A volte ritornano: la bibliometria nel bando PRIN PNRR 2022

DOI

Poster of the movie Sometimes They Come Back All’inizio di ottobre si è diffusa la notizia che l’ANVUR, l’agenzia governativa nella quale si accentra la valutazione amministrativa della ricerca italiana, aveva formalmente sottoscritto l’Agreement on Reforming Research Assessment. Come la dichiarazione DORA e il Leiden Manifesto for Research Metrics, questo accordo include fra i suoi punti principali l’emancipazione della valutazione da analitiche commerciali quantitative quali il fattore d’impatto, l’indice H e le classifiche di università ed enti di ricerca, così da concentrare l’attenzione sulla qualità e sulla diversità della ricerca. L’Annex 1 del suo testo, ricapitolando convinzioni ormai diffuse,1 spiega perché:

I processi di valutazione che si affidano prevalentemente a sistemi di misurazione basati su riviste e pubblicazioni producono notoriamente, a danno della qualità, una cultura del ‘publish or perish’ incapace di riconoscere impostazioni differenti. Il predominio di sistemi di misura angusti fondati su riviste e pubblicazioni, spesso usati impropriamente nella valutazione della ricerca, può disconoscere contributi diversi e può influenzare negativamente la qualità e l’impatto della ricerca stessa. Può, per esempio, esaltare quantità e velocità a scapito di qualità e rigore, far emergere riviste e conferenze predatorie, incoraggiare a pubblicare in riviste ad accesso chiuso e a pagamento per il loro fattore d’impatto elevato anche se sono disponibili alternative ad accesso aperto, indurre a evitare il rischio per non ridurre la possibilità di venir pubblicati, produrre un’eccessiva attenzione alle classifiche a detrimento della collaborazione e far sprecare energie, tempo e denaro a ripetere il già fatto perché gli articoli sui risultati “negativi” rimangono largamente inediti. La valutazione della ricerca dovrebbe promuovere una cultura che riconosca la collaborazione, l’apertura e l’impegno sociale e offra opportunità a una pluralità di talenti.

L’ANVUR ha finora imposto la bibliometria in tutta la sua valutazione: anche per i settori detti “non bibliometrici” chi desidera diventare professore o commissario di concorso deve adeguarsi a valori-soglia quantitativi, basati sul numero di libri, nonché di articoli in riviste genericamente scientifiche e in “di classe A”, determinate tramite liste stilate dall’ANVUR medesima. La sua adesione formale all’accordo sarebbe dunque una notizia non irrilevante, sebbene non comporti la deposizione della spada, per così dire, ma solo l’annuncio della sostituzione della bilancia. Fuor di metafora, la firma promette di cambiare come si valuta ma non chi valuta: l’Anvur, da parte sua, rimane un’agenzia nominata dal governo che sottomette la ricerca italiana a una valutazione amministrativa e centralizzata anziché scientifica e distribuita.

Dovrebbe tuttavia destare stupore che il bando PRIN PNRR 2022 del 14 settembre 2022 richieda dati bibliometrici – obbligatori per fisica, ingegneria e scienze biologiche, e solo se disponibili per scienze umane e sociali – a chi presenta un progetto di ricerca candidandosi come principal investigator.

Si dirà: l’accordo europeo (p. 5) non mette interamente al bando la bibliometria, ma chiede solo di “fondare la valutazione della ricerca principalmente su una valutazione qualitativa in cui è centrale la revisione paritaria, sostenuta da un uso responsabile di indicatori quantitativi”. Però, come si evince dal fac-simile della domanda, aggiornato al 17 ottobre 2022, che gli aspiranti devono compilare, gli indicatori quantitativi richiesti sono tali che difficilmente se ne può immaginare un uso responsabile. Bando e modulistica sono disponibili qui; https://prin.mur.gov.it/Attachments/getAttachment?key=HopXv8NjF1Vb4NvuuAMfmQ== l’illustrazione a fianco riproduce quanto si trova alla pagina 5 del fac-simile, nel punto B2.

Salta subito agli occhi che al candidato viene richiesto l’Impact Factor dei suoi articoli, presumibilmente perché si ritiene che questo dato sia utile per valutarlo. Lo stesso inventore dell’IF, Eugene Garfield, raccomandava di non impiegarlo per valutare i ricercatori: com’è ampiamente noto, facilmente intuibile, e riconosciuto perfino da una sentenza del TAR del Lazio, un rapporto che pesa le citazioni complessive annuali degli articoli usciti su una rivista il biennio precedente è una misura che riguarda la rivista stessa e non i suoi singoli testi, alcuni dei quali possono essere citati poco o per nulla.

https://prin.mur.gov.it/Attachments/getAttachment?key=9L3fqE6vl9+EucB3/ELXtg==Il ministero ha pubblicato anche delle FAQ. L’illustrazione qui a fianco ne riproduce la parte sulla bibliometria.
A chiarimento di quanto implicito nel fac-simile, il MUR spiega che i fattori d’impatto delle riviste su cui sono usciti gli articoli dei candidati vanno sommati, senza compiere la normalizzazione raccomandata dal sesto punto del Leiden Manifesto for Research Metrics. Il numero di citazioni, tuttavia, varia fra disciplina e disciplina, e con esso il fattore d’impatto delle riviste: se gli IF delle riviste che hanno pubblicato gli articoli vengono semplicemente addizionati, i ricercatori che operano in campi a bassa intensità di citazioni verranno penalizzati a vantaggio di quanti lavorano in ambiti di intensità maggiore. E per mantenere quel pizzico di accidentalità tipico della carriera accademica, il MUR non prescrive di indicare l’IF che la rivista aveva quando l’articolo è stato pubblicato, ma quello attuale o l’ultimo disponibile: così – a proposito di scale oggettive – il valore di un articolo, oltre a dipendere dal suo contenitore e non dal suo contenuto, crescerà e decrescerà nel tempo avvenire con le fluttuazioni del fattore d’impatto della rivista che lo ha pubblicato. Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

Anche i limiti dell’indice H, qui calcolato sul database proprietario Scopus, che è, in conflitto di interessi, sotto il controllo del più grande oligopolista dell’editoria scientifica commerciale, Elsevier, sono ben noti, tanto che è stato ripudiato dal suo stesso inventore in quanto generatore di conformismo.

La responsabilità del bando, che è uscito prima del suo insediamento, non ricade sul governo attualmente in carica, bensì su quello precedente, detto “dei migliori“. C’è anche una responsabilità dell’ANVUR? La risposta, questa volta, è no.

Sebbene tempestivamente denunciato da “Roars”, pochi si sono accorti che l’articolo 64 comma 3 del decreto-legge 31 maggio 2021 n. 77 ha cambiato, per il periodo della prima applicazione coincidente con la distribuzione dei fondi del PNRR, il nome e le modalità di composizione del Comitato Nazionale dei Garanti della Ricerca (CNGR), ora ribattezzato Comitato Nazionale per la Valutazione della Ricerca (CNVR). Il CNVR ha, fra l’altro, il compito di “indicare i criteri generali per le attività di selezione e valutazione dei progetti di ricerca” finanziati dal MUR. Nella prima applicazione del decreto, dunque, i sette membri del vecchio Comitato Nazionale dei Garanti della Ricerca rimangono in carica, ma vengono affiancati da otto membri nominati direttamente dal ministro dell’università e della ricerca, senza nessun vincolo oltre il rispetto della parità di genere.2 In altre parole, per decidere come e con quali criteri distribuire i fondi PRIN PNRR non solo il ministro può nominare chi vuole, ma i nominati, essendo otto, sono sufficienti per ottenere la maggioranza nelle deliberazioni del comitato – le quali dunque possono venir decise da valutatori di designazione interamente politica.

Con il Decreto 30 luglio 2021, n. 1004 del Ministro dell’Università e Ricerca, la ministra Messa ha provveduto a scegliere gli 8 nuovi componenti del CNVR: si possono leggere in questo articolo di “Roars”. È dunque un comitato con una maggioranza di diretta ed esclusiva emanazione politica che ha consentito questo uso della bibliometria inappropriato, irresponsabile, e perfino impugnabile davanti alla giustizia amministrativa. Per il TAR del Lazio era infatti chiaro già nel 2015 che, perfino se lo trattiamo impropriamente come indicatore di qualità e non di popolarità, il fattore d’impatto riguarda “la qualità complessiva delle singole riviste più che la qualità dei singoli articoli in esse contenuti e redatti dall’interessato”.

A un osservatore esterno i decreti e gli acronimi possono apparire vacui e tediosi esoterismi burocratici: ma in questa vacuità si cela una valutazione di stato ancor meno scientifica e ancora più sottomessa alla politica, specialmente entro un’università impoverita di denaro e di spirito che tende ad attribuire potere e prestigio a chi, ad arbitrio del principe, ottiene fondi per i propri progetti di ricerca. Il “governo dei migliori” si è baloccato irresponsabilmente con la bibliometria. Governi peggiori potranno seguire la via regolamentare che ha predisposto e fare di peggio.

image_print
Tags:

Accessi: 198

Daniela Tafani, La libertà di stampa come contropotere in Kant

DOI

La publicité est la sauvegarde du peuple Daniela Tafani, studiosa di filosofia politica e morale, entra a far parte della redazione del Bollettino telematico di filosofia politica proponendo alla revisione paritaria aperta l’articolo Il palladio dei diritti del popolo. La libertà di stampa come contropotere in Kant e negli scritti rivoluzionari.

Quando Kant scriveva che la libertà della penna è l’unico palladio dei diritti del popolo non stava – come potrebbe pensare un lettore europeo o americano poco attento alla costituzione materiale che oggi si trova a subire – facendo retorica. Stava riecheggiando non solo il motto della medaglia dei venditori ambulanti di giornali (colporteurs) all’inizio della Rivoluzione francese, ma anche un’ampia letteratura repubblicana che rappresentava la libertà della stampa come un diritto a salvaguardia degli altri diritti, perfino contro il potere costituito.

La posizione di Kant, fondata sul carattere strutturalmente pubblico della giustificazione morale, era già chiara prima della rivoluzione francese quando, nel saggio sull’Illuminismo, scrive che ogni essere umano ha la vocazione a pensare da sé, contro il ministro Zedlitz che invece la riconosceva a una minoranza. E il suo senso politico diventa ancora più accentuato quando, nel 1793, la libertà della penna, che è libertà spirituale dell’autore invece che mera libertà economica dell’editore, funge da spartiacque fra un regime che contiene leggi ingiuste a cui si può ancora por rimedio tramite il dibattito pubblico e un regime basato sulla mera forza contro il quale è invece lecito fare la rivoluzione.

Il collegamento fra i testi di Kant e il contesto storico dà forza a una lettura non condivisa da tutti gli interpreti, che, anche come tale, merita di essere sottoposta a una revisione paritaria aperta – nella convinzione che promozioni e bocciature in mano a tribunali segreti e arbitrariamente nominati siano ben più vicine a forme di potere politicamente o economicamente dispotico che all’uso pubblico della ragione.

image_print

Accessi: 296

Francesco Scotognella, La comunità scientifica anarchica

DOI

Simbolo dell'anarchia Il fisico Francesco Scotognella propone alla revisione paritaria aperta l’articolo “L’affermazione di una teoria nella comunità scientifica: lo scienziato-parresiasta, il collettivo di pensiero e il mutuo appoggio“.

Il testo, con il sostegno di una casistica storica recente, descrive, similmente alla sociologia della scienza di Robert K. Merton, l’ethos implicito della comunità scientifica, interpretandolo come anarchico.

La comunità scientifica si è molto ampliata rispetto al passato, ma per distribuirsi “in fazioni trasversali polverizzate in piccole scuole spesso in competizione tra loro”. Le scuole meglio connesse e più finanziate sviluppano autorità che riempiono le sale più grandi ai congressi e le cui pubblicazioni, teorie e modelli godono della massima considerazione. E però qualsiasi scienziato, a condizione che rispetti i protocolli di comunicazione della comunità disciplinare, può arrischiarsi a fare la parte del parresiasta fino al punto di scalzare l’autorità, ancorché in tempi non brevissimi.

Questa evoluzione è possibile esclusivamente perché nel lungo termine i parresiasti non rimangono soli: fin dall’inizio la loro sfida non è un conflitto fra individui, bensì un appello al mutuo appoggio della comunità scientifica, perché altri controllino le loro proposte in maniera indipendente, ripetendo o proponendo esperimenti cruciali. In questo senso – sostiene Scotognella – la comunità scientifica è anarchica, perché l’avanzamento del sapere ha luogo non per la forza di una gerarchia, che anzi lo trattiene, ma in virtù di una forma di mutuo appoggio.

La tesi del sostegno reciproco come fattore evolutivo è tratta dall’interpretazione che Pëtr Kropotkin, in veste di scienziato naturale, diede della teoria di Darwin in Mutual Aid: A Factor of Evolution (1902): la lotta per l’esistenza non va intesa, nel modo riduttivo dei darwinisti sociali, come competizione fra individui, bensì come confronto fra specie e con l’ambiente, e in questa prospettiva il mutuo soccorso e la socialità appaiono leggi della natura efficaci almeno quanto quella del conflitto – come indica lo stesso successo delle specie sociali, animali o umane che siano.

La valutazione amministrativa della ricerca in vigore in Italia, ancorché ormai in discussione perfino in Europa, sembra però ispirata a un ideale competitivo, basato su indicatori bibliometrici accertati da entità commerciali esterne più vicino al darwinismo sociale che al mutuo soccorso di Kropotkin. E se il valore amministrativo di un ricercatore è determinato dalla sua popolarità citazionale, non soltanto l’esercizio ma anche la tradizione della parresia sembrano esposti all’estinzione, almeno in ambito accademico.

Chi vuole intraprendere strade non ancora accettate dalla comunità in primo luogo ha difficoltà a pubblicare, scontrandosi con un muro omogeneo e anonimo. Se anche, come supponiamo per comodità di argomentazione, riuscisse nell’intento di inaugurare una scuola di pensiero alternativa sarebbe ovviamente poco citato, perché sarebbero ben rari i ricercatori che sceglierebbero di entrare in un gruppo minoritario, sapendo che il meccanismo quantitativo di valutazione, basato sul numero di citazioni, attribuirebbe ai loro risultati certamente un valore minimo. Il meccanismo per sua natura evidentemente si autoalimenta, generando automaticamente omogeneità. Un cambiamento di opinione è reso possibile solo da una transizione di fase che cambi contemporaneamente l’opinione di tutti gli specialisti. È ciò che avviene effettivamente con il rapido susseguirsi delle mode. Le qualità che vengono così selezionate sono la repentinità dell’informazione e la prontezza di riflessi che permettono di trovarsi sempre dalla parte maggioritaria. (Lucio Russo, La cultura componibile, 2008)

Da tempo si discute, anche in luoghi insospettabili, di una crisi della comunicazione scientifica che oltre a condurre con sé, riflessivamente, una “natural selection of bad science“, induce a interrogarsi sul mutuo soccorso anarchico descritto in questo articolo. È un residuo del passato? È una prospettiva per un futuro che riuscisse a far tesoro dell’esperienza della pandemia? È un ethos della scienza fra i tanti possibili? O, più radicalmente, il suo indebolimento comporta un irrigidimento entro un sistema lontano dall’ideale della scienza moderna, sempre più prono all’autorità e sempre più ostile alla parresia?

image_print
Tags:

Accessi: 372

Un discorso per niente normale

Breaking barriersRendiamo disponibile il testo del discorso pronunciato il 9 luglio 2021 da tre portavoce degli allievi della classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa durante la cerimonia di consegna del loro diploma. La stampa ne ha enfatizzato la denuncia della disparità di genere, a cui è più facile dare una parvenza di risposta o con una politica di quote o con l’impossibilità legale di applicarla – come se prendere le studiose sul serio fosse così difficile da non riuscire a dar loro spazio se non per costrizione amministrativa. Ma questa denuncia è a conclusione di un argomento più difficile, che riguarda, oltre il caso particolare, ancorché estremo, della Normale di Pisa, l’università italiana nel suo complesso.

Quanto infatti l’Italia prende la ricerca, gli studiosi, gli studenti sul serio? Ben poco: l’università pubblica è da tempo sottoposta a un ridimensionamento selettivo e cumulativo, che ha allontanato e allontana i giovani dallo studio sia come studenti, sia come ricercatori, consegnandoli, dentro e fuori l’università, alla precarietà e allo sfruttamento. L’eccellenza, qui, è un eufemismo a nascondere il privilegio di pochi, di sempre meno: negare ai più il diritto allo studio significa toglier loro la possibilità di pensare da sé e quindi anche di cercare di lasciare il mondo migliore di come l’hanno trovato.

Ma non solo a chi è negato il diritto allo studio viene chiesto di abbassare la testa e di adattarsi: lo si chiede anche a chi ha il privilegio di studiare, in nome di “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi“. La retorica dell’eccellenza non solo sottrae e divide, ma livella e comprime, affinché anche i pochissimi salvati siano in realtà sommersi: “prima fra tutte la spinta alla competitività, alla produttività, al publish or perish. Se l’obiettivo della Scuola è abituarci quanto prima ad accettare acriticamente tale sistema, crediamo che questo sia un obiettivo perverso.”

Accettare acriticamente il sistema significherebbe infatti disconoscere che

Le disuguaglianze sono stridenti: il divario di genere; il divario territoriale tra Nord e Sud; e non da ultimo il divario tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei, determinato dalla diminuzione dei fondi strutturali e dall’aumento delle quote premiali: lo abbiamo visto con l’istituzione dei dipartimenti di eccellenza, che in questo quadro non può che apparire odiosa e insensata. Faccia riflettere un ultimo dato: mentre, come abbiamo detto, docenti e ricercatori diminuivano nel complesso degli atenei italiani, questi aumentavano del 40% nelle Scuole Superiori, come la Normale.

In questo contesto, noi, i cosiddetti “eccellenti”, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto?

La stampa ha per lo più trascurato la sezione del discorso che chiede di orientare la didattica della Normale alla qualità invece che all’eccellenza, alla formazione invece che alla performatività, alla cooperazione invece che alla competizione, all’uso pubblico della ragione invece che all’autoreferenzialità. Ma anche qui non solo della Normale si tratta: per rendersi conto che la ricerca richiede insegnamento e l’insegnamento è a sua volta parte della ricerca non occorre essere particolarmente rivoluzionari, né è difficile comprendere che in generale la scienza aperta è nell’interesse di tutta l’università pubblica, perché contribuisce a legittimarla.

I vertici accademici, non solo in Normale, sono popolati da professori che si illudono che perseguire un prestigio amministrativamente definito garantisca una salvezza singolare in un sistema pubblico in via di smantellamento: e non si rendono conto che l’esclusività abitua i più a fare a meno di loro, così che, quando saranno repressi o soppressi, nessuno se ne accorgerà perché la loro stessa sottomissione li avrà privati del loro senso. Il loro silenzio, quando non la loro collaborazione, forse contribuisce a spiegare perché – come scrive Stefano Isola su “Anticitera” – il dibattito pubblico su scuola, università e ricerca si perda sovente in una cortina fumogena di dettagli secondari e questioni elusive, mentre il discorso dei normalisti suoni invece, e pericolosamente, niente affatto normale.

Consegna dei diplomi, 9 luglio 2021 – Discorso degli Allievi della Classe di Lettere

image_print
Tags:

Accessi: 1322

I custodi del sapere

DOI

 David Stanley Bibliotheca Alexandrina1. Per lo stato o per il pubblico?

I used to work for the government, but now I work for the public. It took me nearly three decades to recognize that there was a distinction.1

Per il governo degli Stati Uniti d’America Edward Snowden è un traditore che ha messo a rischio la sicurezza nazionale rivelando che la National Security Agency sottopone – legalmente – buona parte del mondo a sorveglianza e schedatura di massa. Se il “pubblico” e lo stato, o ancor più specificamente lo stato inteso come apparato amministrativo, fossero due concetti sovrapponibili, sarebbe difficile evitare di condividere questa opinione.

Questa dissociazione, però, non è un pretesto escogitato da Snowden. Si ritrova nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo scritta da Kant nel 1783, e precisamente nella sua distinzione fra uso pubblico e privato della ragione. Per Kant, quando agisco come funzionario di un’organizzazione collettiva particolare il mio uso della ragione è privato, deficitario, perché, rivolgendomi a un gruppo istituzionalmente delimitato, devo attenermi a norme che non necessariamente mi appaiono giustificate. Quando invece parlo come studioso il mio uso della ragione è pubblico, e deve essere libero, perché non mi esprimo come funzionario di un’istituzione particolare, bensì come partecipe di una comunione ideale aperta alla discussione con tutti gli esseri razionali. Come potrebbe uno studioso servire credibilmente la verità se fosse allo stesso tempo sottomesso agli interessi particolari di chi gli paga lo stipendio? Questa comunione, detta da Kant “cosa comune” e società cosmopolitica, è molto più dello stato: in caso di conflitto fra ciò di cui sono convinto come studioso e ciò che sono tenuto a dire e fare come funzionario è la mia coscienza a dover prevalere. Snowden, lontano dallo studioso ordinario, ha fatto, tradendo un governo di cui non era neppure funzionario, quanto buona parte degli impiegati che oggi lavorano all’università non osa immaginare: render pubblico quello che sapeva rischiando del proprio, anche – almeno in apparenza – contro gli interessi dello stato di cui era cittadino.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso, cambiare idea in rete era facile come cambiare persona: Internet poteva dunque apparire, in opposizione allo stato, come la migliore approssimazione al “pubblico”: uno spazio virtuale di discussione libera in cui nulla – neppure la preoccupazione per la propria reputazione – ci incatena ai nostri tutori.

In the 1990s, the Internet had yet to fall victim to the greatest iniquity in digital history: the move by both government and businesses to link, as intimately as possible, users’ online personas to their offline legal identity. Kids used to be able to go online and say the dumbest things one day without having to be held accountable for them the next. This might not strike you as the healthiest environment in which to grow up, and yet it is precisely the only environment in which you can grow up — by which I mean that the early Internet’s dissociative opportunities actually encouraged me and those of my generation to change our most deeply held opinions, instead of just digging in and defending them when challenged.2

Nell’Internet di oggi, gli stati e le aziende monopolizzano, frammentano, recintano e sorvegliano lo spazio della discussione. Identificarla col pubblico è divenuto difficile. Ma una democrazia che non voglia assorbirsi in una tecnocrazia più propensa a rispondere ai pochi che ai molti avrebbe ora più che mai bisogno della libertà del sapere anche e soprattutto a proposito di se stessa.

Kant pensava il pubblico come una società virtuale: ridurlo in un’istituzione, anche mondiale, lo avrebbe infatti esposto al rischio di essere sottomesso all’uso privato della ragione. Pretendeva, tuttavia, che le organizzazioni particolari, indebitamente dette “pubbliche”, al pubblico fossero aperte, riconoscendo a chi parla come studioso la possibilità di farlo liberamente. E se per pubblico s’intende uno spazio ulteriore a quello istituzionale, sottratto al controllo del governo e alla sorveglianza delle aziende, nel quale e per il quale le istituzioni possano aprirsi alla discussione, venir criticate e talvolta superate o abbandonate, a preoccuparsi per esso dovrebbe essere non solo Snowden, bensì in primo luogo l’università, in quanto organizzazione di studiosi soggetta a un’amministrazione sempre più ostile alla sua indipendenza.

In Italia, pur essendo possibile fare altrimenti, la maggior parte delle università affida servizi di comunicazione essenziali quali la posta elettronica o la didattica a distanza a Microsoft e Google, che contribuivano e possono contribuire allo spionaggio denunciata da Snowden perché soggetti alla legge statunitense. Anche la ricerca, la cui comunicazione e valutazione è amministrativamente consegnata ai monopolisti dell’editoria commerciale, è abbandonata alla loro sorveglianza, cioè al controllo di privati con scopi – e capacità di manipolazione e di indirizzo – ben lontani dalla scienza, e dall’interesse pubblico in generale.

2. Biblioteche, monasteri, università

Dov’è, dove può essere, come può sopravvivere l’apertura al “pubblico”?
Karen Maex, rettrice dell’università di Amsterdam, ha cercato di rispondere a questa domanda in un discorso per la celebrazione del suo 389 Dies Natalis. Ciò che qui chiamiamo “pubblico” è vissuto in spazi progettati per organizzare durevolmente il sapere: la biblioteca di Alessandria, i monasteri, le accademie e le università. Tutti questi luoghi non aggregano e aggregarono soltanto libri, ma anche studiosi che facevano uso dei testi e ridavano loro la parola da lettera morta che erano.

Ideas, great or small, can communicate their effect only through the institutions that organize them. Some of the most powerful ideas are those with the capacity to reorganize the ways in which people pursue knowledge: who pursues it, where and how they do so, and how they judge themselves to have attained it.3

Da quando si è tentato di riversare il sapere in testo e di costruirvi attorno istituzioni che lo conservino, lo riproducano, lo disseminino e lo discutano, queste hanno acquisito la capacità di influenzare e formare la conoscenza stessa. La biblioteca di Alessandria concentrò i libri nello spazio, al servizio di una scienza ecumenica ed enciclopedica e di un disegno originariamente ellenistico basato sull’egemonia del greco come lingua veicolare: il prezzo di questa intrapresa fu la spoliticizzazione della conoscenza – letteralmente, il suo allontanamento dalla polis e il suo spostamento entro la gabbia dorata della dipendenza da una successione di imperi, per legarsi sia alla loro forza sia alla loro finale fragilità.
I monasteri, concepiti per sopravvivere al collasso della civiltà antica, permisero di tramandare la conoscenza nel tempo, affidandola a una rete di comunità che copiavano e riadattavano i libri. Le università, che si aggregarono come corporazioni nella rinascita urbana del basso Medioevo, riportarono lo studio nella civiltà, pur attraverso crisi connesse ora alla loro dipendenza da poteri politici non più capaci di essere ecumenici, ora al loro essere esse stesse formazioni di potere non sempre in grado di restare cosmopolitiche.4

Lo sguardo sulla storia aiuta la rettrice, ingegnera elettronica di formazione, a non ridurre la rivoluzione digitale a un’innovazione tecnica – come se l’informatica non si occupasse di automazione dell’informazione e del suo trattamento, bensì soltanto di progettarne erogatori più efficienti ma altrimenti neutrali.

Le istituzioni del passato hanno concentrato i testi nello spazio, li hanno estesi nel tempo e vi hanno costruito attorno comunità di conoscenza ora lasciando la polis per sottomettersi all’impero, ora allontanandosi dal consorzio civile, ora aggregandosi in corporazioni o in accademie, ora dividendosi in raggruppamenti disciplinari: ogni volta, per ottenere questo scopo, hanno rinunciato a qualcosa – dal consorzio con la polis fino a quello con la società – ma hanno ottenuto l’essenziale, vale a dire la possibilità di tramandare e coltivare un sapere relativamente indipendente e pubblico in virtù del controllo della propria “biblioteca”. Ora, però, la biblioteca, divenuta digitale, è governata ed elaborata da macchine cognitive la cui automazione – la potenza delle procedure basate su un sapere passato che pare esonerare gli umani dalla comprensione – induce a credere che non più di comunità di conoscenza ci sia bisogno, ma solo di inseritori di dati.

Dall’ultimo quarto del secolo scorso le biblioteche hanno cominciato a smettere di essere depositi di volumi di loro proprietà da rendere disponibili a tutti, per diventare sempre più simili a ugelli erogatori di materiali non più loro, ma semplicemente sotto licenza, grazie a una “proprietà” intellettuale inasprita ed estesa perché cucita addosso a interessi commerciali e non scientifici e alla dissociazione bibliometrica della valutazione della ricerca dalle comunità scientifiche e quindi dalla ricerca stessa. L’accesso aperto, in un sistema in cui non viene fatto contare quanto facciamo e scriviamo, ma il suo metadato citazionale, può cambiare ben poco. Mentre gli editori ancora sfruttano il monopolio detto copyright, mentre la “pirateria” offre il servizio pubblico che essi non danno, mentre si pagano cifre oltraggiosamente alte per rendere i testi visibili, le biblioteche – o quel che ne resta – smettono di essere luoghi aperti a tutti, per cedere il governo dell’accesso in lettura e scrittura a privati che ne traggono profitto.

Ma non solo di biblioteche si tratta. La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente. È normale per i ricercatori cercare l’H index proprio e altrui su Google Scholar, collaborare fra loro regalando documenti e dati a Google Docs, fare lezione su Microsoft Teams o ricorrere spensieratamente a Google Drive o ai servizi cloud di Amazon per condividere dati. I ricercatori, del resto, grazie alla bibliometria, sono abituati a essere condizionati nelle loro letture e nelle loro scelte di ricerca da algoritmi non scelti da loro e di proprietà altrui: la differenza rispetto al passato non è nella specie, ma soltanto nel grado. Prima che i media sociali proprietari restringessero e polarizzassero la sfera pubblica generale a scopo di profitto, gli editori commerciali5 e gli algoritmi di valutazione avevano già ristretto e pervertito la discussione scientifica. E come si è accettato questo pervertimento, altrettanto passivamente si accetta che ne venga coinvolta anche la relazione fra docente e discente.

3. Proteggere l’università digitale

L’indipendenza della didattica e della ricerca è – o è stata – una parte importante dalla tradizione intellettuale europea della scienza aperta, resa possibile dal carattere pubblico dell’università, dalla pluralità delle sue discipline e dalla sua accessibilità a studenti di ambienti e prospettive differenti. Ma proprio questa indipendenza, che ha messo in grado l’università di rivolgersi da pari a pari ad altre istituzioni, industria compresa, è ora a rischio, entro un ecosistema post-democratico profondamente sbilanciato a favore di monopoli e oligopoli privati. Ed è così a rischio che la rettrice olandese, da poco eletta presidente della LERU, chiede agli stati nazionali e a un’Unione Europea che si è adoperata molto di più a favore delll’uso privato che di quello pubblico della ragione un Digital University Act per:

  • assicurare che i dati di ricerca siano oggetto di archiviazione e accesso pubblico organizzato da università e infrastrutture altrettanto pubbliche;
  • garantire un accesso aperto alle pubblicazioni universitarie in lettura e scrittura libero dal controllo e dal commercio privato dei relativi dati;
  • fare sì che gli strumenti digitali di apprendimento e ricerca siano generalmente sotto controllo pubblico e basati su pubbliche infrastrutture; se in parziale collaborazione con piattaforme private, le università devono influenzarne le scelte di sviluppo e controllarne la raccolta e l’elaborazione dei dati degli utenti;
  • esigere che docenti e ricercatori accedano ai dati delle piattaforme che usano.

Non possiamo decidere pubblicamente senza pubblicamente sapere: ciò che vale per il futuro dell’insegnamento e della ricerca indipendente vale anche, dice Karen Maex, per il futuro della democrazia. Ben difficilmente, infatti, uno stato che non protegge il sapere indipendente e pubblico, o addirittura ne incoraggia e sostiene la privatizzazione, potrà tornare dalla parte del pubblico.

Perché le università hanno bisogno di costrizione e tutela legale? Perché, salvo eccezioni non italiane, trattano il sapere non più come un problema ancora non del tutto risolto, bensì come un complesso di prodotti soggetti a valutazione esterna. Le modalità della loro erogazione sono indifferenti: i prodotti, come unità cristallizzate e indivisibili, possono dunque essere distribuiti da monopolisti editoriali e tecnologici senza che il loro carattere venga alterato. Anche qui c’è una dissociazione fra l’istituzione e il pubblico: la ricerca non viene valutata tramite l’uso pubblico della ragione, bensì amministrativamente, cioè con l’uso privato. Se la valutazione della ricerca fosse stata ancora interna alla ricerca stessa,6 università e biblioteche avrebbero riflettuto un po’ di più prima di consegnarsi alle determinazioni di enti amministrativi e di monopolisti privati.

http://www.andreasaltelli.eu/file/repository/Lobbies_0_1.pdf Andrea Saltelli, in Science and regulatory capture, analizza cinque casi europei di “regulatory capture” basati su un uso strategico di una legittimazione scientifica organizzata ad hoc. L’espressione inglese regulatory capture, che si riferisce a casi in cui interessi particolari organizzati influenzano l’intervento politico, legislativo o amministrativo dello stato, si traduce in italiano, meno asetticamente, con “politica clientelare”. È grazie a una politica clientelare, racconta Saltelli, che un’associazione industriale è riuscita addirittura a introdurre un nuovo principio, il principio di innovazione contro quello di precauzione, nell’ordinamento giuridico europeo.

In un simile clima, chi difende gli interessi dei molti è esposto, indipendentemente dalle sue intenzioni, al rischio di essere esso stesso catturato dalla regulatory capture, o perché, come è avvenuto nella vicenda della direttiva europea sul copyright, si accontenta delle briciole lasciate cadere dal tavolo su cui banchettano i potenti, o perché si limita a reclamare un’eccezione per la propria istituzione, quando, come del resto pare consapevole Karen Maex, la conoscenza indipendente e pubblica non è solo la ragion d’essere dell’università, ma la base dell’autonomia, in senso distributivo e collettivo, di una società che voglia emanciparsi dai clientelismi. Anche se un discorso come quello di Karen Maex si potrebbe difficilmente immaginare nella bocca di un rettore italiano, e anche se la sua proposta è pragmaticamente encomiabile, un giudizio filosofico deve fare i conti con un orizzonte più ampio e con rischi più grandi. E in questa prospettiva non basta una legge speciale a protezione dell’università per fare i conti con la generale sudditanza dell’università stessa, della società e di chi le governa, e anzi perfino il doverla chiedere è già un’ammissione di marginalità. A emanciparsi dal clientelismo dovrebbero infatti essere la politica e la legislazione europea in merito ai monopoli sui testi, sulle idee e sulla comunicazione in generale. E difficilmente lo faranno, almeno finché l’ordine del mondo continuerà a ridurre ciascuno a far parte per se stesso.

Appendice

doi.org/10.1002/acp.3844 Cliccando sull’immagine qui a fianco il lettore può vedere un campione dei traccianti contenuti in un articolo scelto a caso in Wiley Online Library. Chi volesse verificare personalmente può aprire con Chromium un qualsiasi articolo sul sito del suo oligopolio editoriale preferito, da “Strumenti per sviluppatori” selezionare “Sources” e confrontare quanto ottenuto con una lista di traccianti noti, quale, per esempio, quella resa disponibile da DuckDuckGo.
Nel momento in cui questo testo viene composto, chi facesse la stessa operazione su Open Reseach Europe, dato in gestione a F1000 Research, si renderebbe conto che anch’esso contiene dei traccianti di terzi, anche invadenti e occhiuti come quelli di Google.

image_print
Tags:

Accessi: 962

Plan I: un’infrastruttura per riaprire la scienza

DOI

Trundholm sun chariot1. Di cavalli e di carrozze

Gli studiosi di Kant conoscono la Pace perpetua come un progetto filosofico che, non senza ironia, si propone di superare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – e si propone di farlo, irrealisticamente, col diritto invece che, realisticamente, con la forza.
Chi ha familiarità, prima che con la filosofia, con il denaro e il potere, può prendere il filosofo poco sul serio, soprattutto quando, nella prima parte dell’appendice alla Pace perpetua, contrappone due specie di politici:

  • il “politico morale” che, per superare la guerra, delimita la scelta dei mezzi a quelli compatibili con l’imperativo categorico, vale a dire con il rispetto dei diritti degli esseri umani;
  • il “moralista politico” che, sostenendo di mirare allo stesso fine, pensa che si possa ottenere solo con la guerra.

Come ottenere la pace se non con una forza preponderante? Machiavellicamente siamo abituati a credere che il moralista politico di Kant sia l’unico politico possibile. E però quanto pare efficace nel particolare e nel particulare non necessariamente lo è anche dal punto di vista sistemico: una guerra vittoriosa non elimina la guerra e anzi contribuisce a conservare un mondo governato dalla legge del più forte nel quale l’unica pace possibile è quella degli imperi e dei cimiteri.
Se si accoglie l’invito dell’imperativo categorico a pensare in universale, i mezzi non hanno un rapporto accidentale, meramente tecnico, con il fine, perché essi stessi cambiano o conservano il sistema. Se per pace non s’intende una provvisoria assenza di guerra, bensì l’instaurazione di un ordinamento che risolva le controversie internazionali con il diritto, pretendere di perseguirlo con la guerra non è solo moralmente incoerente: è anche, e in primo luogo, politicamente irrealistico. Anteporre il fine al mezzo ignorandone gli effetti sistemici è come – scrive Kant – mettere la carrozza davanti ai cavalli: si perpetua l’esistente, senza avanzare d’un passo.

2. Open access: un fine che giustifica i mezzi?

In un articolo del 2015 Ralf Schimmer, della Max Planck Gesellschaft Digital Library, propose un modo realistico per superare il persistente scandalo per il quale i testi scientifici, pur potendo essere facilmente ed economicamente resi disponibili in rete almeno dal 1991, rimanevano per lo più accessibili solo dietro pagamento di abbonamenti ingiustificatamente alti e continuamente crescenti. Dal momento che gli autori, anziché preferire riviste ad accesso aperto, sottopongono i loro testi a riviste costose che danno loro prestigio e carriera, perché non spostare il denaro degli abbonamenti dalla lettura alla scrittura? Perché, cioè, non pagare gli editori per rendere pubblico quello che scriviamo invece che per accedere a testi incongruamente chiamati “pubblicati”?

Many who advocate open access envisage the development of a new publishing environment — new journals, new ways of operating — in which researchers can eventually be resettled. But it may be preferable to work with the publishing habitat that has evolved organically and bring open access into it. This could be achieved by transforming the existing core journals’ business models while simultaneously maintaining their function of providing quality assurance through peer review, publishing services and brand value [corsivo aggiunto].

This would enable a large-scale shift to open access while still providing researchers with the services and functions of the journal publishing system in which they are comfortable. The beauty of this idea is that the disruption would be perceptible only in the organisational domain in which the money is managed; since this side of business is typically hidden from researchers, authors would not experience any disturbance to their ordinary publishing activity.

L’ideale della scienza aperta – superare la proprietà intellettuale per rendere pubblica la ricerca del sapere in ogni sua fase – pare difficile da mettere in atto se i ricercatori, o chi per loro, preferiscono la “pubblicazione” alla pubblicità. Perché dunque chi dispone del denaro per farlo non agisce solo sulla “pubblicazione”, lasciando tutto il resto – sistema di valutazione della ricerca compreso – inalterato? Questo, certo, mette in difficoltà i ricercatori indipendenti e dei paesi poveri, ma riesce a ottenere lo scopo dell’accesso aperto, pur tenendone ogni altro aspetto chiuso – possibilità di pubblicare compresa.

La via del moralista politico – quella realistica – ha finora condotto, anche e soprattutto in Italia, a contratti svantaggiosi, quali quello con Elsevier e quello con Springer-Nature. Se, infatti, un articolo su “Nature” rimane fondamentale per il prestigio e la carriera dei ricercatori, il suo editore, com’è riuscito a imporre un prezzo oltraggiosamente alto per gli abbonamenti, può anche chiederne uno paragonabilmente alto per la pubblicazione. Possiamo – realisticamente – permetterci di continuare a essere realisti? Il progetto Plan I – Towards a sustainable research information infrastructure spiega perché è più che mai indispensabile rispondere di no.

3. Il monopolio come questione politica

I contratti con gli editori sfuggono alle regole degli appalti pubblici – sostengono i coautori di Plan I – semplicemente perché sono contratti con monopolisti. Ogni articolo scientifico è, infatti, un pezzo unico: una volta che l’autore è stato indotto a cederne il copyright a un editore commerciale, è con lui, e con lui soltanto, che si deve negoziare. Questo ha permesso agli editori di imporre prezzi che superano fra 10 e 20 volte i costi di pubblicazione e negoziazioni estenuanti per ottenere miglioramenti minimi.

Il monopolio degli editori commerciali non ha solo un effetto monetario, ma anche tecnologico, bloccando forme di interoperabilità e interconnessione altrimenti banali: “efficient citation linking, interactive data visualizations or interoperabilities with data and code have yet to be implemented in the scholarly literature”. Gli editori, infatti, non hanno interesse a favorire la creazione di uno spazio cosmopolitico di discussione e di ricerca: le loro rendite di monopolio, quando non finiscono nelle tasche dei loro azionisti, si orientano infatti all’acquisizione di sistemi di analisi dei dati e di produzione, pubblicazione, valutazione, disseminazione e amministrazione della ricerca per creare bolle reciprocamente impermeabili in cui ogni passo e ogni dato del nostro lavoro è controllato, sorvegliato e sfruttato a fini commerciali e di manipolazione. A questa sorveglianza non si sottrae la didattica, né, tanto meno, la teledidattica.

In una simile condizione, è riduttivo affrontare il monopolio come se fosse solo e in primo luogo una questione economica.

…we are in a position, after the experience of the last 20 years, to state two things: in the first place, that a corporation may well be too large to be the most efficient instrument of production and distribution, and, in the second place, whether it has exceeded the point of greatest economic efficiency or not, it may be too large to be tolerated among the people who desire to be free. [corsivi aggiunti]

Queste righe, attribuite a Louis Brandeis, risalgono al 1911, e sono citate da Tim Wu per ricordare che nella società – rete compresa – la libertà di ognuno non è garantita solo dalla divisione e dalla limitazione dei poteri degli stati, ma anche di quelli delle aziende. Come può una democrazia sopravvivere se un pugno di aziende determina, con una sorta di prerogativa regia, la vita e le scelte dei più e può influenzare le decisioni del legislatore?

Quanto vale per la democrazia a maggior ragione vale per la ricerca: se copyright e concentrazione editoriale limitano la possibilità di leggere e di scrivere come si può garantire un’universale libertà dell’uso pubblico della ragione?

Per spezzare i monopoli, Plan I propone alle istituzioni pubbliche – o a quel che ne rimane dopo decenni di deriva post-democratica – un intervento collettivo di sistema.

4. Un’infrastruttura pubblica per la ricerca

Plan I non mira a sostituire le riviste scientifiche commerciali con una rivista di stato, cioè dei monopoli privati con uno statale, anche perché, nei paesi ove vige la valutazione di stato della ricerca, la coppia distopica di Big Business e Big Government cammina già di pari passo. Mira, piuttosto, a ricostruire un ambiente in cui i servizi editoriali, limitandosi alla pubblicazione, ritornino acquisibili su un mercato concorrenziale popolato sia da attori pubblici sia da editori privati ma reciprocamente sostituibili, perché non monopolisti.

Dal momento che la ricerca è finanziata in buona parte da denaro pubblico, per risparmiare il 90% di quanto viene devoluto agli editori commerciali non occorre smembrare le loro aziende con la sciabola. Basta fissare e far rispettare pochissimi criteri sul formato e sulla valutazione dei risultati della ricerca.

  1. testi, dati e codici devono essere elaborati secondo formati aperti e devono essere pubblicamente archiviabili, in modo che qualunque sia l’editore che li tratta, si possano facilmente esportare e utilizzare, senza barriere proprietarie;
  2. università ed enti di ricerca devono poter essere finanziati dal pubblico solo a condizione che smettano di valutare la ricerca sulla base della pubblicazione su determinate riviste, aderiscano a iniziative come DORA e si associno o promuovano infrastrutture di pubblicazione aperta quali Open Research Europe (ORE).

Anche se il documento non ne fa menzione, nell’apertura dei formati andrebbe inclusa anche una riforma del copyright che riconosca agli autori scientifici un diritto morale e inalienabile alla ripubblicazione immediata di tutti i loro testi, in modo da strappar via agli editori ogni monopolio che possa derivare dalla cessione dei loro diritti.

Plan I, si dirà, è poco realista. E però ci si dovrebbe chiedere in quale senso – se non quello vuoto ed estetizzante del realismo capitalista – lo è invece un sistema che, perfino in tempi di gravissima crisi, sottrae milioni e milioni di pubblico denaro ai contribuenti, ai docenti e agli studenti, indirizza a indagare non su quello che ci interessa ma su quello che viene citato, induce a trattative segrete ed accordi capestro, riduce la scienza aperta a un costoso adempimento burocratico e i ricercatori a vassalli o a complici dei signori della valutazione. Il suo testo, molto breve, meriterebbe dunque di essere letto per intero, soprattutto da chi, invece di affrontare i monopoli, preferisce scendere a patti con essi.

image_print
Tags:

Accessi: 403