L’articolo, pubblicato in inglese dalla rivista “Crítica Bibliotecológica: Revista de las Ciencias de Información Documental” nel 2010 e disponibile presso l’archivio E-Lis, affronta la questione del copyright in una prospettiva marxista.
La scarsità artificiale di beni pubblici – compresi quelli dell’informazione e della conoscenza – è la condizione della mercificazione capitalista.
I monopoli intellettuali si giustificano, da parte capitalista, con la necessità di remunerare il capitale investito nell’innovazione e quindi favorire l’innovazione stessa. Ma la digitalizzazione dell’informazione rende sempre più difficile creare questa scarsità, e sempre più evidente la contraddizione fra l’intento della ricerca dell’innovazione e la restrizione monopolistica. Su questa contraddizione ha giocato il movimento per il software libero. I suoi sostenitori più radicali lo vedono addirittura come il germe di una possibile distruzione del sistema capitalistico.
La mercificazione di una cosa non deriva, in una prospettiva marxista, dalla sua costituzione materiale, bensì dalla sua determinazione sociale. Ciò che è pubblico è trattato come tale solo per motivi funzionali: una ferrovia può essere costruita a spese dello stato, come capitalista collettivo ideale, perché nessun singolo imprenditore è disposto a finanziarla, per poi essere privatizzata. Secondo Marx, il capitalismo tende a cercare profitti dovunque può estrarre plusvalore dal lavoro: questo spiegherebbe anche l’attuale tendenza a privatizzare i beni comuni e pubblici. In questa prospettiva, se si vuole impedire la privatizzazione di un bene, non conviene insistere sul suo carattere materiale: occorre sfidare il sistema della proprietà privata in generale.
Se si ragiona in questi termini, si deve coerentemente concludere che il movimento per il software libero non è affatto un’alternativa al capitalismo: gli offre, piuttosto, facendo uso di una forma di copyright, un modo più efficiente di produrre conoscenza per lo sfruttamento mercantile. Di più: gli sviluppatori di software libero non lavorano perché motivati dal salario, ma dall’utilità del prodotto e dal rapporto con la comunità. Questo, da un lato, mostra che ci sono altri incentivi oltre allo spirito di appropriazione, ma, dall’altro, risparmia alle aziende lo sforzo di assumerli e di pagarli, e lavora al servizio del sistema.
Ho segnalato questo articolo, scritto da un’autrice tedesca per una rivista messicana, e depositato in un archivio disciplinare aperto di biblioteconomia e scienza dell’informazione, per illustrare un’altra potenzialità dell’overlay journal: mettere in luce posizioni e culture diverse da quelle del mainstream anglosassone – favorire la diversità della ricerca, che è tanto importante per la specie umana quanto lo è la biodiversità per le specie viventi in generale.
Dal mio punto di vista, la prospettiva dell’articolo si espone alla fallacia del Nirvana: la pretesa o l’attesa di un mutamento sistemico globale induce a non apprezzare e a non teorizzare l’impegno per mutamenti parziali, paralizzando il critico della società in una posizione contemplativa. I sistemi sono strumenti analitici che stanno nella mente dei ricercatori, mentre il mondo – che è mondo e non sistema – si cambia un poco per quel poco che possiamo fare. E possiamo fare certamente di più come studiosi indipendenti che rendono pubblico il proprio lavoro, anche per un eventuale sfruttamento capitalistico altrui, piuttosto che come schiavi dei baroni universitari e delle multinazionali dell’editoria scientifica. Questo è condiviso, praticamente, anche dall’autrice dell’articolo, che ha scelto di depositarlo in un archivio aperto, sotto una licenza Creative Commons.
Il pregio di un’analisi marxista è però un altro: mettere in luce la problematicità di un mondo in cui la condivisione della conoscenza rischia di indurre alcune persone a lavorare gratis perché altri ne traggano profitto. Come riconoscere il loro lavoro? In questo senso è ben vero che una società giusta non può permettersi di ospitare dei beni comuni della conoscenza senza aprirsi alla possibilità di altri, reciproci, beni pubblici o comuni.
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