Andrea Passoni, Economia delle piattaforme e architettura digitale delle scelte

Andrea Passoni ha depositato sull’archivio Marini Economia delle piattaforme e architettura digitale delle scelte. Appunti sull’alternativa cooperativa, su un tema di grande attualità, la cosiddetta sharing economy. A dispetto del nome accattivante, molte delle sue esperienze più note ricadono nel registro del platform capitalism – sistema da più parti criticato perché, non diversamente dal capitalismo “tradizionale”, tenderebbe a distribuire iniquamente la ricchezza, a disconoscere i diritti dei lavoratori e a privatizzare il welfare minacciandone l’universalità e la qualità. Al platform capitalism si sono tentate di contrapporre forme di platform cooperativism. Capitalismo e cooperativismo delle piattaforme, però  possono essere valutati appieno solo se viene preso sul serio il problema generale dell’architettura digitale delle scelte e del suo condizionamento sulla nostra identità collettiva.

Il testo di Andrea Passoni, che è solo una tappa di un lavoro ancora in corso, è liberamente disponibile qui.

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From the Past to the Future. Alcune riflessioni dopo DH2016

Digital humanities 2016Al rientro da Cracovia, dopo quattro giornate intense e ricche di stimoli, cerco di ordinare alcune riflessioni sparse che mi porto a casa dopo questa bella esperienza di condivisione di idee con la comunità mondiale di Digital Humanities, ritrovatasi in Europa per la conferenza DH2016. Non è facile ricomporre un quadro completo dei molti stimoli ricevuti. Alla conferenza hanno partecipato più di 900 persone, i tweet con l’hashtag #DH2016 hanno costruito, live, una conferenza parallela, e non riesco ancora a districarmi nel programma, nonostante lo abbia portato sempre con me in versione cartacea, come una bibbia, consultato e annotato con Pundit qui sul web. Butto giù, allora, qualche idea in forma di suggestioni piuttosto che una riflessione strutturata, per condividere alcuni spunti.

La prima suggestione mi viene dal titolo della conferenza Digital Humanities scelto per l’edizione di quest’anno, “From the Past to the Future”. Vorrei ripercorrerla attraverso alcuni ricordi. Vado a cercare il sito della prima e unica conferenza che ho seguito, nel 2004 a Göteborg. Al tempo non si chiamava ancora DH ma ALLC/ACH, doppio acronimo di Association for Computers and the Humanities e Association for Literary and Linguistic Computing, segno di un’impronta ancora orientata a identificare l’applicazione delle ICT alle scienze umane prevalentemente con la linguistica computazionale. Della conferenza di Göteborg sul vecchio sito ora visibile sull’Internet Archive si trovano alcune fotografie scattate sul battello che ci portava alla cena sociale, ospitata in una cupa fortezza, Älvsborgs fästning, sulla foce del Göta älv.

Ricordo bene le ottime colazioni svedesi, le chiacchierate con Elena Pierazzo, conosciuta in quell’occasione e poi ritrovata a Pisa, e il poster “The Hyper-Learning project” che portammo con Michele Barbera e che vinse la poster slam. Ricordo anche molto bene la suggestiva conferenza di Susan Hockey, Roberto Busa Award Lecture 2004, e, più di tutto, le lunghe discussioni sullo standard XML-TEI e i suoi sviluppi. Il tempo non è passato invano, ed è trascorso nel segno della continuità: lo dimostra il premio Antonio Zampolli, attribuito a Cracovia proprio al consorzio TEI, a sancire che l’accreditamento dell’iniziativa volta a creare uno standard comune di codifica XML nella comunità degli umanisti è totalmente compiuto.

La seconda suggestione si aggancia alla conclusione della precedente: a distanza di dodici anni, esiste oggi, all’interno della comunità degli umanisti digitali, una convergenza di vedute sugli standard, dalla TEI a EDM e altri Data Model, ed è presente e condivisa l’idea di aderire a macro-infrastrutture comuni che agiscano da connettori di servizi, come dimostra la forte presenza di DARIAH e di progetti a essa correlati. Mi ha comunque colpito l’assenza di Europeana, la grande biblioteca digitale europea, fatta eccezione per il poster “Reflecting On And Refracting User Needs Through Case Studies In The Light Of Europeana Research”. Pur riconosciuta come iniziativa imprescindibile e nonostante il successo di progetti pilota come DM2E – Digitised Manuscripts to Europeana, il riuso dei dati di Europeana trova nella pratica scarsa applicazione. Ho poi riscontrato un’adesione comune, in linea di principio, alla visione open access e al tema dell’apertura dei dati, anche se mancano, almeno nella percezione che ho avuto, esempi reali di progetti che implementino policy open access e, soprattutto, open data, ed è quasi del tutto assente il riferimento all’open science, se non come tendenza verso cui si deve convergere come effetto dei mandati degli enti finanziatori. A tale proposito hanno costituito un’eccezione l’utilissimo panel organizzato dalla Research Data Alliance Digital Data Sharing: Opportunities and Challenges of Opening Research, in cui sono stati presentati casi concreti di gestione di open data umanistici nel Digital Repository of Ireland, e il panel dello stesso pomeriggio Are the Digital Humanists Prepared for Open Access to Research Data? coordinato da Vittore Casarosa, a cui hanno partecipato volti noti del movimento open access come Anna Maria Tammaro e Pierre Mounier di Open Edition. Di natura più teorica del primo, quest’ultimo è stato purtroppo poco partecipato, fornendo una risposta implicita alla domanda che lo intitolava.

Io credo che l’accesso ai dati della ricerca sia un punto importante, che riguarda soprattutto la sostenibilità dei progetti a cui si lavora. L’adozione di formati di dati e di standard condivisi si dovrebbe accompagnare al deposito dei dati di ricerca in repository pubblici aperti, possibilmente internazionali come Zenodo.org. Questa soluzione solleverebbe tra l’altro la comunità scientifica dalla preoccupazione di garantire l’accesso ai dati della ricerca oltre la normale vita di un progetto, di quella lavorativa o, al limite, di quella umana. Consentire l’accesso ai dati nel tempo e favorirne il riuso, anche in forme nuove e inaspettate per chi li ha prodotti, è una questione centrale per l’affermarsi dell’open science, e così dei principi e delle pratiche di condivisione della conoscenza.

Engraving of John Cosin, Bishop of DurhamLa terza e ultima suggestione riguarda, per finire, una riflessione che ha avuto origine dal Keynote di Claire WarwickTouching the interface: Bishop Cosin and unsolved problems in (digital) information design”, che ha chiuso la conferenza di Cracovia. La Warwick ha sottolineato l’importanza che la biblioteca fisica ha avuto in passato e che tutt’oggi riveste nella formazione dei giovani, che continuano a sceglierla come luogo in cui imparare in compagnia di altre persone che fanno la stessa cosa, un luogo ibrido, oggi un misto di digitale e analogico (una foto suggestiva ha mostrato un gruppo di studenti in biblioteca, con tavoli cosparsi di computer portatili e di libri annotati).

Le questioni articolate e stimolanti che Claire Warwick ha posto a partire da queste considerazioni iniziali sono ben sintetizzate nell’abstract:

Some problems in the design of digital resources have turned out to be unexpectedly difficult to solve, for example: why is it difficult to locate ourselves and understand the extent and shape of digital information resources? Why is digital serendipity still so unusual? Why do users persist in making notes on paper rather than using digital annotation systems? Why do we like to visit and work in a library, and browse open stacks, even though we could access digital information remotely? Why do we still love printed books, but feel little affection for digital e-readers? Why are vinyl records so popular? Why is the experience of visiting a museum still relatively unaffected by digital interaction? The answer is very emphatically not because users are luddites, ill-informed, badly-trained or stupid.

I will argue that the reasons these problems persist may be due to the very complex relationship between physical and digital information, and information resources. I will discuss the importance of spatial orientation, memory, pleasure and multi-sensory input, especially touch, in making sense of, and connections between physical and digital information. I will also argue that, in this context, we have much to learn from the designers of early printed books and libraries, such John Cosin, a seventeenth-century bishop of Durham, who founded the little-known marvel that was the first public library in the North of England, and still exists, intact; one of the collections of Durham University library.

Si tratta di temi fondamentali attorno ai quali è però mancata, a mio avviso, una riflessione sui limiti, in termini di usabilità, degli strumenti digitali di cui dispongono gli umanisti e, in generale, i ricercatori, come ho scritto in questo tweet di commento:

I expected a few more words on how to make more usable tools and digital environments. A lack in #DH2016. Hope in #DH2017

— Francesca Di Donato (@ederinita) 15 luglio 2016

Il tweet è nato da un pensiero spontaneo legato alla sensazione – che è stata costante per tutta la conferenza e che mi si è manifestata con chiarezza nella lezione conclusiva proposta dalla docente di Durham – di avere di fronte strumenti potenti e utili ma improntati prevalentemente sull’idea di chi li ha pensati e li usa per fare ricerca, e pochissimo sui bisogni degli utenti.

Io credo che anche l’usabilità e lo studio dell’esperienza e delle esperienze degli utenti riguardino l’accesso alla conoscenza e che, di più, ne siano una condizione necessaria al pari dell’apertura dei dati. Si tratta allora forse, in termini più generali, di ripensare l’idea di biblioteca digitale liberandola dai vincoli che ancora la modellano su quella fisica. Siamo ancora molto legati ai paradigmi delle biblioteche fisiche e cerchiamo di riprodurre tale paradigma in ambito digitale, ma è un errore. Allora quello che dovremmo essere in grado di imparare da John Cosin non è come ordinare i libri in uno scaffale virtuale ma come cercare di offrire un’esperienza piacevole alle persone che vogliono trovare, leggere e interagire con risorse digitali. La biblioteca di Cosin è a tutti gli effetti un’interfaccia e l’opera, frutto di una riflessione che si è articolata nei secoli, è a tutti gli effetti il risultato di uno studio di User Centered Design.

Possiamo pensare la biblioteca digitale, in astratto, come un insieme di dati strutturati, pubblicati in diversi formati standard in numerosi repository, potenzialmente federati, che acquistano senso attraverso interfacce progettate a partire dall’esperienza e dai bisogni di utenti. Le interfacce possono essere molte e diverse, e rispecchiare le diverse interpretazioni di chi le progetta. Una sorta di forma nuova di articoli scientifici che, pur partendo dai medesimi dati, mantengono la propria originale unicità. A uno strato intermedio e separato ci sono i tool che consentono di creare e di gestire flussi di lavoro ad hoc per i gruppi di ricerca che lavorano sui dati al fine di costruire, a partire da essi, nuove interpretazioni. Ma i tool dovrebbero tornare a essere mezzi, e non scopi in sé, e più attenzione si dovrebbe dare ai modi in cui offriamo una interpretazione dei dati, attraverso le “viste” che ne proponiamo, concentrando la maggior parte della ricerca sulle interfacce che costruiamo.

Dovremmo fare in modo che i dati siano strutturati bene e messi “al sicuro”, per dare più spazio al modo in cui vogliamo rappresentarli, sapendo (e sperando) che altri verranno dopo e ne daranno a loro volta nuove interpretazioni e rappresentazioni in forma nuova. Dobbiamo spendere nella progettazione di tali viste più attenzione, più energie, e non accettare come un dato di fatto che il mondo analogico, tattile, fisico, risponda necessariamente meglio al nostro bisogno di capire, di conoscere, di consolidare la conoscenza. Senza scordarci che le difficoltà che incontriamo nel relazionarci a oggetti e a spazi, tanto fisici quanto digitali, dipendono più spesso dalle incapacità di chi li ha progettati che da nostri limiti. Lo scriveva Donald Norman ne La caffettiera del masochista, un classico che ci spinge a considerare anche il design come una questione di accessibilità, e dunque di apertura. Potrebbe essere una prospettiva, tra le tante, con cui guardare al tema dell’accesso alla conferenza DH2017 di Montreal, che sarà a esso dedicata.

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Uscire di minorità: il diritto dell’autore, preso sul serio

Logo Aisa “Roars” ha da poco dedicato un articolo alla proposta di legge avanzata dall‘Aisa sul diritto di ripubblicazione delle opere scientifiche.

Rebus sic stantibus è difficile, per gli studiosi incardinati nelle università e negli enti di ricerca fare uso pubblico della ragione, proprio a causa del combinato disposto di un sistema di valutazione della ricerca autoritario e prevalentemente bibliometrico e della venerazione del cosiddetto copyright editoriale. Ma liberare gli autori scientifici non è utopistico né, tanto meno, difficile: basta una piccola modifica alle legge sul diritto d’autore, come è già stato fatto in Germania e in Olanda.

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Chiara Mastroberti, Assoggettamento e passioni nel pensiero politico di Judith Butler

La nostra collana ad accesso aperto si arricchisce del volume di Chiara Mastroberti, Assoggettamento e passioni nel pensiero politico di Judith Butler, presentato sul sito di Firenze University Press e liberamente disponibile qui.

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Molto, in fretta, male: una carta per l’ineccellenza

Toccato più tardi degli altri settori, il mondo universitario ha adottato l’ideologia dell’ “eccellenza” col fervore dei neofiti. Nella scia degli accordi di Bologna, che sancivano, principalmente, l’introduzione del principio della concorrenza nelle università europee, sembrava cruciale curare la propria immagine, trasformare la propria istituzione in una macchina da guerra in grado di assorbire i migliori crediti, i migliori docenti e ricercatori, il maggior numero di studenti e di rafforzare il proprio posizionamento nazionale e internazionale. In un contesto di penuria e di crisi, la preoccupazione di un rapido ritorno sugli investimenti contribuiva inoltre a rendere sistematica una amministrazione della ricerca e dell’insegnamento basata su indicatori. [Charte de la désexcellence. 2014]

Antonello_da_Messina_-_St_Jerome_in_his_study, Wikimedia commons L’ondata di “riforme” che tuttora investe l’università ha condotto gli studiosi a occuparsi di più di comunicazione e di bibliometria, sacrificando – in una sorta di feticismo – al culto dell’eccellenza misurata da indicatori esterni, il perseguimento della qualità oggettiva e soggettiva del lavoro di ricerca.  Fare ricerca innovativa, però, non è identico ad avere molte citazioni; essere ricercatori di successo non equivale a essere buoni ricercatori, disporre di molto tempo libero non è identico a essere degli oziosi.

La Charte de la désexcellence, di cui offriamo un adattamento italiano, è un progetto di un gruppo di ricercatori dell’Université libre de Bruxelles, reso pubblico nel 2014. Rispetto alla molte critiche che vedono nell’iper-organizzazione un consapevole impedimento alla ricerca e all’innovazione, questo testo è una proposta d’azione. Non basta, infatti, dissentire dall’ideologia dell’eccellenza a parole e però continuare a pubblicare negli stessi circuiti in cui essa viene praticata e verificata. Occorre prenderne le distanze nel comportamento quotidiano – cosa, oggi, ancora relativamente più facile che nella scienza di stato della prima metà del secolo scorso.

L’idea che la ricerca possa rimanere tale solo se animata da spirito di condivisione, disinteresse e onestà e da piaceri non identici a quelli contabili non è certo nuova. I fautori dell’ineccellenza vogliono però impegnarsi e far impegnare in qualcosa di più di una presa di posizione teorica da macinare nei circuiti proprietari della comunicazione e della valutazione accademica. Vogliono che chi ancora oppone all’ideologia dell’eccellenza l’onore del proprio lavoro usi gli interstizi che  rimangono nell’accademia iper-organizzata dal big business e dal big government per creare zone di resistenza e gettare – o conservare – il seme di un’università pubblica fondata sul dialogo e sulla solidarietà.

Socrate, nel Simposio, riesce a spostare la discussione dalla retorica alla dialettica – e dall’economia alla filosofia – semplicemente avendo il coraggio di dichiararsi non competitivo e di pretendere di discutere alla sua maniera. Gli ineccellenti pensano che anche noi dobbiamo avere un simile coraggio, nei fatti prima che nelle parole.

Insegnamento

L’insegnamento è una missione essenziale dell’università. Non è oggetto di consumo e non deve essere redditizio. Gli ineccellenti, di conseguenza, s’impegnano a:

  • promuovere, nell’organizzazione degli insegnamenti, la logica del sapere e non quella dell’aumento del numero di iscritti;
  • difendere l’accesso libero all’università da parte degli studenti;
  • opporsi a una amministrazione delle materie d’insegnamento sottomessa alle mode e al numero degli iscritti;
  • criticare pubblicamente i discorsi e i processi che trasformano le università in istituzioni strettamente professionalizzanti, promettendo l’acquisizione di competenze immediatamente operative;
  • rifiutare di trattare gli studenti come “clienti” o “consumatori”, e dunque
    • considerare la ricerca nella sua natura attiva e interdisciplinare come il cuore dell’insegnamento;
    • combattere l’infantilizzazione degli studenti, dovuta, fra l’altro, alla standardizzazione dei contenuti e delle aspettative, e proporsi invece di formare adulti curiosi e critici;
  • evitare di ricorrere a sistemi di valutazione precostituiti e standardizzati;
  • promuovere, nei propri corsi, una riflessione che permetta, a un tempo, l’acquisizione e lo sviluppo di utensili e una migliore comprensione del mondo e della sua evoluzione;
  • rifiutare di elaborare dei repertori di competenze [référentiel des compétences] il cui obiettivo principale non sia la fioritura intellettuale e personale degli studenti e dei docenti nell’indagine teoretica e pratica;
  • promuovere riflessioni pedagogiche collettive per attenuare le scandalose deficienze della valutazione standardizzata dei nostri insegnamenti;
  • vigilare perché gli ausili pedagogici standardizzati e il loro eventuale tecnicismo non aumentino l’uniformità e il livellamento dei corsi;
  • rifiutare di promuovere, partecipare o organizzare corsi e tirocini economicamente discriminanti;
  • rifiutare di assumere o promuovere docenti-ricercatori esclusivamente in base alla loro ricerca o alla loro capacità di ottenere dei fondi;
  • valorizzare l’esperienza professionale al momento dell’assunzione solo se è in grado di alimentare le missioni universitarie dell’insegnamento e della ricerca;
  • pretendere che ogni valutazione dell’insegnamento interna ed esterna renda espliciti i suoi criteri e i suoi obiettivi e che permetta di esprimere pareri fondati su criteri diversi.

Ricerca

Fare ricerca significa creare conoscenze aperte e diversificate. Non è un’intrapresa produttivista e utilitarista, né ha per scopo la fabbricazione di prodotti finiti. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • considerare didattica e ricerca come teoricamente e praticamente inseparabili e interdipendenti;
  • difendere la libertà di scegliere i temi di ricerca, al di fuori di ogni criterio di redditività;
  • rifiutare l’attuale logica della valutazione, che mette in competizione ricercatori ed enti di ricerca e mortifica la collaborazione, e quindi:
    • non dare nessun credito ai ranking internazionali e denunciare incessantemente le loro finalità e i loro metodi;
    • partecipare e sottoporsi a valutazioni solo a condizione che promuovano l’auto-valutazione dei gruppi di ricerca e la discussione di criteri stabiliti collegialmente;
    • rifiutare di importare criteri di valutazione standardizzati nel dominio della ricerca;
    • render conto alla società, senza per questo essere dipendenti dalla domanda sociale o privata. La ricerca deve ascoltare il mondo, ma essendo abbastanza autonoma da non farsene dettare l’agenda;
  • rispettare, nelle procedure di assunzione  e di promozione, queste regole:
    • non accettare metodi di reclutamento che sfavoriscano implicitamente i candidati locali;
    • sottrarsi all’egemonia di criteri quantitativi (rango accademico, numero di pubblicazioni, fattore d’impatto, indice H…) e dar priorità alla valutazione dei contenuti;
    • non usare il post-dottorato all’estero come criterio di selezione (discrimina i poveri e le donne);
    • pretendere formulari di candidatura e di valutazione che comprendano criteri qualitativi e lascino spazio ad argomentazioni circostanziate;
    • esigere che, in tutta la catena di selezione, vi siano posti accessibili anche a candidati che si scostino dai criteri quantitativi;
    • non dare priorità all’unità o al centro di ricerca di provenienza nei criteri di selezione delle domande individuali;
    • rifiutare la mobilità non sostenuta da un programma finanziario adeguato;
  • per quanto concerne  le pubblicazioni, non sottomettersi all’ossessione produttivista ma prendersi il proprio tempo e diffondere il frutto della propria ricerca anche fuori dal mondo accademico, vale a dire:
    • non accordare credito agli indicatori bibliometrici nella gestione delle carriere e nella selezione dei progetti di ricerca;
    • non cercare mai di conoscere gli indicatori bibliometrici propri e dei colleghi e creare zone bibliometricamente libere;
    • attirare l’attenzione dei giovani ricercatori sui pericoli dell’ideologia dell’eccellenza che dà priorità alla quantità e alla velocità rispetto al contenuto;
    • preferire la pubblicazione di testi sintetici – libri, articoli, saggi – piuttosto che la loro segmentazione e ripetizione;
    • rifiutare di aggiungere la propria firma ad articoli alla cui stesura non si sia  partecipato attivamente;
    • favorire termini di consegna abbastanza lunghi da permettere una scrittura di qualità;
    • favorire la composizione comune di opere pubblicate a firma collettiva;
    • non limitarsi all’inglese come lingua di pubblicazione;
    • stare attenti a non firmare contratti d’edizione che permettano l’espropriazione mercantile del proprio lavoro;
    • pubblicare in riviste ad accesso aperto quanto più sistematicamente possibile;
    • continuare a pubblicare in riviste locali, regionali, nazionali e per gli editori universitari che si impegnano alla diffusione pubblica dei risultati di ricerca;
    • promuovere la discussione collettiva delle proprie ricerche, dentro e fuori l’accademia;
    • continuare a comporre testi che rendano disponibile il frutto della propria ricerca anche a un pubblico non accademico;
    • rifiutare di trasformare il lavoro di pubblicazione in un pretesto esplicito o implicito per sottrarsi o trascurare l’impegno in altri settori della vita universitaria;
  • opporsi alla trasformazione di dipartimenti e laboratori in cellule manageriali:
    • favorendo la loro gestione collegiale e democratica e l’alternanza nelle cariche direttive, o, se risulta impossibile, creare altre strutture che la permettano;
    • pretendendo il riconoscimento di strutture di ricerca interdisciplinari nelle università;
    • autorizzando modalità differenti di collegamento, o anche di scollegamento, delle persone dalle unità di ricerca;
    • condividendo la propria ricerca con chi vogliamo noi, anche oltre i limiti imposti da raggruppamenti e reti istituzionali:
    • considerando i dottorandi, in qualsiasi circostanza, come compagni di ricerca;
    • proteggendo la libertà accademica dei dottorandi nella loro ricerca;
    • informando con sincerità i candidati al dottorato sulle loro effettive prospettive future;
    • impegnandosi, malgrado la precarizzazione e la pressione salariale, a rispettare la dignità del lavoro e dei lavoratori:
    • rifiutando di sfruttare a fini personali i risultati di una ricerca compiuta collaborativamente;
  • rifiutare gli incarichi amministrativi che danneggiano il proprio insegnamento e la propria ricerca (relazioni di tutti i tipi, valutazioni a ripetizione, redazione di progetti di ricerca);
  • trattare i frutti della ricerca finanziata in tutto o in parte dal pubblico come patrimonio della società;
  • pretendere che i contratti di ricerca conclusi con attori pubblici  e privati non ostacolino l’uso e la diffusione dei risultati a tutti.

Amministrazione

L’amministrazione è una componente essenziale del funzionamento dell’università, e non l’attrezzatura malleabile e passiva dei nuovi manager dell’istituzione. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • pretendere che sia assunto personale strutturato in quantità adeguata, con condizioni di lavoro soddisfacenti. Questo implica che:
    • non si debbano intraprendere nuove iniziativi didattiche e di ricerca senza aver prima accertato che i mezzi amministrativi ne permettano l’esecuzione;
    • si richieda e si ascolti il parere del personale amministrativo;
    • si riconosca l’importanza dell’amministrazione nei processi decisionali;
  • valorizzare e mobilitare le risorse interne piuttosto che ricorrere a competenze e tecniche (amministrative, informatiche etc.) esterne, inadatte alle specificità dell’università;
  • permettere agli amministratori di trattare gli studenti come uguali, senza considerazioni strategiche legate al loro profilo (nazionalità etc.).

Servizio alla collettività

Per gli ineccellenti la missione delle università è il servizio alla collettività. Gli atenei sono e devono restare luoghi aperti e connessi alle questioni sociali. Il loro servizio, però, non deve ridursi né a una ricerca che risponda alle esigenze immediate delle autorità e del mercato – compreso quello del lavoro -, né all’offerta di vuote competenze mediatiche piegate alla logica della visibilità personale e istituzionale. Di conseguenza, gli ineccellenti si impegnano a:

  • difendere la libertà d’espressione dei membri dell’università sulle questioni sociali, comprese quelle che implicano una critica all’istituzione;
  • promuovere l’impegno nella società di attori, saperi e valori dell’università (tramite associazioni, movimenti, collettivi impegnati, società scientifiche locali e così via), per reciproco insegnamento ed emancipazione collettiva;
  • rispondere positivamente alle richieste delle abilità universitarie da parte della società civile;
  • creare strumenti di contatto e di discussione fra scienziati e non specialisti – quali luoghi, eventi, organi di stampa, modalità di comunicazione e così via;
  • sottrarsi al richiamo della visibilità a tutti i costi, declinando in particolare gli inviti mediatici che impongono scansioni temporali incompatibili con le spiegazioni complesse e non danno luogo a un diritto d’accesso ai contenuti diffusi.

Il documento mi è stato segnalato da Brunella Casalini. I proponenti originali sono: Emmanuelle Bribosia, Brigitte D’Hainaut-Zveny, Jean-Michel Decroly, Chloé DeligneOlivier Gosselain, Jean-Jacques Heirwegh, Pierre Lannoy, Guy Lebeer, Alexandre Livingstone Smith, Jacques Moriau, Valerie Piette, Barbara Truffin, Mathieu Van Criekingen, Eléonore Wolff.

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“Sono i [meta]dati, stupido”: perché Elsevier ha comprato SSRN

Queen Mary’s Psalter, Wikimedia commons A riprova di quanto sia pericoloso confondere un social medium accademico proprietario, ancorché relativamente accessibile, con un archivio ad accesso aperto, vale il recentissimo annuncio dell’acquisto di SSRN da parte della multinazionale dell’editoria scientifica Elsevier.  Anche se molti autori temono che i testi da loro depositati vengano resi meno accessibili, il rischio più serio non è questo. Elsevier, infatti, grazie a SSRN, e alla possibilità di connetterlo a Mendeley, di cui si era già impadronita in precedenza, metterà le mani su un’enorme quantità di metadati.
Come spiega Christopher M. Kelty in It’s the Data, Stupid: What Elsevier’s purchase of SSRN also means, SSRN in realtà non dispone di metadati particolarmente sofisticati: il numero degli autori, il numero di articoli per autore, il numero di scaricamenti e il numero di citazioni per articolo. Queste cifre, tuttavia, sono preziose perché vengono da un grande archivio accessibile, anche se non propriamente ad accesso aperto, e interdisciplinare, non connesso a nessuna aggregazione editoriale e a nessun sistema di metrica proprietario. La sua prospettiva, dunque, è molto più ampia di quella accessibile non soltanto a una singola riviste, ma anche a un singolo editore, per quanto grande possa essere.
Quindi: se le burocrazie accademiche e gli studiosi stessi continueranno a valutare e far valutare la loro ricerca con statistiche d’impatto, Elsevier potrà aiutarli a farlo – presumibilmente non a titolo gratuito.
Kelty suggerisce che il comunicato stampa di Elsevier:

Elsevier is actively linking data and analytics to its vast content base in ways no other potential SSRN partner can match. By connecting Mendeley, Scopus, ScienceDirect and its editorial systems, they’re helping researchers get a more complete picture of their research landscape. Institutions will also benefit with a better view of their researchers’ impact [corsivi miei].

debba essere tradotto così:

  • “helping researchers get a more complete picture” significa: “saremo in grado di produrre statistiche d’impatto applicabili al singolo ricercatore”;
  • “Institutions will also benefit” significa: “per queste statistiche le università saranno disposte a pagare un sacco di soldi”.

I metadati di SSRN erano già proprietari; con il suo acquisto si aggregheranno ad altri metadati entro un più ampio e pervasivo sistema editoriale proprietario, che, con tutta probabilità, pianifica di spostarsi dalla contestata e vulnerabile pubblicazione ad accesso chiuso a forme più avanzate di feudalesimo digitale.   Chi li comprerà accetterà, ancora una volta, che alla formazione dei criteri di valutazione della ricerca contribuiscano oligopoli il cui interesse è molto lontano da quello della scienza. Il mondo accademico che ci siamo costruiti, scrive Kelty, è un mondo in cui “un gran quantità di giudizi su qualità, reclutamento, avanzamento di carriera, conferimento di cattedre e premi è decisa da metriche poco trasparenti offerte da aziende a scopo di lucro.”

Ci va bene così? Se sì, possiamo lasciare i nostri articoli su SSRN avendo probabilmente poco da temere per la loro accessibilità. Se no, non è difficile spostarli  su un vero archivio ad accesso aperto.  Basta farlo.

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