Un ministro francese convocò alcuni dei commercianti più stimati, per chiedere loro suggerimenti sul modo in cui poter sollevare le sorti del commercio, come se intendesse scegliere l’avviso migliore. Dopo che uno ebbe suggerito questo e l’altro quel rimedio, un vecchio commerciante, che fino ad allora era rimasto in silenzio, prese a dire: costruite buone strade, battete buona moneta, accordate uno diritto snello in materia di cambio e così via; quanto al resto, ‘lasciateci fare!’ Questa sarebbe la risposta che dovrebbe dare la facoltà di filosofia, se il governo le chiedesse quali dottrine deve imporre agli studiosi: solo di non impedire il progresso delle idee e delle scienze.1
1. Il ritorno della qualità
COARA è una coalizione composta promiscuamente da università, enti di ricerca, associazioni scientifiche e agenzie di valutazione che si è formata in seguito all’Agreement on Reforming Research Assessment (ARRA),reso pubblico nel luglio 2022. La coalizione comporterebbe un reciproco impegno a superare o integrare la valutazione amministrativa della ricerca, che è bibliometrica e quantitiva, e a riconoscere la sua qualità e varietà tramite la revisione fra pari.
Secondo un articolo offerto alla revisione paritaria aperta da Francesca Di Donato, che è fra i redattori dell’accordo, per riconoscere la qualità occorrerebbe riaffermare, al modo di Kant, l’autonomia della comunità scientifica. Kant assegnava la ricerca di base alla facoltà di filosofia e trattava la valutazione come intrinseca alla ricerca stessa, se per ricerca si intende “l’esercizio di un metodo che consiste nel sottoporre a critica qualsiasi dottrina, e come tale è presupposto essenziale di ogni conoscenza”. Una valutazione di questo tipo, però, non può svolgersi senza “libere comunità di pari che imparano dai propri errori e si correggono costantemente a vicenda.” Perciò, conclude Francesca Di Donato, per riportare la qualità nella ricerca “non basta cambiare il modo in cui si valuta”: occorre sviluppare un principio dell’accordo ARRA (pp. 3, 5, 6, 9) – quello di coinvolgere la comunità scientifica, incoraggiandola a “controllare collettivamente le infrastrutture necessarie per il successo della riforma.”
Vale però la pena ricordare che i quattro impegni fondamentali dell’accordo ARRA, riassunti qui a fianco, riguardano il come si valuta. Il coinvolgimento della comunità scientifica è fra gli impegni di sostegno ed è spesso formulato in modo da far pensare che questa possa offrire suggerimenti, di nuovo, sul come si valuta, dando per scontato chi valuta, e dunque la sua legittimazione e la sua assenza di conflitto di interessi. Come recita, per esempio, la spiegazione del punto 6.1 (in traduzione italiana a p. 17, corsivo aggiunto) “questo impegno garantirà che le autorità nazionali / regionali / organizzative e le agenzie di valutazione rivedano e, se necessario, sviluppino criteri per la valutazione delle unità e delle istituzioni di ricerca, in conformità con i Principi”.
2. Valutatori e valutati
L’origine dell’ Agreement on Reforming Research Assessment su cui si basa COARA ha poco a che vedere con Kant. È infatti esito di un’iniziativa che non nasce fra gli studiosi, bensì nella Commissione, con il sostegno del Consiglio dell’Unione Europea, quando la pandemia di Covid-19 mostrò anche ai più conservatori che una valutazione della ricerca basata sulla quantità di pubblicazioni e citazioni non garantisce, come tale, né accessibilità né qualità alla scienza.
Sebbene gli organi dell’Unione Europea abbiano fondato la loro iniziativa su numerosi studi, sia indipendenti sia su commissione, il loro intervento non ha preso di mira le infrastrutture, bensì la qualità della ricerca.
Per riconoscere la qualità di un’opera – ha ammesso l’Unione Europea – bisogna leggerla e comprenderla: per questo una valutazione che la prenda sul serio deve mettere in primo piano la revisione fra pari, compiuta dagli studiosi stessi, e usare la bibliometria in modo “responsabile”. E però il difetto della bibliometria – la pretesa di valutare la ricerca solo quantitativamente, senza leggerla e senza capirla – diventa una virtù, quando la valutazione, strappata alle comunità degli studiosi, è affidata ad agenzie governative centralizzate. La revisione fra pari – si dice – non può essere usata come arma di valutazione di massa perché non è scalabile. La bibliometria invece lo è, proprio perché esonera dalla lettura e dalla comprensione.
Come possiamo dunque sperare di eliminare o ridimensionare l’uso valutativo della bibliometria senza ridimensionare o eliminare le agenzie amministrative centralizzate – quali l’ANVUR italiana e l’ANECA spagnola – a cui il governo ha conferito il compito della valutazione di massa?
COARA, che pure non ammette gli editori scientifici commerciali per il loro evidente conflitto di interessi, non si è posta questo problema: non solo le agenzie statali di valutazione ne possono fare parte, ma possono addirittura sedere nel suo consiglio direttivo. Semplice distrazione o consapevole ambiguità?
Come riferisce Francesca Di Donato il secondo impegno di ARRA richiede che la ricerca sia valutata tramite la lettura e la discussione delle opere dei ricercatori. La revisione fra pari è dunque fondamentale, come parte di un dibattito scientifico pubblico che dovrebbe essere esso stesso oggetto di ricerca, allo scopo di “tenere il meccanismo efficiente e vitale”. Inoltre, il terzo impegno patrocina una “misurazione responsabile”, che prenda congedo “dagli usi inappropriati di indicatori come il fattore d’impatto delle riviste e l’indice H”.
A chi è destinata la ricerca sul dibattito scientifico? Alla riflessione della comunità scientifica o ai valutatori amministrativi per sperimentazioni behavioristiche incorpore vili? Come racconta Melinda Baldwin, negli USA la revisione paritaria chiusa in doppio cieco divenne marchio di scientificità per motivi politici: l’esibizione della procedura permise di sfuggire allo scrutinio del Congresso sui finanziamenti pubblici alla ricerca. Questo arrocco – nella veste di una versione procedurale dell’ipse dixit – non è stato privo di conseguenze, e non solo in termini di conformismo.2 Ma una cosa è un’autocritica della comunità scientifica sul proprio uso pubblico e privato della ragione, un’altra è che funzionari o studiosi-funzionari ne facciano un impiego amministrativo, coinvolgendo, o no, i ricercatori semplici.
3. “Negazionismo bibliometrico”
A chiarire la posizione di COARA, o, almeno, di chi la guida, ha aiutato la recente accusa di “negazionismo bibliometrico”, a cui Luciana Balboa, Elizabeth Gadd, Eva Mendez, Janne Pölönen, Karen Stroobants, Erzsebet Toth Cithra e l’intero consiglio direttivo di COARA si sono affrettati a rispondere cosi:
Usare solo la scientometria per valutazioni a livelli di granularità più bassi, cioè per la valutazione degli individui, che comprende scopi importanti quali l’assegnazione di riconoscimenti (finanziamenti, posti di lavoro), è altamente problematico. In casi come questi si dovrebbe preferire la revisione paritaria.
Tuttavia
l’uso della scientometria a livelli di aggregazione superiori, come quello nazionale o universitario, e per forme di valutazione meno importanti come la conoscenza scientifica, è molto meno problematico (anche se ancora imperfetto).
La loro risposta mostra anche la consapevolezza della difficoltà di tener confinata la bibliometria a livelli superiori. Un ricercatore che si trova a lavorare in un’istituzione valutata e finanziata con criteri quantitativi sarà spinto a orientarsi bibliometricamente, a dispetto di tutti gli impegni a farne un uso responsabile.
Resta il fatto che una dipendenza eccessiva da una scientometria pur responsabile può comunque avere un impatto negativo, per trascinamento, sull’ecosistema della valutazione della ricerca. Un uso legittimo della bibliometria per comprendere l’attività a livello di paese può velocemente estendersi ai criteri di promozione, se, a livelli di aggregazione superiori, si associa alla valutazione bibliometrica un riconoscimento troppo grande.
La risposta rende chiaro che COARA non intende eliminare le armi di valutazione di massa e le agenzie statali che ne fanno uso, bensì solo limitarne il danno. Quanto all’effetto trascinamento (trickle-down) la soluzione – si dice – può essere il principio 9 del Leiden Manifesto for the responsible use of bibliometrics, il quale suggerisce di adottare “un insieme di indicatori” invece che “uno solo”, in modo da render difficili la manipolazione (gaming) e la trasformazione dell’indicatore in obiettivo.
Se non ci accontentiamo di soluzioni “soluzioniste”, dobbiamo però ricordare che è così facile manipolare il sistema perché gli indicatori bibliometrici sono connessi solo ortogonalmente alla qualità della ricerca, anche se sono indispensabili alle burocrazie valutatrici centralizzate, munite o meno di programmi per computer, perché incapaci di leggere e comprendere la scienza non solo come è scritta, ma anche com’è fatta. I ricercatori non sono necessariamente più truffaldini del resto della popolazione: semplicemente, sono esposti alla tentazione di truccare il sistema per amor di carriera o di mera sopravvivenza accademica proprio perché sottomessi a criteri di valutazione che non afferrano la sostanza della scienza. La prima manipolazione del sistema, in altre parole, è il sistema stesso.3
E il sistema è anche, letteralmente, un sistema di sottomissione: chi guida COARA si è sentito in dovere di rispondere a critici che non parlano come ricercatori che si rivolgono a colleghi, ma con i toni del padrone, o del consulente del padrone, che vede gli studiosi come risorse il cui uso va ottimizzato.
Nel ventunesimo secolo, patrocinare una valutazione della ricerca basata sulla revisione paritaria invece che su metodi scientometrici appare obsoleto e controproducente. Da decenni si va perseguendo una costante innovazione tecnologica trainata dalla necessità di ottimizzare risorse limitate quali gli scienziati. La ricerca scientometrica conduce a soluzioni più efficienti ed economiche per valutare la ricerca e soddisfare le esigenze degli utenti.4
Anche se COARA, come pare, mira solo alla riduzione del danno, l’ammissione delle agenzie di valutazione non solo alla coalizione ma al suo stesso consiglio direttivo mette a rischio pure questo modesto obiettivo: le agenzie di valutazione di massa, avendo bisogno di armi di valutazione di massa, portano con sé un enorme conflitto di interessi, che può condurre – come mostra il caso italiano5 – l’intrapresa al fallimento.
4. Qualità e libertà
La valutazione fra pari, anche in COARA, è legata, come discussione idealmente libera e accessibile, alle pratiche della scienza aperta – pratiche che numerose istituzioni politiche si sono date la pena di definire e raccomandare. In un ambiente addomesticato dalla valutazione amministrativa questi interventi inducono a trattare l’open science come uno dei tanti adempimenti richiesti agli addetti alla ricerca, spesso pensati senza neppure una particolare lungimiranza.
Per esempio, nel 2015 la Commissione europea rappresentava la scienza aperta (p. 33) così: “L’ Open Science è un cambiamento tanto importante e dirompente quanto l’e-commerce per la vendita al dettaglio”. Era già, allora, chiaro che il cosiddetto platform capitalism stava esponendo il web pubblico a privatizzazione,monopolio e sfruttamento: nel 2010 lo stesso inventore del web, Tim Berners-Lee, aveva già lanciato il suo allarme. Ma la Commissione europea inseriva spensieratamente nell’ecosistema della scienza aperta (p.39) piattaforme proprietarie come Academia.edu o Mendeley, acquistata da Elsevier nel 2013.
Oggi è diventato facile criticare la scienza di stato, quando viene stabilita per decreto oltreoceano. Ma non si tratta di qualcosa di nuovo, spuntato nottetempo come un fungo: anche se riducessimo a periferica la valutazione di stato italiana, non possiamo trattare come tale l’interferenza dell’Unione Europea nelle modalità e nelle valutazioni della scienza – a dispetto di un Kant molto invocato e poco letto.
La rivoluzione scientifica moderna, dal canto suo, non nacque da prescrizioni di monarchi e di despoti illuminati. Secondo Paul David, l’idea della scienza come bene comune, basata sulla collaborazione e finanziata da mecenati aristocratici, si radica in un mondo pre-capitalistico e assai meno burocratico. Se vogliamo allentare la morsa della burocrazia che priva la ricerca di qualità, non possiamo concepire l’apertura come un compito amministrativo. Infatti, l’obiettivo non è quello di devolvere risorse in pubblicazioni a pagamento per i profitti o le rendite private,6 ma di mantenere o ricreare le condizioni che consentono alle comunità scientifiche di curarsi della qualità del loro lavoro attraverso la collaborazione e la critica libera.
Nel linguaggio aziendale la qualità consiste in parametri rigorosamente definiti a cui si devono adeguare prodotti e processi. La qualità della ricerca, però, non essendo riducibile a standard amministrativamente accertabili, può essere meglio indagata a partire da un testo eccentrico: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motociclettadi Robert M. Pirsig.
Nel libro l’alter ego di Pirsig a Bozeman, Fedro, prova in primo luogo a trattare la qualità non come una questione teoretica, bensì pragmatica. Il docente abolisce i voti e chiede agli studenti di valutare i loro compiti da sé, giorno per giorno. Alla fine scopre che gli studenti tendono all’imitazione reciproca e dell’insegnante. Non è una sorpresa: se ci si affida alla pratica senza nessuna riflessione teoretica si otterrà soltanto una moda, i cui capricci sono imitabili ma irriducibili a concetto.
Paradossalmente, questo è anche il peccato originale della valutazione bibliometrica della ricerca: perché cercare l’inafferrabile e non scalabile qualità quando si può facilmente calcolare, tramite le citazioni, quanto va di moda?
Il metodo scientifico, per Pirsig, è il modo in cui esseri razionali ma finiti selezionano una singola (e forse provvisoria) verità tra molte ipotesi, pur senza essere in grado di afferrare la Verità in generale. E nell’uso di questo metodo – che è diverso dall’annotazione amministrativa dell’impatto di qualcosa che non ci si cura di capire – si manifesta, di volta in volta e provvisoriamente, la qualità. Per cogliere il senso di questo processo, però, bisogna farne parte, cioè essere ricercatori e non burocrati che, più o meno “responsabilmente”, registrano l’“impatto” di qualcosa che rimane loro oscuro. Questa tesi non va interpretata come una mistica della ricerca: semplicemente, quando adottiamo criteri “statici” di qualità per valutazioni puntuali quali concorsi e assunzioni, dobbiamo essere consapevoli che non sono in grado di render giustizia all’intero processo, che non è statico ma dinamico.7
Per Kant l’economia interna dell’università richiede, in primo luogo, la libertà. I politici, da parte loro, dovrebbero occuparsi delle infrastrutture della ricerca e non del modo in cui i ricercatori la fanno. Caesar non est supra grammaticos.
Molti tecnocrati europei, quando si tratta di appellarsi ai “nostri valori”, amano o amavano presentarsi, a proposito o a sproposito, come kantiani. Ma l’accordo ARRA e COARA non possono dirsi tali se non propagandisticamente.
La Commissione europea scopre, sia pure in grave ritardo, che la valutazione quantitativa della ricerca produce quantità e non qualità.
Per risolvere il problema promuove una coalizione lasca di università, istituzioni di ricerca, società di studi e agenzie di valutazione, anche centralizzate, con lo scopo di riformare la valutazione della ricerca, come se il dominio della bibliometria e il danno alla qualità della ricerca fosse esito esclusivo di iniziative venute dai ricercatori, che vanno incoraggiati ad autocorreggersi.
Un politico kantiano avrebbe fatto esattamente l’opposto.
In primo luogo, avrebbe lasciato la valutazione della ricerca ai ricercatori.
In secondo luogo, avrebbe indagato sulle eventuali condizioni infrastrutturali – le buone strade, la buona moneta, lo snello diritto di cambio della citazione in epigrafe – che un’azione politica avrebbe potuto migliorare. E non avrebbe fatto fatica a scoprire che la bibliometria, come arma di valutazione di massa, è indispensabile dove la valutazione è amministrativa e centralizzata – come in Italia con l’ANVUR e in Spagna con l’ANECA. E avrebbe usato la sua autorità legislativa per eliminare o ridurre al minimo questo tipo di valutazione. “Quanto al resto, lasciateci fare!”
L’iniziativa politica europea si è invece concentrata, soluzionisticamente, sul come si valuta non solo senza chiedersi chi valuta, ma anche dando per scontata la legittimità delle agenzie di valutazione statali e soprattutto che queste, ammesso e non concesso che siano indipendenti, possano seriamente impegnarsi a minimizzare o abolire le armi – bibliometriche – di valutazione di massa e quindi a ridimensionare o abolire se stesse. Così il peccato originale della sovrapposizione di potere amministrativo e ricerca continua ad affliggere COARA, senza che l’UE, in veste di Unione Elusiva, abbia il cervello e il cuore di redimerlo.8
I. Kant, Il conflitto delle facoltà, AK VII, 19-20 n2, traduzione di Domenico Venturelli (Brescia : Morcelliana, 1994), con qualche modifica. ↩︎
“Rather than serving as a scientific certification process, administrative evaluation functions as a mechanism for ascribing value to research outputs and contributions based on criteria established by administrative or policy authorities”: Alberto Baccini, COARA will not save science from the tyranny of administrative evaluation, https://arxiv.org/abs/2408.05587v3, 2025, §6. ↩︎
Per esempio la discussione fra matematici può essere documentata da pubblicazioni che in passato erano riviste e ora, come mostra il caso Perel’man, un archivio istituzionale ad accesso aperto. ↩︎
Anche perché i suoi consulenti più rispettati, ancorché non eletti (The Future of European Competitivenss: A competitiveness strategy for Europe (Part A) 2024), deplorando che poche università europee raggiungano “top levels of excellence” (eccellenza misurata, a dispetto di COARA, sulla base del volume di pubblicazioni in “top academic journals”, p. 24) e pesando il valore della ricerca pubblica in base alla sua capacità di privatizzarsi in brevetti (p.25), trattano i ricercatori come risorse da spremere per estrarne “innovazione” (p.24) senza mai chiedersi se a renderli conformisti non sia proprio la servitù amministrativa a cui sono sottomessi. ↩︎
L’articolo che Paola Galimberti offre alla revisione paritaria aperta parla di occasioni perdute, vale a dire di alluvioni di parole a cui raramente sono seguiti fatti.
A parole ci sono stati molti impegni declaratori, alcuni dei quali precoci come l’adesione del 2004 alla dichiarazione di Berlino sotto il patrocinio della Crui, altri tardi e parziali, come l’anomala legge del 2013 sull’accesso aperto e un piano nazionale per la scienza aperta privo di finanziamenti e infrastrutture di sostegno.
La pratica della scienza aperta richiede tempo e competenze specifiche, scelte consapevoli e supporto adeguato. Se i ricercatori non riescono a vedere il vantaggio di questa gestione onerosa (ad esempio in termini di riconoscimento), se le istituzioni non mettono loro a disposizione competenze e strumenti, è difficile che ci si applichino e vi aderiscano.
Nel nostro Paese le molte premesse per uno sviluppo normalizzato della scienza aperta ci sono state e ci sono ancora. Si tratta solo di implementarle in maniera consapevole, e il National chapter di COARA potrebbe forse essere un primo passo.
Dopo vent’anni, però, dovremmo chiederci se la questione della scienza aperta italiana sia riducibile a un problema amministrativo che istituzioni e funzionari più consapevoli e illuminati saprebbero risolvere, e considerare l’ipotesi che il suo seme non abbia attecchito semplicemente perché fin dall’inizio è stato piantato solo un simulacro di pietra da esibire in eventi cerimoniali e declaratori. Come mai l’unico accesso aperto normalizzato è quello, programmaticmente conservatore, di contratti “trasformativi” solo in senso ironico? Come mai istituzioni che per la scienza aperta non sono andate molto oltre le dichiarazioni hanno invece collaborato con zelo a una riforma del sistema che ha condotto a una compressione selettiva e cumulativa degli atenei italiani, a una crescente e insopportabile precarizzazione e gerarchizzazione dei ruoli accademici e a una valutazione di stato centralizzata e ferocemente bibliometrica – a dispetto dell’articolo 33 della costituzione?
La presenza di iniziative che nascono dal basso, da pochi studiosi e istituzioni, mostra che, perfino sotto una valutazione di stato pervasiva e autoritaria, chi è strutturato nell’università italiana e vuole fare scienza aperta la fa, pur su scala artigianale e rinunciando a ciò che normalmente passa per potere e prestigio. Galileo Galilei seppe cogliere l’occasione che la stampa gli offriva per pubblicare il suo Sidereus Nunciussenza bisogno, e anzi contro, il Sant’Uffizio. E già alla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso il World Wide Web, il software libero e le licenze Creative Commons offrivano l’occasione di aprire la scienza a chi avesse voluto fare uso pubblico della ragione: e ci fu chi fu capace di coglierla, senza bisogno di corsi di formazione ad hoc.
La via amministrativa alla scienza aperta con le sue dichiarazioni, pianificazioni, incentivazioni e monitoraggi sembra una scorciatoia inevitabile in un’università burocratizzata come quella, prima che neoliberale, moderna. E lo è: ma porta da tutt’altra parte. Gli amministratori suddividono arbitrariamente la ricerca in elementi discreti: “prodotti”, dati, pubblicazioni, sedi editoriali, impatti calcolabili in termini di citazioni su riviste o anche su media sociali. E a questi elementi associano castighi e premi, necessariamente rivolti a “masse uniformi e obbligate”. La scienza (aperta), invece, è difficile da tradurre in adempimenti, perché, avendo a che fare con problemi ancora non del tutto risolti, non solo è metodo e processo, bensì metodo e processo esposti essi stessi alla discussione. La comunità scientifica, quando l’interesse è quello della scienza, può permettersi di essere anarchica. Al matematico russo Grigori Perelman, per far riconoscere un avanzamento di grande importanza, bastò l’ArXiv e una comunità scientifica attenta.
Wilhelm von Humboldt, in un frammento incompiuto e per molti decenni abbandonato in un archivio, si era chiesto come fosse possibile inserire l’anarchia dei problemi ancora non del tutto risolti negli istituti di studi superiori, e aveva disegnato un progetto minimalista, isolato e fragile in un mondo che, dopo la Restaurazione, sarebbe divenuto molto diverso da quello immaginato dai riformatori prussiani. Le strutture italiane attuali, altrimenti impiegatizie, riposano su un sistema iperburocratizzato di premi e castighi, che difficilmente può ospitare gli spazi negativi della discussione della scienza (aperta) – anche se la relativa retorica rimane utile per una patina di legittimazione in continuità col passato. Perché mai convertirsi davvero alla scienza (aperta)? Perché mai tentare un simile salto nel vuoto? Perché allevare ricercatori amministrativamente e spiritualmente liberi dalle catene bibliometriche e dalla valutazione di stato, e dunque in grado di rifiutarsi di privatizzare il loro lavoro in brevetti, o di asservire perfino la ricerca di base a scopi commerciali1 o militari?
Come l’Occasione di Machiavelli, anche i ricercatori italiani tengono il piè sopra una rota: ma la loro non è la ruota del kairos bensì quella in cui certi piccoli animali domestici vengono fatti esercitare da chi li ha messi in gabbia: non porta da nessuna parte ma conforta, trasferendo ad altri il compito di stabilire il senso di tutto il loro girare.
A un programma informatico si assegna talvolta il nome della facoltà umana che si desidera implementare; così, osservava nel 1976 Drew McDermott, si ingannano molte persone, tra le quali in primo luogo se stessi, riguardo a ciò che il programma è effettivamente in grado di fare: “un programma chiamato ‘PENSARE'” – scriveva McDermott – “tende ad acquisire inesorabilmente strutture di dati chiamate ‘PENSIERI'”. L”espressione “intelligenza artificiale generativa” è un esempio di tale “mnemotecnica dei desideri”: induce infatti a dimenticare che si tratta di software che gira su computer e che generare output a partire da input è ciò che i software normalmente fanno.
L’interazione con tali sistemi non ha nulla a che vedere con l’interlocuzione con un essere umano. Quando immettiamo, quale input, una domanda – ad esempio, “Chi ha scritto I promessi sposi?” –, la domanda che stiamo effettivamente ponendo è un’altra: nel caso di questo esempio, è: “Data la distribuzione statistica delle parole nel corpus iniziale di testi, quali sono le parole – che gli utenti e i valutatori approverebbero maggiormente – che è più probabile seguano la sequenza “Chi ha scritto I promessi sposi?“”.
L’operazione che i generatori di linguaggio sono in grado di svolgere è il completamento automatico: producono testi pertinenti, rispetto agli input che ricevono, ossia testi sintatticamente e lessicalmente corretti, ma privi di intenti comunicativi. Simili sistemi sono dunque capaci di produrre linguaggio, in un senso molto ristretto e impoverito del termine, e, al tempo stesso, incapaci di pensare: non hanno accesso al significato in senso proprio, ossia alla relazione tra le forme linguistiche e qualcosa di esterno ad esse, non sanno ciò che scrivono, non ragionano, non sono capaci di astrazione e generalizzazione, non sono in grado di correggersi, non hanno il senso comune e la conoscenza sociale alla base della competenza linguistica umana. Sono “pappagalli stocastici“: producono parole senza conoscerne il significato e lo fanno sulla base di informazioni probabilistiche sul modo in cui le sequenze di forme linguistiche si combinano nei testi di partenza.
Per il resto, un testo costitutivamente inaffidabile, che richiede che l’utente del sistema si sobbarchi con altri mezzi l’intero lavoro di verifica, è utile quasi solo nei casi in cui chi dovrebbe scrivere non abbia voglia di scrivere e chi dovrebbe leggere non abbia intenzione di leggere, nei quali è perciò sufficiente che i testi somiglino, per struttura, lessico e sintassi, a ciò per cui li si spaccia (ad esempio, a un progetto europeo o un articolo scientifico), così da superare il test di una lettura distratta e cursoria.
I generatori di testo plausibile sono oggi utilizzati per le comunicazioni burocratiche, nei casi in cui sia previsto che i pochi punti essenziali, oggetto della comunicazione, siano affogati in una o due pagine di formule convenzionali. Di converso, chi riceve le due pagine chiede talora a un generatore di testo di estrarne i punti essenziali, senza alcuna garanzia che coincidano con quelli oggetto della comunicazione originaria. Nei casi di questo genere, sarebbe opportuno trarre le conseguenze delle analisi di David Graeber sui bullshit jobs e sugli “spacciatori di carta stipendiati“, anziché utilizzare sistemi informatici – tanto energivori da richiedere la riapertura di impianti nucleari dismessi – per moltiplicare le frasi che nessuno vuole leggere.
Talvolta, una sequenza di input e output è presentata come “una conversazione” con un generatore di linguaggio e utilizzata per attirare il pubblico. Nelle presentazioni delle iniziative di divulgazione scientifica, che pur dovrebbero contribuire alla diffusione di una conoscenza realistica, da parte dei giovani, delle nuove tecnologie, si trova a volte “un’intervista a ChatGPT“, con la citazione di output quali “È stato un piacere parlare con te e esplorare tutti questi argomenti! Sono felice che ti sia piaciuta l’intervista”. Con gli input a un software si ottiene di intravedere non, come nelle risposte a un’intervista, una persona in dialogo con noi, bensì, negli output del sistema – che ovviamente non può essere “felice” di aver parlato con noi – una mera “rappresentazione statisticamente astratta” di qualcosa che è già stato detto o scritto. E non si vede per quale ragione il pubblico dovrebbe aver voglia di leggere ciò che il curatore dell’iniziativa, per pigrizia o mancanza di idee, non ha avuto voglia di scrivere.
Perché, allora, i generatori di linguaggio sono stati diffusi e commercializzati come se potessero fornire testi affidabili e, addirittura, comprendere ciò che scriviamo, risponderci, ragionare, fornire informazioni e sostituire lavoratori in ogni ambito? L’origine della costellazione di narrazioni mendaci che hanno accompagnato la distribuzione dei generatori di linguaggio – dalla pubblicità ingannevole alle frodi in senso stretto – è da rintracciarsi nell’intreccio tra la concentrazione monopolistica delle risorse necessarie alla costruzione di tali sistemi e gli aspetti finanziari.
2. La bolla dell’“intelligenza artificiale generativa”
La cosiddetta “intelligenza artificiale generativa” richiede potenti infrastrutture di calcolo e enormi quantità di dati. Tra i soggetti privati, tali risorse sono nella disponibilità delle sole grandi aziende tecnologiche transnazionali che, in virtù di un modello di business fondato sulla sorveglianza, detengono l’accesso al mercato necessario per l’intercettazione di grandi flussi di dati e metadati individuali e le infrastrutture computazionali per la raccolta e l’elaborazione di tali dati.
Sui generatori di linguaggio si concentrano oggi grandi investimenti del capitale di rischio. A chi investa in capitale di rischio non serve che una tecnologia sia utile o che funzioni; serve soltanto che le persone credano che funzioni, per un tempo sufficientemente lungo da rendere possibile un ritorno sugli investimenti. In virtù del suo carattere intrinsecamente speculativo, il capitale di rischio si caratterizza per la propensione a generare bolle e si concentra in settori nei quali la macchina delle promesse funziona a pieno ritmo. Di qui, la decisione di presentare sistemi in grado di scrivere storie plausibili come sistemi in grado di comprendere, ragionare e fornire informazioni e di distribuirli come assistenti personali, amici artificiali, strumenti per parlare con i propri cari defunti, consulenti sanitari o consulenti legali, diffondendo stime fantasiose e interessate sulle automazioni prossime, i lavoratori sostituibili e gli enormi profitti previsti (“un’opportunità da 6 trilioni di dollari”, per citare Morgan Stanley).
Il pubblico è tratto in inganno dalla novità costituita dalla dissociazione di linguaggio e pensiero e dalla scelta deliberata, da parte delle aziende, di un design antropomorfo: di fronte a un software che scriva “io” o “mi dispiace”, le persone che non hanno idea di come quel programma informatico funzioni – come osservava Joseph Weizenbaum alcuni decenni fa, a proposito delle reazioni al suo chatbot, Eliza– se ne spiegano il funzionamento in analogia con le proprie capacità di comprendere e pensare.
Alimentando il mito del prompt e le narrazioni sul prompt engineering, le aziende fingono che gli utenti abbiano facoltà di controllo o decisione sugli output – purché apprendano la novella arte di comunicare, tramite incantesimi rituali, con le intelligenze aliene – e attribuiscono agli utenti la responsabilità per gli output, evitando così che le risposte inservibili o pericolose siano ascritte, come sarebbe ovvio, alla responsabilità dei produttori. Agli utenti, del resto, non si spiega neppure che i generatori di linguaggio rispondono spesso non ai loro input, ma a una occulta riformulazione di questi, in virtù di uno shadow promptingche si sostituisce agli input originari e con il quale le aziende mirano a intridere gli output di consigli per gli acquisti e tentano di evitare che siano generati testi che gli esseri umani giudicano tossici o discriminatori.
Mentre i CEO delle grandi aziende dichiarano pubblicamente che “va bene, per le persone sole, sposare il loro chatbot“, e, per le persone povere, farsi curare da ChatGPT, la distanza tra le fanfaronate pubblicitarie dei broligarchs e le effettive prestazioni dei generatori di linguaggio comincia oggi a dar luogo a qualche brusco risveglio. Che un sistema di IA generativa non possa svolgere i compiti di un lavoratore umano, né aumentarne la produttività non impedisce infatti a un’azienda di licenziare un lavoratore e sostituirlo con un sistema che non può svolgere il suo lavoro, né a un datore di lavoro di introdurre un sistema che fa solo perdere tempo ai suoi dipendenti, ma i malfunzionamenti e la perdita di produttività si palesano rapidamente. Secondo un’analisi recente, il 96% dei datori di lavoro è convinto che l’IA possa aumentare la produttività dei lavoratori, mentre il 77% di quei medesimi lavoratori sostiene che questi strumenti abbiano in realtà diminuito la loro produttività e aumentato il loro carico di lavoro. Anche gli esiti di un test commissionato dalla Securities and Investments Commission del governo austrialiano – che ha messo alla prova un sistema di IA generativa con il compito di sintetizzare le informazioni contenute in un documento – attestano che gli attuali sistemi di IA generativa appesantiscono il carico di lavoro, se utilizzati per produrre riassunti, “a causa della necessità di verificare i risultati, o perché il documento di partenza presentava effettivamente le informazioni in modo migliore”.
Le aziende che affidano a un generatore di linguaggio il compito di rispondere alle domande dei clienti scoprono, in tribunale, di essere responsabili anche delle risposte più stravaganti del loro chatbot e di dover onorare gli impegni contratti in tali testi sintetici, quand’anche in contrasto con i termini e le condizioni di un loro servizio da loro erogato.
Si diffonde così la constatazione che “modelli e strumenti di IA sembrano grandiosi”, quando “i ricercatori ne misurano il successo con i loro bizzari indicatori”, ma che simili indicatori non hanno alcuna validità di costrutto – non misurano cioè quello che si pretende stiano misurando – e dunque “le cose possono mettersi molto male” quando “clienti paganti provano questa tecnologia nel mondo reale”. Se ne è resa conto, ad esempio, tra le altre, una grande compagnia farmaceutica, che ha introdotto uno strumento di IA generativa e se ne è disfatta poco tempo dopo, avendo constatato che ciò che il sistema era effettivamente in grado di fare non erano che presentazioni con una “qualità da scuola media”.
Quanto all’impiego di sistemi di IA generativa in specifici ambiti, quali quello giuridico, che consentirebbero il riferimento a un corpus di testi definito, gli output di simili “assistenti legali” sono, al momento, in gran parte scorretti, ossia erronei in una percentuale di casi che va dal 58% all’88%. Il ricorso a sistemi di Retrieval Augmented Generation (RAG), che ancorino le risposte a testi prefissati, è un percorso di ricerca aperto, che produce tuttavia, ad oggi, sistemi inaffidabili, sia nell’ambito giuridico che, ad esempio, in quello medico (nel quale, peraltro, in virtù del bias dell’automazione, il livello di accuratezza del giudizio umano tende a precipitare anche quando si introducano sistemi ben più affidabili dei generatori di linguaggio).
I casi eclatanti di apparente successo tecnico dell’IA generativa appartengono in genere alla storia degli automi che sono in realtà esseri umani: nello spettacolo post mortem del comico George Carlin, presentato come opera di un sistema di IA “addestrato” sui testi dell’artista, il monologo comico era in realtà stato scritto da un essere umano. Nei settori tecnologici della cosiddetta “intelligenza artificiale”, pressoché interamente rivolti, dal punto di vista commerciale e industriale, alla sostituzione di compiti umani, è usuale millantare un’automazione ancora impossibile, secondo il motto della Silicon Valley che benedice le frodi (fake it until you make it): le auto commercializzate da Cruise come “a guida autonoma”, ad esempio, richiedevano in realtà la silenziosa assistenza di tre lavoratori ogni due auto, i quali intervenivano costantemente, al ricevimento di specifici segnali, per controllare a distanza i veicoli; e i supermercati senza casse di Amazon, “Just Walk out”, si reggevano, anziché sull”intelligenza artificiale”, come sostenuto da Amazon, sulle operazioni svolte a distanza da 1.000 lavoratori indiani (avvalorando la tesi secondo cui l’acronimo “IA” sarebbe da sciogliersi, più propriamente, come “Indiani Assenti”). Gli annunci delle automazioni possibili consentono in ogni caso, nei rapporti tra capitale e lavoro, di rafforzare il primo a danno del secondo, schiacciando la forza contrattuale dei lavoratori con la prospettiva di una loro generale sostituibilità.
Indotti da narrazioni ingannevoli a utilizzare i generatori di linguaggio per compiti che questi non possono svolgere, i singoli utenti diventano consapevoli della loro inaffidabilità per esperienza e a loro spese. Non stupisce, perciò, che l’espressione stessa “intelligenza artificiale”, quando compaia nella descrizione di un prodotto o di un servizio, induca oggi nei consumatori un sentimento di sfiducia e una diminuzione delle intenzioni di acquisto. Per forzare i consumatori a pagare per il nuovo “software as a service”, lo si introduce allora, unilateralmente, in servizi già esistenti e poi si annuncia, a sorpresa, un aumento esorbitante del costo dell’abbonamento ai medesimi, dovuto all’integrazione, non richiesta, dell'”IA generativa”.
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Nei casi in cui siano sufficienti formule convenzionali e non siano richiesti ragionamenti puntuali o informazioni corrette, i generatori di testo plausibile possono apparire all’altezza del compito. Non è detto, tuttavia, che gli ambiti dell’esperienza umana potenzialmente automatizzabili possano essere delegati a un software senza esserne del tutto snaturati. Google ha distribuito, in occasione delle Olimpiadi di Parigi, uno spot pubblicitario, intitolato “Cara Sydney”, in cui una bambina racconta al padre di voler scrivere una lettera a Sydney McLaughlin-Levrone, l’atleta che è il suo idolo e di cui sogna di battere il record; il padre, affinché la lettera sia “perfetta”, chiede a Gemini di scriverla per conto della figlia. Lo sconcerto collettivo che ha travolto Google, inducendo l’azienda al ritiro dell’annuncio pubblicitario, è ben sintetizzato, fin dal titolo, da un articolo sul Washington Post, Odio la pubblicità di Gemini “Cara Sydney” sempre di più ogni momento che passa:
Questa pubblicità mi fa venire voglia di tirare un martello contro il televisore ogni volta che la vedo. […] Personalmente, non sono una grande azienda, ma non credo che un buon modo di vendere il proprio prodotto sia quello di annunciare che succhierà via tutta la gioia di vivere. Mi godo la gioia di vivere. Non odio l’efficienza. Ma odio che non si colga il punto. […] Sapete cos’è la scrittura? È il pensiero in una forma che si può condividere con altre persone. È un metodo per portare i pensieri, le immagini e le storie fuori dal vostro cervello e metterli nel cervello di qualcun altro. […] Portare via la capacità di scrivere da soli significa portare via la capacità di pensare da soli. […] Questa è una pubblicità per le persone che pensano che sostituire i pasti con le pillole sia una prospettiva che riempie tutti di gioia, e che, se mai riusciremo a eliminare del tutto il sonno e la musica, sarà un trionfo grandioso.
Per la brama di trovare nuove collocazioni commerciali a prodotti incapaci di automatizzare le attività che chiunque delegherebbe volentieri a una macchina, le aziende tentano di colonizzare ambiti di attività che le persone amano svolgere, proponendo automazioni che, svuotando di senso tali attività, le annienterebbero. Nel recente spot Crush! di Apple, un’enorme pressa di metallo schiaccia, fino a distruggerli completamente, una tromba e, tra gli altri, un metronomo, un pianoforte, una chitarra, una pila di libri e quaderni, un manichino da disegno, alcuni barattoli di colori per dipingere e alcune macchine fotografiche; quando la pressa si solleva, al posto degli oggetti distrutti c’è soltanto un sottile iPad Pro. Le reazioni negative – “la distruzione dell’esperienza umana. Per gentile concessione della Silicon Valley”, ha scritto Hugh Grant – hanno indotto Apple a scusarsi pubblicamente, sospendendo le trasmissioni dello spot. E Samsung ha ritenuto utile prendere immediatamente le distanze da Apple, pubblicando un seguito, di segno opposto, dello spot incriminato, dal titolo Creativity cannot be crushed, nel quale una giovane donna recupera una malconcia chitarra, superstite dello spot di Apple, e comincia a suonarla, leggendo uno spartito da un dispositivo Samsung.
Rimane una domanda cruciale alla quale forse non avremo mai una risposta soddisfacente: e se l’hype fosse sempre stato rivolto al fallimento? E se il punto fosse stato quello di gonfiare le cose, entrare, fare profitti e consolidare le dipendenze infrastrutturali prima che la critica, o la realtà, avessero la possibilità di raggiungerle? […] l’hype di oggi avrà effetti duraturi, che limiteranno le possibilità di domani. Sfruttare l’hype sull’IA per spostare una parte ulteriore delle nostre infrastrutture verso il cloud aumenta la dipendenza dalle aziende del cloud, e su questo sarà difficile tornare indietro, anche se le promesse gonfiate dell’IA verranno smentite.
Tra i clienti da abbindolare e prendere in ostaggio prima possibile, ci sono senz’altro – per il volume di risorse finanziarie gestite, la gamma di attività di cui prospettare l’automazione e gli ambiti della vita privata sui quali estendere e consolidare le pratiche di sorveglianza – i governi e le istituzioni pubbliche. Accade così, allo stesso tempo, che McDonald’s constati che i sistemi di intelligenza artificiale non sono all’altezza, in questo momento, di prendere l’ordinazione di un hamburger – e sospenda perciò una sperimentazione che ha coinvolto oltre 100 punti vendita – e che nelle scuole italiane si dia avvio a sperimentazioni che investono simili sistemi del ruolo di “nuovo tutor per gli studenti“. Per comprendere un simile quadro, può essere utile chiedersi da quali aziende private provenga, oggi, la spinta a introdurre nelle istituzioni scolastiche e universitarie prodotti tecnologici immaturi e non funzionanti, con quali narrazioni e quale riconcettualizzazione del’istruzione le aziende accompagnino la promozione di tali prodotti e perché scuole e università cedano così facilmente, dimenticando la natura stessa della propria attività, ai nuovi venditori della “IA olio di serpente”, ossia di applicazioni che non funzionano (talvolta, semplicemente perché non possono funzionare).
3. Il valore dell’istruzione: le aziende e le narrazioni Edtech
Nel settore dell’istruzione, le Big Tech mirano a diventare Govtech, con il doppio ruolo di soggetti economici e di attori pubblici (animati da interessi e valori meramente privati). Si tratta di aziende che non vendono o non si limitano a vendere software al settore pubblico, ma che si appropriano di attività e “informazioni pubbliche e le trasformano in prodotti proprietari”. Poiché lo scopo delle aziende tecnologiche è estrarre valore dai servizi e dai dati, il loro ingresso sostituisce la finalità originaria dell’istruzione pubblica con gli obiettivi aziendali.
Ad oscurare questa ovvietà – con un immaginario che ammanta delle vesti di un messianesimo fantascientifico la mercificazione dell’istruzione e degli stessi studenti – provvedono, per conto delle Big Tech, i brokers Edtech, “organizzazioni che operano tra l’industria delle tecnologie per l’educazione, le scuole pubbliche, i centri di ricerca e i governi, guidando le scuole nell’acquisto e nell’uso pedagogico” di tali tecnologie. Quasi fossero esperti in materia di tecnologia e, al tempo stesso, di pedagogia, anziché meri portavoce delle aziende tecnologiche, i brokers “danno forma alle ‘prove’ che vengono prese in considerazione” e “introducono metriche di ‘impatto’ e di ‘ciò che funziona’” nell’ambito dell’istruzione, diffondendo – anche quanto al ruolo dei docenti – gli immaginari più opportuni a sostenere la colonizzazione, da parte dei monopoli della tecnologia, delle istituzioni scolastiche.
Tra le narrazioni più diffuse, si trovano quelle descritte brevemente di seguito.
3.a.L’idea che la sorveglianza sia una forma di cura: poiché la cosiddetta “intelligenza artificiale” è il derivato di un modello di business basato sulla sorveglianza, le grandi aziende tecnologiche presentano la sorveglianza come un’attività di cura, dagli intenti benevoli e dagli effetti benefici. Con la promessa di un’automazione del controllo, della valutazione e dello stesso insegnamento, si introduce un monitoraggio puntuale e pervasivo di ogni singola porzione delle attività degli studenti; qualsiasi situazione didattica diviene così, anzitutto, l’occasione per l’impresa commerciale di estrarre dati e metadati individuali e di instillare, negli studenti, l’abitudine a essere oggetti di una sorveglianza permanente. Con la medesima concezione carceraria che caratterizza le città “smart”, i dispositivi di sorveglianza nelle scuole sono presentati, contro ogni evidenza, anche come strumenti per garantire la sicurezza. Dati e metadati degli studenti – raccolti a loro insaputa e in spregio a qualsiasi forma di dissenso – sono combinati e associati tra loro, utilizzati per trarne “inferenze” e ceduti a un numero sterminato di terze parti, di cui, come ha constatato di recente anche la Federal Trade Commission statunitense, le stesse Big Tech non riescono neppure a tener traccia.
La storia dell’Edtech può essere fatta risalire agli anni ’50 e al lavoro di B.F. Skinner, psicologo comportamentale di Harvard. Ha certamente costruito “macchine per insegnare”, ma è probabilmente più noto per il suo lavoro sull’addestramento dei piccioni.
Purtroppo, sosteneva che l’addestramento dei piccioni fosse simile all’insegnamento agli studenti. Pensava che se avessimo ridotto il contenuto all’oggetto più piccolo possibile e avessimo presentato quell’oggetto un po’ alla volta agli studenti, in modo che ogni volta che gli studenti procedevano in una lezione, trovassero sempre la risposta giusta, il costante rinforzo comportamentale positivo avrebbe portato al successo. Vi suona familiare?
L’attrattiva dell’apprendimento personalizzato è evidente, ma spesso prende il programma di studio richiesto, che è ancora standardizzato e uguale per tutti, e si limita a presentarlo agli studenti perché lo affrontino ciascuno con il proprio ritmo.
Proprio così, in effetti, scrive Sam Altman, CEO di OpenAI:
Non accadrà tutto in una volta, ma presto saremo in grado di lavorare con l’IA che ci aiuterà a fare molto di più di quanto potremmo mai fare senza l’IA […]. I nostri figli avranno a disposizione tutor virtuali in grado di fornire un’istruzione personalizzata in qualsiasi materia, in qualsiasi lingua e con il ritmo di cui hanno bisogno.
La concezione dello studente-piccione è in genere accompagnata, e mascherata, dall’antropomorfizzazione della macchina docente del momento. In un post intitolato Perché l’IA salverà il mondo, con un ottimismo pari solo al capitale di rischio che la sua azienda ha investito nel settore, il multimiliardario Marc Andreessen scrive:
Ogni bambino avrà un tutor di IA infinitamente paziente, infinitamente compassionevole, infinitamente competente e infinitamente disponibile. Il tutor di IA sarà al fianco di ogni bambino in ogni fase del suo sviluppo, aiutandolo a massimizzare il suo potenziale con la versione meccanica dell’amore infinito.
Su simili antropomorfizzazioni si fonda la pretesa che i dispositivi per l’apprendimento personalizzato abbiano un carattere liberatorio, giacché scioglierebbero gli studenti da “tutte le restrizioni insopportabilmente opprimenti dell’apprendimento in gruppo” e renderebbero “fattibile un modello educativo 1:1”. In realtà, non c’è alcuna relazione di uno a uno. C’è una sola persona, lo studente, che dovrebbe imparare qualcosa, entro una situazione desocializzata, da un software che estrude stringhe di testo probabili.
Quando la personalizzazione della didattica sia perseguita attraverso l’uso di sistemi di apprendimento automatico, la natura statistica di tali sistemi fa sì che abbia sempre luogo una predizione omologante, non una personalizzazione. Si procede infatti raggruppando i singoli individui in classi e assumendo che tutto quello che è accaduto in passato si ripeterà e che le persone si comporteranno in modo analogo a quelle classificate come simili a loro. Se la previsione è utilizzata per determinare ciò che sarà mostrato a ciascuno studente, la cosiddetta previsione «personalizzata» è, come ha scritto Edward Snowden, “una sorta di profezia digitale che è solo leggermente più accurata rispetto a metodi analogici come la lettura della mano” e costituisce in realtà, a partire dall’omologazione del singolo alla classe alla quale lo si è ascritto, un meccanismo di manipolazione.
Quanto al cosiddetto “gemello digitale” (digital twin) del docente – un generatore di linguaggio ricalibrato statisticamente per estrudere stringhe di testo anche in virtù della distribuzione delle parole nei testi di un determinato docente – la metafora biologica non è che un esempio di “mnemotecnica dei desideri”. Il fatto che possa essere utile agli studenti avere la completa attenzione di un adulto, e in particolare di un docente, dovrebbe indurre a maggiori assunzioni di personale docente e a una valorizzazione del ruolo didattico, non certo a considerare equivalente a tali investimenti la garanzia, a ogni studente, della completa “attenzione” di un occhiuto software proprietario.
3.c. Il soluzionismo tecnologico: le promesse del “tutor” artificiale e del gemello digitale del docente si fondano sull’assunto soluzionista che la didattica sia una questione tecnica, un problema individuale che possa essere risolto con uno strumento tecnologico, anziché una relazione tra esseri umani e una questione pubblica. Analogamente, secondo la prassi consolidata delle aziende, di proporre, a esclusivo vantaggio dei propri profitti, “micro-soluzioni a macro-problemi“, si sostiene che il problema dell’abbandono scolastico possa essere risolto, come per i macchinari nelle fabbriche, con una manutenzione predittiva.
Nel 1985, a un’intervistatrice che gli chiedeva quale ruolo, secondo lui, avrebbe dovuto avere il computer nell’istruzione, Joseph Weizenbaum rispose che avrebbe espresso la sua reazione indirettamente, attraverso una barzelletta russa:
Due persone sono in coda in una lunga fila per il pane a Mosca, e stanno parlano del fatto che il raccolto è andato male, ancora una volta, e che c’è perciò carenza di pane, e uno di loro dice all’altro: “Sai, è tutta colpa degli ebrei e dei ciclisti”. L’altro dice: “Perché i ciclisti?” e il primo risponde: “Perché gli ebrei?”.
Lei avrebbe potuto dire: “Qual è il ruolo dei computer e delle biciclette nell’istruzione?”. E io avrei detto: “Perché le biciclette? e Lei: “Perché il computer?”.
Weizenbaum constatava che la tendenza a prendere le mosse “dallo strumento” – assumendo tacitamente che fosse “utile per qualcosa nell’ambito dell’istruzione, che fosse la soluzione a qualche problema educativo” – e a cercare poi, per quella presunta soluzione, problemi concreti a quali applicarla, induceva a “coprire con qualche rimedio tecnologico” i reali problemi sociali che si manifestavano nella scuola e che richiedevano una soluzione politica e sociale. Se ci chiediamo perché Johnny non sappia leggere – osservava Weizenbaum – potremmo scoprire che Johnny ha fame, quando arriva a scuola, o che a casa non ha alcuna possibilità di leggere.
In un sistema scolastico solido, in grado di assolvere i suoi compiti fondamentali, osservava Weizenbaum, si può anche pensare a introdurre qualche elemento nuovo: i ricercatori “dovrebbero certamente lavorare sull’istruzione innovativa, compresa quella assistita dal computer. Ma non dovremmo usare intere generazioni di studenti come cavie”.
Alla tesi dell’inevitabilità della tecnologia, espressa con la formula ricorrente “se non lo faremo noi, lo farà qualcun altro”, Weizenbaum rispondeva con l’invito a saggiare la liceità morale dell’applicazione di un simile principio (“se non rubo io i soldi all’ubriaco addormentato, lo farà qualcun altro”). La reificazione di singoli sistemi, e la loro identificazione con la tecnologia tout court era assimilata da Weizenbaum a un espediente per nascondere gli attori umani, i loro interessi e la loro responsabilità, mettendo a tacere le domande di giustizia.
Le constatazioni di Weizenbaum valgono oggi, inalterate, per l’introduzione affrettata della cosiddetta “intelligenza artificiale generativa” nei sistemi di istruzione, che risponde agli interessi dei monopoli della tecnologia, anziché all’interesse pubblico.
Un responsabile dell’istruzione pubblica scolastica o universitaria, quale dirigente o quale docente, che abbia coscienza di sé e del proprio ruolo professionale, non cadrà vittima della retorica dei broligarchs sull’impreparazione dei docenti ad adeguarsi alle nuove tecnologie, sulla necessità di intraprendere la “transizione digitale” e di precipitarsi, per non “restare indietro”, a trovare una collocazione qualsiasi ai sistemi di “intelligenza artificiale”. Si chiederà, invece: “transizione digitale” verso dove? Nell’interesse di chi? E di che genere: una digitalizzazione democratica e sovrana o, invece, autoritaria e coloniale? Ad evitare che dirigenti e docenti si pongano simile domande, concorre l’idea che i sistemi tecnologici siano meri strumenti.
3.d. L’idea della neutralità delle piattaforme “educative”: a grandissimi soggetti privati sono oggi affidate piattaforme e infrastrutture critiche scolastiche e universitarie, quasi che una piattaforma, come scrive Maria Chiara Pievatolo, fosse “come un dato d’ambiente immodificabile che non può essere oggetto di scelta”. In realtà, come ha scritto Lawrence Lessig, il codice informatico è legge e chi scrive il codice decide quali valori incarnerà e quante e quali libertà concederà a ciascuno:
Il codice regola. Implementa valori, oppure no. Abilita le libertà o le disabilita. Protegge la privacy o promuove il controllo. Le persone scelgono come il codice fa queste cose. Le persone scrivono il codice. […] quando il governo si fa da parte, non è che nulla prenda il suo posto. Non è come se gli interessi privati non avessero interessi; come se gli interessi privati non avessero fini da perseguire. […] Quando gli interessi del governo vengono meno, altri interessi prendono il loro posto. Sappiamo quali siano questi interessi?
Gli artefatti hanno proprietà politiche: strutturano forme di vita e danno e tolgono potere e opportunità alle persone. Affidare alle opache piattaforme dei monopoli delle tecnologie di sorveglianza gran parte delle attività scolastiche e universitarie equivale a promuovere la trasformazione dell’istruzione e degli studenti in merci e ad assecondare, come osserva Simona Levi, “la “monocultura” digitale monopolistica che crea clienti imprigionati fin dalla più tenera età”. Come qualsiasi altra infrastruttura o attività di digitalizzazione, le uniche piattaforme per l’istruzione compatibili con uno Stato di diritto sono quelle basate sui diritti umani, “fin dalla progettazione e per impostazione predefinita”, e sul software libero, così che “anche il più piccolo attore dell’architettura democratica – cioè ogni persona – possa controllare, in modo disintermediato, l’uso e la destinazione dei contenuti che crea e dei dati che genera”.
4. Girelli, stampelle e ciuchini: gli omini di burro nei sistemi neoliberali
I progetti che prevedono l’introduzione di un sistema di IA generativa “come nuovo tutor per gli studenti” sono talvolta illustrati da foto nelle quali gli alunni rivolgono lo sguardo verso un robot antropomorfo, seduto a un tavolo insieme a loro. In realtà, gli studenti seduti al tavolo con un robot sono in compagnia di una persona intelligente quanto lo sarebbero se fossero seduti accanto a un giradischi. I meccanismi di antropomorfizzazione che sfruttano l‘effetto Elizaconsentono di far apparire l’assenza di docenti, a quel tavolo, come un’innovazione scintillante, oscurando il riduzionismo e la deumanizzazione alla base di simili operazioni.
Per gli studenti, affidarsi a un sistema che produca testo convincente e inaffidabile non può che avere effetti “degenerativi”. Imparare a comprendere e parafrasare una soluzione non può sostituire l’imparare a trovarla da soli e, come recita un vecchio adagio, scopriamo che cosa pensiamo solo dopo averlo scritto. L’attività di scrivere non consiste infatti nella “trascrizione di pensieri già presenti in modo cosciente” nella nostra mente; chiunque abbia scritto qualche pagina, sa che “il pensiero emerge dalla scrittura”, ossia che “il processo stesso della scrittura conduce a pensieri prima impensati”. Delegare a un sistema informatico la scrittura, in età scolare, anche “solo” come supporto, equivale – con una metafora kantiana – a “non muovere un passo fuori dal girello da bambini” in cui si è stati ingabbiati, a utilizzare “strumenti meccanici” come “ceppi di una permanente minorità” e a restare così incapaci “di servirsi della propria intelligenza”, non avendo mai affrontato la fatica e le cadute che comporta “metterla alla prova”.
Come osserva Maria Ranieri, “aspetti educativi fondamentali, quali la promozione dell’autonomia degli studenti, la facilitazione dei processi di comprensione critica e la creazione di un clima di classe positivo e di fiducia” sono intrinsecamente incompatibili con l’automazione, l’opacità e il mimetismo. Non stupiscono, perciò, gli esiti di una ricerca recente, secondo la quale “l’IA generativa può danneggiare l’apprendimento“: gli studenti ai quali era stato dato un accesso a GPT-4 hanno mostrato, nel periodo in cui utilizzavano il chatbot, prestazioni migliori, ma, non appena questo accesso è stato loro precluso, hanno ottenuto risultati peggiori di coloro che non avevano avuto mai accesso a GPT-4; è stato come se, anziché imparare a camminare, avessero imparato a procedere appoggiandosi a una “stampella”.
Per le grandi aziende tecnologiche, l’aspetto cruciale è la riconcettualizzazione delle attività umane da automatizzare nei termini di ciò che il software del momento è in grado di fare. Per distribuire in ogni istituzione scolastica e universitaria estrusori di stringhe di testo probabili, occorre dare per scontato che l’attività dei docenti e degli studenti consista nel mero scambio di stringhe di testo, entro processi di addestramento riducibili a input e output prevedibili e misurabili, e che l’attività accademica consista nella produzione di un certo di numero di testi dalle caratteristiche prefissate, riproducibili attraverso modelli statistici della distribuzione della parole in set di testi di partenza.
Ovviamente, ciò che accade nelle aule scolastiche e nelle università può essere descritto anche come uno scambio di stringhe di testo. Ridurlo a questo, però, comporta una completa incomprensione della natura dell’insegnamento, dell’apprendimento e dell’attività di ricerca. La scienza procede per semplificazioni della realtà – ricordava Joseph Weizenbaum riprendendo Aldous Huxley – delle quali la prima è l’astrazione: gli scienziati si concentrano “esclusivamente sugli aspetti misurabili di quegli elementi dell’esperienza che possono essere spiegati in termini di un sistema causale” e “questo modo strano ed estremamente arbitrario” di agire è giustificato, purché non si assuma che “quegli aspetti dell’esperienza che gli scienziati tralasciano, perché incompetenti ad affrontarli”, siano “in qualche modo meno reali degli aspetti che la scienza ha scelto arbitrariamente di estrarre dalla totalità infinitamente ricca dei fatti dati.”
Alle Big Tech occorre invece proclamare la tesi estrema e riduzionistica che ciò che è in grado di fare il loro software non sia una mimesi o una “parodia“, come scriveva Weizenbaum, dell’attività umana da automatizzare, ma che equivalga essenzialmente ad essa. Il CEO di OpenAI, ad esempio, scrive:
Io sono un pappagallo stocastico, e lo sei anche tu
La pubblicità ingannevole, tuttavia, non è un fenomeno nuovo e scuole e università sono istituzioni solide e antiche; quanto alle circonvenzioni di incapaci, quale la truffa di vendere un software probabilistico presentandolo come un’intelligenza aliena, perché scuole e università sono trattate come i primi incapaci a cui rivolgersi? Perché le istituzioni scolastiche e universitarie non respingono come ridicola la frode delle Big Tech e non si occupano, invece, di proteggere i diritti dei loro studenti, anzitutto dalla sorveglianza? Perché, anzi, si affrettano, con la paura di restare indietro, ad amplificare gratuitamente la propaganda sulle tecnologie più care ai capitali di rischio e a introdurre generatori di linguaggio nelle scuole e nelle università, “a supporto” degli studenti? Perché la propaganda delle grandi aziende coincide con l’immagine che la scuola e l’università neoliberali hanno già di se stesse, come di aziende che producano beni e che perseguano obiettivi misurabili.
Ben prima della realizzazione dei generatori di linguaggio, a scuole e università è stato chiesto di dare agli studenti competenze (skills) “spendibili” nel mondo del lavoro, entro una cornice narrativa per cui dalle skills dei lavoratori dipenderebbero l’impiegabilità e il reddito dei medesimi. In realtà, come ha scritto Meredith Whittaker, la competenza è un “riflesso degli imperativi e del giudizio del capitale, non della persona che esegue il lavoro o della natura del lavoro stesso” e l’ossessione per la parcellizzazione delle attività dei lavoratori in unità misurabili rispondeva, già entro la concezione schiavistica delle piantagioni, ai soli obiettivi del disciplinamento e del controllo automatizzati e della soggezione e intercambiabilità dei lavoratori. Con la “mercificazione dell’attività cognitiva“, dell’apprendimento e dei suoi esiti, si sono introdotti test e indicatori quantitativi per valutare la qualità della didattica, inducendo così docenti e studenti, anziché a insegnare e a studiare, a dedicarsi all’allenamento sui test. E adesso, chi ha sperimentato da più tempo questa gouvernance par les nombres, scopre che il suo esito, per gli studenti addestrati ad acquisire skills a forza di test, è l’incapacità di affrontare il compito inusitato di leggere un libro intero.
Nelle università, la valutazione bibliometrica della ricerca ha fatto apparire sensata la tesi che si possano valutare le opere di un ricercatore senza averle lette – e che basti invece computarne il numero, le sedi di pubblicazione o il numero di citazioni ricevute – e ha spinto gli studenti alla “competitività, alla produttività, al publish or perish“. Nell’università neoliberale, un generatore di linguaggio appare utile, per l’attività di ricerca, perché quell’attività è stata già riconcettualizzata, da chi la valuta, come la mera generazione di testi qualsivoglia. Poiché anche i giudizi dei revisori anonimi non sono, entro questa concezione, che stringhe di testo, anch’essi sono facilmente automatizzabili. Così, il sistema stesso della scienza, inondato da decine di migliaia di falsi articoli scientifici pubblicati in riviste accademiche, attraversa ora una crisi di credibilità così grave da rendere difficile, ormai, in molti campi, “un approccio cumulativo a un argomento, perché manca una base solida di risultati affidabili”.
Con “intelligenza artificiale”, come osservano Dagmar Monnet e Gilbert Paquet, si intende “essenzialmente una forma di automazione e l’automazione è la sostituzione del capitale al lavoro”. L’obiettivo in virtù del quale gli interessi dei governi neoliberali convergono con quelli delle grandi aziende “non è quello di migliorare l’istruzione, ma quello di renderla efficiente in termini di costi”. Con la promessa di automatizzare l’istruzione, non si ottiene che di automatizzare l’austerità, nel settore dell’istruzione, trasferendo risorse dalle spese per i docenti alle casse delle Big Tech, con un taglio netto alle risorse complessive dedicate all’istruzione. Come dichiara apertamente il Tony Blair Institute for Global Change – mentre prendono avvio nel Regno Unito le attività nella prima classe priva di docenti, interamente affidata all’IA – l’introduzione dell’IA è un mezzo, per i governi, “per fare di più con meno“.
Le traiettorie di sviluppo di una tecnologia non sono inevitabili. Sono oggetto di scelte che possono essere oligarchiche o democratiche, orientate alla sostituzione dei lavoratori, alla sorveglianza e al controllo sociale oppure a una progettazione che crei valore, anziché estrarlo, e che valorizzi il lavoro umano, anziché parcellizzarne l’esecuzione a fini di controllo. “Pigrizia e viltà”, scriveva Kant nel 1784, “sono le cause per le quali tanta parte degli esseri umani” resta volentieri nell’incapacità di servirsi del proprio intelletto. Pigrizia e viltà inducono anche a fingere di aver letto e valutato un testo, o di averlo scritto, quando ci si è limitati invece ad ottenere da un software un testo plausibile. E pigrizia e viltà possono far sì che si inducano gli studenti a fare altrettanto, promettendo loro un Paese dei Balocchi – “quel paese benedetto” in cui “non vi sono scuole” e “non vi sono maestri” – in cui potranno scrivere senza aver pensato. Un’automatizzazione dell’istruzione che implichi l’annientamento dell’istruzione stessa e l’irrilevanza di scuole e università, sostituibili con azienda private che distribuiscano “contenuti personalizzati” non è inevitabile. Ad essa è possibile resistere, opponendole “l’orgoglio per il proprio lavoro, la totalità del proprio lavoro” e chiamando le cose con il loro nome. Serve, per ciò, quella sottovalutata virtù che Weizenbaum chiamava il “coraggio civile“:
È una credenza diffusa, ma tristemente erronea, quella per cui il coraggio civile trova modo di esercitarsi soltanto nel contesto di avvenimenti che scuotono il mondo. Al contrario, il suo esercizio più arduo ha spesso luogo in quei piccoli contesti in cui la sfida è quella di superare i timori indotti da futili preoccupazioni di carriera, delle nostre relazioni con coloro che sembrano aver potere su di noi, o di qualsiasi cosa che possa turbare la tranquillità della nostra esistenza quotidiana.
Chi invece, come l’omino di burro del romanzo di Collodi, inviti gli studenti nel Paese dei Balocchi dell’IA generativa, non ha nulla da temere, quanto alla spendibilità, nel mercato del lavoro, delle competenze dei futuri ciuchini: a vendere i suoi ciuchini “sulle fiere e sui mercati”, l’omino di burro “aveva fatto fior di quattrini ed era diventato milionario”; segno che, già agli occhi di Collodi, non era alle competenze e all’occupabilità che pensavano, Geppetto o la buona Fata, quando raccomandavano a Pinocchio di andare a scuola, e di studiare, se voleva diventare un ragazzino perbene.
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Come conciliare l’ideale dell’uguaglianza ancora scritto nelle costituzioni dei paesi cosiddetti occidentali con l’influenza di gerarchie sociali implicite sempre più rigide? Il bispensiero dell'”ugualitarismo gerarchico”, nel quale l’uguaglianza del socialismo ideale conviveva con la gerarchia del socialismo reale, veniva associato da Yuri Levada all’homo sovieticus. Lo ritroviamo, ora, anche nei regimi post-democratici?
L’individualismo metodologico non usa, e dunque non espone alla critica, modelli di configurazioni sociali collettive, quali le classi e le relative gerarchie, perché, tutt’al più, rappresenta le disparità come esiti spontanei di combinazioni di azioni individuali e non come costruzioni politiche. E per l’ideologia del merito queste configurazioni sono tali da permettere ai singoli di collocarvisi a seconda della loro capacità: ci sono “ascensori sociali” – volere è potere – per salire ai piani alti. Ma questa metafora suggerisce che la struttura della società – a piani e dunque gerarchica – sia un dato fuori di ogni discussione.
Brunella Casalini, nell’articolo che offre alla revisione paritaria aperta,2 si occupa dei pochissimi che riescono a prendere l’ascensore. Oggi, in Francia, numerosi lavori letterari e sociologici affrontano il tema dell’attraversamento delle frontiere di classe. Chantal Jaquet, in particolare, chiama questi viaggiatori, in modo assiologicamente neutro, “transclasse”. Nella prospettiva della teoria della riproduzione sociale di Bourdieu, per la quale i presunti ascensori, a partire dalla scuola, instillano e replicano le gerarchie esistenti, i transclasse sono eccezioni. Eccezioni, però, di straordinario interesse sociologico e letterario, perché il loro rapporto con le determinanti non solo economiche, ma anche affettive, culturali e simboliche nella costruzione delle identità di classe e con i confini che riproducono e conservano la gerarchia sociale offre un punto di vista inaccessibile da quelli che rimangono fermi ai piani, alti o bassi che siano.
A che possono servire questi studi? Possono certo legittimare la gerarchia sociale invisibili all’individualismo metodologico: se qualcuno riesce a salire allora vale il “volete è potere” e non il “potere è volere”. Possono, inoltre, essere la base di rivendicazioni di identità, entro un coacervo di minoranze che si rappresentano tutte come discriminate e pretendono diritti – o, meglio, privilegi – particolari per sé. Possono, poi, essere il punto di partenza di una critica politica – socialista o democratica che sia – alla struttura a piani della società, che la metafora dell’ascensore opportunamente nasconde. Possono, infine, permettere una discussione auto-critica sulla costruzione dei modelli sociologici – alcuni dei quali fanno vedere solo gli individui, il merito e la spontaneità, e altri invece le classi, il potere e il determinismo: perché li creiamo? Chi li crea? Per conto di chi? Che cosa vogliono sapere? Che cosa vogliono giustificare e che cosa no? E infine, e soprattutto: come sono possibili?
Proponiamo alla revisione paritaria aperta, fuori disciplina, il libro di Enrica Salvatori Il fegato del vescovo. Studi di confine sui confini della Lunigiana medievale. Infatti, mentre l’idea di rendere i commenti dei revisori parte della discussione pubblica, in modo da riconoscerne il contributo e da arricchire il dibattito scientifico trova già attuazioni importanti in Europa, chi cerca di praticarla in Italia deve sfidare una valutazione di stato della ricerca ancora amministrativamente incatenata ai limiti tecnici ed economici dell’età della stampa. Così chi, come l’autrice, desidera tentare un esperimento che altrove ha avuto luogo con successo più di un decennio fa deve accontentarsi di questa sede, certamente poco frequentata dagli storici del medioevo.
La versione in corso di stampa del testo è sottoposta a una revisione chiusa e anonima. Questo esemplare, invece, verrà discusso pubblicamente da alcuni esperti invitati, se accetteranno di farlo, e aperto ai commenti di chiunque desideri partecipare, secondo le regole consultabili qui. Per il loro uso, offriamo qui sotto un breve invito alla lettura preparato dall’autrice.
Il fegato del vescovo mette in luce le caratteristiche salienti del processo di costruzione dello Lunigiana dal medioevo ai giorni nostri. La sua ricerca indagine individua il periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo come il momento di elaborazione dei miti e delle narrative attualmente più diffusi e condivisi relativi a questo spazio, dando particolare attenzione al mito della distruzione di Luni conseguente a ipotetici attacchi normanni e saraceni. Le ricerche guardano all’uso e al rilievo effettivo del titolo comitale sfoggiato dal vescovo di Luni a partire dal XII secolo, all’estensione della sua signoria in rapporto alle altre realtà signorili del territorio e al formarsi del concetto di Lunigiana tra il tardo medioevo e la prima età moderna.
L’idea di una Lunigiana politicamente irrilevante ed economicamente arretrata perché frammentata e priva di un centro urbano dominante viene sostanzialmente ribaltata dalla considerazione che proprio la frammentarietà e il dinamismo dei dominati tra medioevo ed età moderna costituiscono i fattori che hanno formato il concetto di Lunigiana e soprattutto hanno plasmato il paesaggio che oggi è percepito come caratteristico della regione. Nell’ultima parte del volume i confini della Lunigiana sono stati indagati nel presente, tramite un questionario teso a capire in che modo i residenti e i visitatori non occasionali percepiscano la storia di questo territorio, portandoli a riflettere sulle ragioni che hanno contribuito alla formazione dell’identità delle comunità locali in una regione dai confini politico-amministrativi inesistenti.
Questo testo è stato scritto in occasione dell’evento Libri di donne: presentazione di opere di filosofe a cura di SWIP Italia, 15 maggio 2023, discussants: Brunella Casalini (Università di Firenze) e Fiorenza Toccafondi (Università di Firenze), moderatrice: Vera Tripodi (Politecnico di Torino), nella forma di una presentazione online del volume di Carlotta Cossutta (Scuola Normale Superiore, Pisa), Avere potere su se stesse. Politica e femminilità in Mary Wollstonecraft, Pisa, ETS, 2021.
La prima lezione che possiamo apprendere da questo bel lavoro di Cossutta è che si può e si deve tornare a leggere Wollstonecraft non solo in una prospettiva di storia del pensiero e delle idee politiche, ma anche in una chiave filosofico-politica intesa come riflessione critica sul presente. Questa scelta interpretativa poggia su una mossa critica fondamentale che consiste nel mettere in discussione la ricostruzione del pensiero femminista come scandito dal succedersi di diverse ondate, ciascuna separata da una cesura dalle successive. Una lettura che condannerebbe il pensiero di Wollstonecraft a rimanere relegato alla fase del proto-femminismo.
Pur nella varietà delle imprese editoriali in cui si è imbarcata e nei mutamenti intervenuti tanto nella scelta del registro stilistico-comunicativo quanto del pubblico al quale rivolgersi, Wollstonecraft lavora con continuità intorno ad alcuni interrogativi che rinnova a se stessa nel tempo alla luce delle proprie variegate esperienze di vita e del confronto costante con autori e autrici contemporanei, un confronto che coltiva con passione anche attraverso intensi rapporti epistolari.
Centrali sono le domande su cos’è una donna, su quali sono le ragioni della sua oppressione, su come si diventa donna e su cosa potrebbe divenire una donna in mutate circostanze sociali, politiche ed economiche. Interrogativi ai quali risponde rifiutando una prospettiva essenzialista, che riconduca i difetti femminili, e la condizione di inferiorità sociale nella quale le donne del suo tempo si trovano, ad una presunta natura femminile. La femminilità è, per Wollstonecraft, una costruzione sociale: sia il corpo che la mente della donna sono plasmate socialmente. Cossutta propone in proposito un parallelo efficace tra la riflessione di Wollstonecraft e quella sviluppata da Iris Marion Young in Throwing like a girl. A Phenomenology of Feminine Body Comportment Motility and Spatiality, un articolo in cui l’analisi fenomenologica primo novecentesca viene corretta ricordando quale visione dello spazio emerga a partire dall’esperienza di uno specifico corpo, ovvero del corpo femminile, un corpo educato a sentirsi di troppo e fuori luogo, che deve quindi cercare di muoversi nel perimetro più stretto possibile, persino quando si tratta di lanciare una palla.
La realtà femminile viene scoperta, d’altra parte, molto presto da Wollstonecraft come plurale: non esiste la donna, ma le donne, nelle diverse condizioni economiche e sociali nelle quali la vita le ha gettate. Le donne dell’aristocrazia sono le figure femminili su cui maggiormente si appiglia la vena polemica di Wollstonecraft: il loro corpo e le loro menti rappresentano al massimo grado le distorsioni che sono capaci di produrre relazioni incentrate sul dominio quando si crea un rapporto di complicità tra le soggettività oppresse e l’oppressore. Costrette ad assumere un atteggiamento adulatorio verso i mariti da cui dipende la loro sorte, le donne dell’aristocrazia sfogano la loro frustrazione sulla servitù, sviluppando un atteggiamento di cinica freddezza.
Non solo la femminilità è trattata come un problema di costumi che condizionano le condotte, plasmando atteggiamenti e propensioni mentali, oltre che posture e corpi; altrettanto lo è la mascolinità – come mostra nella Vindication of the Rights of Woman l’attenzione dedicata all’esercito e agli effetti che le gerarchie producono anche nella soggettività maschile. Nell’articolare la propria visione della femminilità e della mascolinità intorno all’idea di un dominio che corrompe tanto chi lo esercita quanto chi vi è sottoposto, precludendo al primo l’accesso alla realtà e costringendo il secondo all’adozione di atteggiamenti adulatori e ipocriti, Wollstonecraft attinge ad una particolare tradizione politica: quella repubblicana. Una tradizione politica fondamentale anche per comprendere la sua interpretazione dei diritti, della libertà, della cittadinanza e della virtù; un’interpretazione contaminata dall’ispirazione repubblicana e, al tempo stesso, basata su una sua inevitabile riformulazione.
Un ulteriore elemento di continuità tra la prospettiva filosofico politica di Wollstonecraft e quella del femminismo contemporaneo – come osserva Cossutta – è dato proprio dal confronto con il canone maschile. Wollstonecraft, come altre autrici del suo tempo, non poteva evitare di misurarsi con gli strumenti concettuali offerti dal canone maschile egemonico; al tempo stesso, tuttavia, era costretta a usarli per altri fini o a reinventarli per creare una propria cassetta degli attrezzi e lo spazio teorico necessario a far emergere la prospettiva delle donne. Nella visione di Wollstonecraft è chiaro da subito che la questione femminile non può essere risolta semplicemente attraverso un’estensione dei diritti: farla entrare nell’ambito del dibattito teorico-politico ha implicazioni molto più ampie e radicali. Non basta appropriarsi del canone, bisogna trasformarlo creando le risorse per l’articolazione di una scrittura femminile. Non è sufficiente adottare la prospettiva teorico-politica repubblicana, è necessario ripensarla a cominciare dalla messa in discussione della distinzione pubblico/privato e da una ridefinizione della nozione stessa di virtù.
Nel corso del tempo, tuttavia, Wollstonecraft perde la fiducia che ancora aveva nelle sue prime opere, in particolare nelle due Vindication, di riuscire ad aprirsi un varco per partecipare al discorso maschile dei suoi affini repubblicani, di farsi in qualche modo accettare e accogliere. Negli ultimi lavori Wollstonecraft sembra voler ignorare la possibile reazione maschile per poter così lasciare veramente libera la propria immaginazione politica. Se l’autrice ha sempre strenuamente coltivato la libertà di pensare con la propria testa, questa libertà si dispiega completamente solo nel momento in cui decide di rivolgersi ad un pubblico prevalentemente femminile, anche scegliendo una scrittura che si allontana dal canone di un’argomentazione classicamente intesa come teoria. Il cambiamento in termini stilistici, la scelta della forma letteraria dell’epistola, in Letters Written during a short residence in Sweden, Norway and Denmark, e del romanzo, in Mary, a Fiction e in Maria, or the Wrongs of Woman, non segnano un ripiegamento verso una scrittura più intimista e meno polemica. In aperta critica al romanzo sentimentale borghese che anima la conversazione nella sfera pubblica letteraria settecentesca, i romanzi di Wollstonecraft intendono portare le donne e il discorso sulla questione femminile all’interno della sfera pubblica politica. La forma del romanzo configura, per la sua scrittura, la possibilità di dispiegare il suo pensiero su un terreno politico insieme polemico e costruttivo. Tutto ciò accade anche perché quel genere letterario le consente più facilmente di sentirsi “a casa”, tra donne, di rivolgersi a chi – ricorda Cossutta (p. 26) – è in grado non solo di comprendere ma anche di “sentire” quanto lei intende argomentare.
Non è difficile scorgere anche in questo aspetto del percorso di Wollstonecraft un elemento di continuità con la riflessione filosofico politica femminista contemporanea su cosa debba considerarsi legittimamente teoria politica e cosa non ne abbia dignità. Scrive Cossutta: “La messa in discussione della forma argomentativa, di che cosa possa essere ritenuta teoria politica e di come la si possa comunicare, è un’interrogazione che le teorie femministe continuano a porre e a porsi” (p. 27). Ed è un’interrogazione strettamente connessa ad un diverso modo di declinare la razionalità, che per Wollstonecraft, come per buona parte della filosofia femminista contemporanea, va di pari passo con la riconciliazione tra ragione, emozioni e passioni. Nelle Letters written during a short residence in Sweden, Norway and Denmark, Wollstonecraft osserva: “ragioniamo profondamente quando sentiamo con forza” (cit. a p. 29). La passione è una molla fondamentale per la riflessione; in particolare, nella prospettiva filosofico politica, lo è la passione per la giustizia sociale mossa dalla percezione delle ingiustizie – come suggerisce Iris Marion Young, che anche su questo sembra muoversi in perfetta sintonia con Wollstonecraft.
La prospettiva pedagogica che attraversa tutta l’opera di Wollstonecraft, che il suo discorso assuma o meno la forma del trattato pedagogico, come accade nei primissimi scritti, che si tratti di riflessioni sull’auto-formazione, sul ruolo e l’importanza della lettura, dell’ascolto e della possibilità di confrontarsi con persone che possono diventare interlocutori privilegiati, è senz’altro cruciale nella sua comprensione della necessità di riconoscere la natura politica dello spazio privato, delle relazioni familiari e più in generale delle relazioni sociali. Ciò è possibile anche perché non è in discussione tanto l’istruzione quanto l’educazione nel senso di una socializzazione che favorisca la formazione di un sé capace di pensare autonomamente. In altri termine, ciò cui dobbiamo prestare attenzione, per Wollstonecraft, è il modo in cui l’organizzazione e le forme delle relazioni sociali, a cominciare dalle relazioni primarie, si riflettono nello sviluppo delle capacità della persona – oggi, utilizzando il lessico di Sen e Nussbaum, diremmo delle capabilities.
Su tutti questi temi, l’autore con cui il confronto sarà più serrato è, senz’altro, Rousseau, di cui Wollstonecraft condivide sia l’idea che l’educazione ha il “compito di creare una società giusta” sia che essa debba “prestare attenzione anche alla felicità dei bambini educati” (cit. pp. 82-83). Con Rousseau, tuttavia, Wollstonecraft non può fare a meno di ingaggiare anche un’accesa battaglia polemica sul tema dell’educazione delle donne. Una polemica che, in ultima analisi, non è che il preludio a una critica complessiva dell’ideale di cittadino e di cittadinanza proposta da Rousseau, così come di quella tradizione delle sfere separate che egli più di ogni altro pensatore settecentesco ha contribuito a delineare. Il terreno della critica a Rousseau diventa così una sorta di palestra per denunciare l’errore di distinguere due tipi di educazione: quella maschile, volta alla creazione del cittadino e della virtù pubblica, e quella femminile, finalizzata alla creazione della madre e della virtù privata.
Educare alla cura di sé e dell’altro, al fine di evitarne la sofferenza, è l’essenza dell’educazione che dovrebbe emergere in una società giusta. Le donne dell’aristocrazia, educate a preoccuparsi dello sguardo maschile e del giudizio dell’opinione pubblica, sono incapaci di ascoltare i loro bisogni così come di prendersi cura dei loro figli. Gli uomini, d’altra parte, educati all’adulazione, cadono facilmente vittima dell’inganno femminile; la loro presunta autonomia poggia sull’incapacità di pensarsi in relazioni di reciprocità. Da questo punto di vista, la critica a Rousseau porta l’autrice a formulare sia una diversa nozione di autonomia, che si fonda sulla reciprocità relazionale, sul rispetto reciproco proprio delle relazioni amichevoli, sia su una diversa nozione di virtù valida sia per il privato che per il pubblico: la modestia.
Wollstonecraft, nella seconda Vindication, distingue modestia e umiltà: definisce la prima come una “sobrietà della mente che insegna all’uomo a non avere di se stesso una considerazione maggiore di quanto non dovrebbe” e l’umiltà come una sorta di “autodenigrazione”. La modestia, “l’abito più bello della virtù (the fairest garb of virtue)” e il “frutto sacro della sensibilità e della ragione (sacred offspring of sensibility and reason)”, è una virtù trascurata o relegata nella sfera privata femminile tanto nel modello repubblicano di Rousseau, incentrato sulla figura del cittadino in armi, la cui virtù è data dalla forza, quanto dal modello della repubblica commerciale che – come Wollstonecraft rimprovera a Imlay in una lettera – sembra mantenere “la mente” e le “passioni” “in un continuo stato di agitazione (p. 172).
La modestia è una virtù sfuggente, che sta tutta nel tentativo costante di raggiungere un equilibrio tra il non esaltarsi e il non denigrarsi. Sembra dotata del potere di far cadere in contraddizione chi dice di possederla: dire “Sono modesta” suona contraddittorio, se non ridicolo. È una virtù che sta agli altri semmai riconoscere, ma che in ogni caso non ha bisogno di andare in cerca di alcuna forma di riconoscimento. È una consapevolezza di sé che è giusta, per Wollstonecraft, nella misura in cui ci rende consapevoli delle nostre possibilità e dei nostri limiti. È fondata su un autogoverno che consiste nella capacità di mettersi in secondo piano, di decentrarsi, capacità indispensabile per raggiungere qualsiasi obiettivo, per essere utili agli altri. In fondo, sia la vanità che l’arroganza così come l’auto-denigrazione condividono il vizio di un’eccessiva concentrazione su di sé, di dare un’eccessiva importanza al proprio ego.
La modestia è quella virtù che consiste nel farsi né troppo grande né troppo piccolo rispetto agli altri, due vizi che – come suggerisce Vrinda Dalmiya in Caring to Know. Comparative Care Ethics, Feminist Epistemology, and the Mahābhārata (OUP 2016), una lettura che potrebbe essere utile per integrare la riflessione inaugurata qui da Cossutta a partire da Wollstonecraft – precludono l’accesso a quei beni epistemici che possono derivare dalla disposizione a correggere se stessi, ad aprirsi alle emozioni.
La modestia diventa, nella seconda Vindication, la virtù centrale di “una repubblica ben ordinata anche nella sfera privata”. Una repubblica è “ben ordinata” grazie alla capacità di autogoverno dei suoi cittadini e delle sue cittadine. Una capacità di autolimitazione e controllo nella propria vita privata, che trasforma la relazione matrimoniale in una solida e duratura amicizia tra i coniugi, incentrata sulla stima reciproca. Wollstonecraft sicuramente non ritiene che la parzialità degli affetti familiari sia un impedimento all’allargamento dei sentimenti in una direzione patriottica e cosmopolitica. È piuttosto vero il contrario – osserva Cossutta: “L’idea di Wollstonecraft degli affetti familiari, al contrario, fa della famiglia il terreno fertile di una benevolenza repubblicana e universale” (p. 125). Leggi e istituzioni hanno, però, snaturato il senso delle relazioni familiari, trasformandole in relazioni di dominio e per le donne in una forma di schiavitù, attraverso un’estensione inappropriata del concetto di proprietà: la donna come lo schiavo è diventata una proprietà dell’uomo.
Il concetto di proprietà, così come è stato teorizzato dal diritto moderno, quindi deve essere oggetto di una disamina. Il tema – come mette in evidenza Cossutta – era già accennato nella prima Vindication, dove la schiavitù veniva considerata non una distorsione ma un male intrinseco della società mercantile. Ritorna con ancora più forza nel romanzo Maria, or the wrongs of woman, soprattutto attraverso la figura di Jemima, che consente a Wollstonecraft di ampliare la sua riflessione all’intreccio tra genere e classe. Jemima, infatti, è una donna di umilissime origini, costretta per un certo periodo della sua vita a prostituirsi per sopravvivere. Se nella seconda Vindication sul tema della prostituzione si può riscontrare una vena di moralismo, in Maria, orThe Wrongs of Woman, Wollstonecraft sembra giunta ad una diversa e più profonda comprensione del peso delle condizioni materiali: Jemima è una donna che nel suo percorso ha incontrato ostacoli che avrebbero potuto annientarla, per superare i quali a nulla sarebbe servita la virtù della modestia. Jemima viene salvata dall’incontro con uomo abbiente e colto, inizialmente interessato solo al suo corpo, che nel tempo le offre la possibilità di costruirsi un’educazione sufficiente ad acquisire stima di sé, coraggio di essere se stessa e di sfidare la società. Solo mutate condizioni materiali danno a Jemima la possibilità di acquisire una voce, di far sentire la voce del margine. Attraverso Jemima, insomma, Wollstonecraft sembra correggere il tiro rispetto alla seconda Vindication e affermare che la ricchezza non ha solo la capacità di corrompere la virtù e distorcere le finalità dell’educazione. La ricchezza, quando diventa l’unico fondamento su cui poggia una società, può essere crudele e spietata nei suoi meccanismi e nella sua logica: senza una base materiale che fornisca sicurezza e un riparo, si è lasciati in balia della violenza, nelle sue molteplici forme; si rischia costantemente di venire annientati nella propria umanità.
La critica alla teoria della proprietà lockeana fondata sulla proprietà di sé incontra limiti evidenti se guardata con occhi femminili, con gli occhi di chi all’epoca, in quanto donna, sapeva di non poter essere proprietaria di sé, né del proprio corpo, soprattutto se non sposata e priva di ogni mezzo, come Jemima. Il cenno forse più esplicito a questa mancanza di proprietà sul proprio corpo da parte dei poveri si trova in una pagina di Maria, orThe Wrongs of Woman, non citata da Cossutta, ma a cui le sue riflessioni hanno riportato la mia memoria. Si tratta della pagina in cui Jemima racconta che per un incidente alla gamba durante il lavoro pesante di lavandaia è costretta a recarsi in ospedale:
Jemima si lascia qui andare a una riflessione su come l’ospedale fosse congegnato per sperimentare sul corpo dei poveri nuove cure nella speranza che un giorno possano curare i ricchi. Sappiamo bene, del resto, come soprattutto la ginecologia moderna sia nata dalla sperimentazione sui corpi delle malate che giungevano nei nosocomi in condizioni di indigenza. Una condizione che chiaramente mostra come, per la popolazione ridotta in povertà, neppure la proprietà di sé fosse realmente possibile. Da qui, la necessità, per Wollstonecraft, di riformare la società anche dal punto di vista economico, degli stili di vita, di consumo e di produzione, al fine di creare una maggiore uguaglianza materiale, per arrivare alla realizzazione di una società giusta. Continua a rimanere centrale la capacità di autogoverno, di essere padrone di sé, che implica la forza di stare fuori dalle leggi della società, se necessario, di essere “fuorilegge” – come Jemima e Maria si trovano ad essere per aver sfidato le norme sociali –, ma anche il sapere imporre dei limiti ai propri bisogni. Una virtù che si può esercitare, però, solo se la società garantisce una base materiale che consenta a tutti di soddisfare i bisogni essenziali.
Wollstonecraft cerca un’alternativa alla società mercantile. Come già aveva proposto nella Vindication of the Rights of Men, contro la visione economico-politica burkeana, in Mary, a Fiction torna all’immagine del cottage, della casa di campagna, dove è possibile condurre una vita frugale in armonia con sé stesse, con gli altri e con la natura. In Maria, or the Wrongs of Woman, questa piccola comunità eterotopica è una comunità di sole donne: di Maria, della figlia ritrovata di costei e di Jemima. “Nell’inaspettata famiglia di Maria e Jemima – commenta Cossutta – è […] possibile vedere un ideale politico, nutrito sia dalla teoria che dalle vite reali, in grado di sovvertire la disuguaglianza delle donne partendo non solo dall’istruzione, ma anche dalle condizioni materiali” (p. 150).
Senza voler, per forza, ritrovare in Wollstonecraft anticipazioni di tutto ciò che di interessante e importante offre la riflessione femminista contemporanea, senza farne “una sorta di talismano” (p. 210), non si può non concordare con Cossutta sulla possibilità di trovare stimoli tuttora validi per pensare il presente nel pensiero di quest’autrice settecentesca. Non ultimo anche per la sua critica agli effetti negativi prodotti sulla società e sulle soggettività da una fredda razionalità economica orientata ad una crescita fine a se stessa e cieca di fronte ai mali prodotti da crescenti disuguaglianze sociali.
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