una buona metà dei grandi editori che lo praticano adotta licenze Creative Commons. Quanto agli altri editori, per il 27% non danno informazioni sul copyright adottato, oppure si fanno cedere i diritti; le licenze Creative Commons (21%) e la conservazione del copyright da parte degli autori (10%) sono casi minoritari. Qui c’è una zona grigia particolarmente interessante: quella delle riviste legate a società per lo studio di un particolare settore, che usano il copyright per sostenere le società stesse, riservando l’accesso a una minoranza di privilegiati. Questo non è Enlightenment (illuminismo): è Elite-ment (esclusivismo). La scienza si attacca alla tradizione per non venir travolta da mode passeggere: ma è tempo di riconoscere che l’accesso aperto è molto più di una moda, perché concerne l’essenza stessa della discussione scientifica.

La condivisione non è essenziale solo per la scienza, ma per la creatività in generale. Al tramonto del XX secolo, Internet, grazie a siti come You Tube, è stata arricchita dall’imporsi di una cultura che non è più read only (di sola lettura), ma read/write (di lettura/scrittura). Ma il sistema attuale del copyright è tale che perfino il quindicenne che remixa un brano musicale per il piacere di farlo viene investito da una normativa complessa e criminalizzante, come si vede dal minaccioso video The Copyright School con il quale YT cerca di erudire i suoi utenti più giovani.

Lessig propone una riforma del diritto d’autore per liberare dalla regolamentazione lo spazio della cultura che non ha scopi commerciali, secondo questo schema:

Riforma del copyright proposta da Lessig

e porre fine all’inutile e sanguinosa guerra contro la cosiddetta pirateria tramite strumenti come le licenze obbligatorie e le licenze collettive volontarie.

Chi conosce il pensiero di Lessig sa che queste tesi, qui riportate in modo molto succinto, non sono delle novità. Quello che merita una riflessione, pratica prima che teorica, sono le sue parole conclusive, dedicate di nuovo al mondo dell’accademia.

Si deve riconoscere l’accesso universale alla conoscenza come un’obbligazione morale. Qui per accesso non si intende una mera accessibilità fisica, bensì la libertà delle licenze, così da rendere rielaborabile e riutilizzabile ogni prodotto della ricerca. La scienza non vive di conformismo e di esclusivismo, ma di innovazione non prevista, non progettata e in controtendenza.

Dovremmo avere il coraggio di dire che quanti praticano o accettano la pubblicazione ad accesso chiuso si comportano ingiustamente e sono incoerenti con l’etica del lavoro scientifico. E gli accademici in posizione di potere, che valutano la ricerca e decidono le carriere altrui, dovrebbero semplicemente smettere di considerare come titoli gli articoli privatizzati su riviste ad accesso chiuso, per quanto prestigiose.

Ho segnalato questa conferenza non tanto per la sua originalità, quanto perché ha il pregio di esporre in modo netto delle tesi importanti sul senso dell’accesso aperto e sul suo nesso – niente affatto ideologico – con l’essenza del nostro lavoro. Una ricerca che trovi il suo senso non nella discussione pubblica, ma nell’ammissione concorrenziale a un club sedicente esclusivo merita ancora di essere chiamata scienza?

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Sabine Nuss, Private property and public goods of information in view of copyright and copyleft

L’articolo, pubblicato in inglese dalla rivista “Crítica Bibliotecológica: Revista de las Ciencias de Información Documental” nel 2010 e disponibile presso l’archivio E-Lis, affronta la questione del copyright in una prospettiva marxista.

La scarsità artificiale di beni pubblici – compresi quelli dell’informazione e della conoscenza – è la condizione della mercificazione capitalista.

I monopoli intellettuali si giustificano, da parte capitalista, con la necessità di remunerare il capitale investito nell’innovazione e quindi favorire l’innovazione stessa. Ma la digitalizzazione dell’informazione rende sempre più difficile creare questa scarsità, e sempre più evidente la contraddizione fra l’intento della ricerca dell’innovazione e la restrizione monopolistica. Su questa contraddizione ha giocato il movimento per il software libero. I suoi sostenitori più radicali lo vedono addirittura come il germe di una possibile distruzione del sistema capitalistico.

La mercificazione di una cosa non deriva, in una prospettiva marxista, dalla sua costituzione materiale, bensì dalla sua determinazione sociale. Ciò che è pubblico è trattato come tale solo per motivi funzionali: una ferrovia può essere costruita a spese dello stato, come capitalista collettivo ideale, perché nessun singolo imprenditore è disposto a finanziarla, per poi essere privatizzata. Secondo Marx, il capitalismo tende a cercare profitti dovunque può estrarre plusvalore dal lavoro: questo spiegherebbe anche l’attuale tendenza a privatizzare i beni comuni e pubblici. In questa prospettiva, se si vuole impedire la privatizzazione di un bene, non conviene insistere sul suo carattere materiale: occorre sfidare il sistema della proprietà privata in generale.

Se si ragiona in questi termini, si deve coerentemente concludere che il movimento per il software libero non è affatto un’alternativa al capitalismo: gli offre, piuttosto, facendo uso di una forma di copyright, un modo più efficiente di produrre conoscenza per lo sfruttamento mercantile. Di più: gli sviluppatori di software libero non lavorano perché motivati dal salario, ma dall’utilità del prodotto e dal rapporto con la comunità. Questo, da un lato, mostra che ci sono altri incentivi oltre allo spirito di appropriazione, ma, dall’altro, risparmia alle aziende lo sforzo di assumerli e di pagarli, e lavora al servizio del sistema.

Ho segnalato questo articolo, scritto da un’autrice tedesca per una rivista messicana, e depositato in un archivio disciplinare aperto di biblioteconomia e scienza dell’informazione, per illustrare un’altra potenzialità dell’overlay journal: mettere in luce posizioni e culture diverse da quelle del mainstream anglosassone – favorire la diversità della ricerca, che è tanto importante per la specie umana quanto lo è la biodiversità per le specie viventi in generale.

Dal mio punto di vista, la prospettiva dell’articolo si espone alla fallacia del Nirvana: la pretesa o l’attesa di un mutamento sistemico globale induce a non apprezzare e a non teorizzare l’impegno per mutamenti parziali, paralizzando il critico della società in una posizione contemplativa. I sistemi sono strumenti analitici che stanno nella mente dei ricercatori, mentre il mondo – che è mondo e non sistema – si cambia un poco per quel poco che possiamo fare. E possiamo fare certamente di più come studiosi indipendenti che rendono pubblico il proprio lavoro, anche per un eventuale sfruttamento capitalistico altrui, piuttosto che come schiavi dei baroni universitari e delle multinazionali dell’editoria scientifica. Questo è condiviso, praticamente, anche dall’autrice dell’articolo, che ha scelto di depositarlo in un archivio aperto, sotto una licenza Creative Commons.

Il pregio di un’analisi marxista è però un altro: mettere in luce la problematicità di un mondo in cui la condivisione della conoscenza rischia di indurre alcune persone a lavorare gratis perché altri ne traggano profitto. Come riconoscere il loro lavoro? In questo senso è ben vero che una società giusta non può permettersi di ospitare dei beni comuni della conoscenza senza aprirsi alla possibilità di altri, reciproci, beni pubblici o comuni.

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Andrea Capra, Platone e la storia. La fine di Protagora e lo statuto letterario dei dialoghi socratici

Secondo alcune fonti antiche il sofista Protagora, ormai anziano, fu accusato, come Socrate, di empietà e trovò la morte lasciando Atene, forse per sfuggire al processo o forse perché bandito dalla città. Contro questa tradizione sembra militare la testimonianza di Platone, secondo la quale, almeno in apparenza, Protagora, a differenza di altri intellettuali, non si imbatté mai in questo tipo di difficoltà. L’autore, però, osserva che Platone disponeva e padroneggiava degli strumenti letterari dell’antifrasi ironica e dell’allusione mitologica malevola, e poteva presupporre un pubblico in grado di raccogliere i suoi spunti perché ben informato dei fatti. Se leggiamo il testo platonico secondo questo registro, otteniamo una conferma – e non una smentita – della tradizione.

L’articolo, uscito su “Acme” (53:2, 2000, pp. 19-37), è disponibile ad accesso aperto e pieno presso l’archivio istituzionale dell’università di Milano. Il problema interpretativo che affronta può essere letto come una conseguenza di una caratteristica del testo scritto che lo stesso Platone aveva messo in luce nel Fedro: quella stessa rigidità e mancanza di interattività che gli consente di superare i limiti spaziali e temporali della comunicazione orale, può farlo sopravvivere senza il suo contesto, cioè senza la comunità di conoscenza nella quale e per la quale era stato composto. Quanto per gli ascoltatori di Platone era o un ovvio riferimento a un dato storico, o un’ironia altrettanto evidente, per noi è solo l’esito di una congettura filologica, che non può andare oltre la verosimiglianza, perché non possiamo più accedere alle conversazioni quotidiane dell’Atene di due millenni e mezzo fa.

Quanto più i testi sono slegati dai contesti, tanto più diventano rigidi, enigmatici, e sostanzialmente inutili. Chi pubblica ad accesso aperto offre il suo lavoro alla rete, cioè a una molteplicità di interazioni e legami (link), e quindi alla possibilità di far vivere il senso del suo testo più intensamente e più a lungo.

Ho voluto che la prima segnalazione del nuovo Btfp fosse quella di un articolo uscito e depositato altrove per rendere chiara la differenza fra una rivista tradizionale – anche ad accesso aperto, anche in rete – e questa nuova impresa. Un overlay journal non è una cassaforte, né una vetrina, ma uno spazio aperto di legami, di interazioni e di contesti che danno sensi ai testi.

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