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Misura responsabilmente. COARA, la riforma della valutazione della ricerca e l’Unione Elusiva

Affiche - L'Alcool est un Poison

Un ministro francese convocò alcuni dei commercianti più stimati, per chiedere loro suggerimenti sul modo in cui poter sollevare le sorti del commercio, come se intendesse scegliere l’avviso migliore. Dopo che uno ebbe suggerito questo e l’altro quel rimedio, un vecchio commerciante, che fino ad allora era rimasto in silenzio, prese a dire: costruite buone strade, battete buona moneta, accordate uno diritto snello in materia di cambio e così via; quanto al resto, ‘lasciateci fare!’ Questa sarebbe la risposta che dovrebbe dare la facoltà di filosofia, se il governo le chiedesse quali dottrine deve imporre agli studiosi: solo di non impedire il progresso delle idee e delle scienze.1

1. Il ritorno della qualità

COARA è una coalizione composta promiscuamente da università, enti di ricerca, associazioni scientifiche e agenzie di valutazione che si è formata in seguito all’Agreement on Reforming Research Assessment (ARRA), reso pubblico nel luglio 2022. La coalizione comporterebbe un reciproco impegno a superare o integrare la valutazione amministrativa della ricerca, che è bibliometrica e quantitiva, e a riconoscere la sua qualità e varietà tramite la revisione fra pari.

Secondo un articolo offerto alla revisione paritaria aperta da Francesca Di Donato, che è fra i redattori dell’accordo, per riconoscere la qualità occorrerebbe riaffermare, al modo di Kant, l’autonomia della comunità scientifica. Kant assegnava la ricerca di base alla facoltà di filosofia e trattava la valutazione come intrinseca alla ricerca stessa, se per ricerca si intende “l’esercizio di un metodo che consiste nel sottoporre a critica qualsiasi dottrina, e come tale è presupposto essenziale di ogni conoscenza”. Una valutazione di questo tipo, però, non può svolgersi senza “libere comunità di pari che imparano dai propri errori e si correggono costantemente a vicenda.” Perciò, conclude Francesca Di Donato, per riportare la qualità nella ricerca “non basta cambiare il modo in cui si valuta”: occorre sviluppare un principio dell’accordo ARRA (pp. 3, 5, 6, 9) – quello di coinvolgere la comunità scientifica, incoraggiandola a “controllare collettivamente le infrastrutture necessarie per il successo della riforma.”

Vale però la pena ricordare che i quattro impegni fondamentali dell’accordo ARRA, riassunti qui a fianco, riguardano il come si valuta. Il coinvolgimento della comunità scientifica è fra gli impegni di sostegno ed è spesso formulato in modo da far pensare che questa possa offrire suggerimenti, di nuovo, sul come si valuta, dando per scontato chi valuta, e dunque la sua legittimazione e la sua assenza di conflitto di interessi. Come recita, per esempio, la spiegazione del punto 6.1 (in traduzione italiana a p. 17, corsivo aggiunto) “questo impegno garantirà che le autorità nazionali / regionali / organizzative e le agenzie di valutazione rivedano e, se necessario, sviluppino criteri per la valutazione delle unità e delle istituzioni di ricerca, in conformità con i Principi”.

2. Valutatori e valutati

L’origine dell’ Agreement on Reforming Research Assessment su cui si basa COARA ha poco a che vedere con Kant. È infatti esito di un’iniziativa che non nasce fra gli studiosi, bensì nella Commissione, con il sostegno del Consiglio dell’Unione Europea, quando la pandemia di Covid-19 mostrò anche ai più conservatori che una valutazione della ricerca basata sulla quantità di pubblicazioni e citazioni non garantisce, come tale, né accessibilità né qualità alla scienza.

Sebbene gli organi dell’Unione Europea abbiano fondato la loro iniziativa su numerosi studi, sia indipendenti sia su commissione, il loro intervento non ha preso di mira le infrastrutture, bensì la qualità della ricerca.

Per riconoscere la qualità di un’opera – ha ammesso l’Unione Europea – bisogna leggerla e comprenderla: per questo una valutazione che la prenda sul serio deve mettere in primo piano la revisione fra pari, compiuta dagli studiosi stessi, e usare la bibliometria in modo “responsabile”. E però il difetto della bibliometria – la pretesa di valutare la ricerca solo quantitativamente, senza leggerla e senza capirla – diventa una virtù, quando la valutazione, strappata alle comunità degli studiosi, è affidata ad agenzie governative centralizzate. La revisione fra pari – si dice – non può essere usata come arma di valutazione di massa perché non è scalabile. La bibliometria invece lo è, proprio perché esonera dalla lettura e dalla comprensione.

Come possiamo dunque sperare di eliminare o ridimensionare l’uso valutativo della bibliometria senza ridimensionare o eliminare le agenzie amministrative centralizzate – quali l’ANVUR italiana e l’ANECA spagnola – a cui il governo ha conferito il compito della valutazione di massa?

COARA, che pure non ammette gli editori scientifici commerciali per il loro evidente conflitto di interessi, non si è posta questo problema: non solo le agenzie statali di valutazione ne possono fare parte, ma possono addirittura sedere nel suo consiglio direttivo. Semplice distrazione o consapevole ambiguità?

Come riferisce Francesca Di Donato il secondo impegno di ARRA richiede che la ricerca sia valutata tramite la lettura e la discussione delle opere dei ricercatori. La revisione fra pari è dunque fondamentale, come parte di un dibattito scientifico pubblico che dovrebbe essere esso stesso oggetto di ricerca, allo scopo di “tenere il meccanismo efficiente e vitale”. Inoltre, il terzo impegno patrocina una “misurazione responsabile”, che prenda congedo “dagli usi inappropriati di indicatori come il fattore d’impatto delle riviste e l’indice H”.

A chi è destinata la ricerca sul dibattito scientifico? Alla riflessione della comunità scientifica o ai valutatori amministrativi per sperimentazioni behavioristiche in corpore vili? Come racconta Melinda Baldwin, negli USA la revisione paritaria chiusa in doppio cieco divenne marchio di scientificità per motivi politici: l’esibizione della procedura permise di sfuggire allo scrutinio del Congresso sui finanziamenti pubblici alla ricerca. Questo arrocco – nella veste di una versione procedurale dell’ipse dixit – non è stato privo di conseguenze, e non solo in termini di conformismo.2 Ma una cosa è un’autocritica della comunità scientifica sul proprio uso pubblico e privato della ragione, un’altra è che funzionari o studiosi-funzionari ne facciano un impiego amministrativo, coinvolgendo, o no, i ricercatori semplici.

3. “Negazionismo bibliometrico”

A chiarire la posizione di COARA, o, almeno, di chi la guida, ha aiutato la recente accusa di “negazionismo bibliometrico”, a cui Luciana Balboa, Elizabeth Gadd, Eva Mendez, Janne Pölönen, Karen Stroobants, Erzsebet Toth Cithra e l’intero consiglio direttivo di COARA si sono affrettati a rispondere cosi:

Usare solo la scientometria per valutazioni a livelli di granularità più bassi, cioè per la valutazione degli individui, che comprende scopi importanti quali l’assegnazione di riconoscimenti (finanziamenti, posti di lavoro), è altamente problematico. In casi come questi si dovrebbe preferire la revisione paritaria.

Tuttavia

l’uso della scientometria a livelli di aggregazione superiori, come quello nazionale o universitario, e per forme di valutazione meno importanti come la conoscenza scientifica, è molto meno problematico (anche se ancora imperfetto).

La loro risposta mostra anche la consapevolezza della difficoltà di tener confinata la bibliometria a livelli superiori. Un ricercatore che si trova a lavorare in un’istituzione valutata e finanziata con criteri quantitativi sarà spinto a orientarsi bibliometricamente, a dispetto di tutti gli impegni a farne un uso responsabile.

Resta il fatto che una dipendenza eccessiva da una scientometria pur responsabile può comunque avere un impatto negativo, per trascinamento, sull’ecosistema della valutazione della ricerca. Un uso legittimo della bibliometria per comprendere l’attività a livello di paese può velocemente estendersi ai criteri di promozione, se, a livelli di aggregazione superiori, si associa alla valutazione bibliometrica un riconoscimento troppo grande.

La risposta rende chiaro che COARA non intende eliminare le armi di valutazione di massa e le agenzie statali che ne fanno uso, bensì solo limitarne il danno. Quanto all’effetto trascinamento (trickle-down) la soluzione – si dice – può essere il principio 9 del Leiden Manifesto for the responsible use of bibliometrics, il quale suggerisce di adottare “un insieme di indicatori” invece che “uno solo”, in modo da render difficili la manipolazione (gaming) e la trasformazione dell’indicatore in obiettivo.

Se non ci accontentiamo di soluzioni “soluzioniste”, dobbiamo però ricordare che è così facile manipolare il sistema perché gli indicatori bibliometrici sono connessi solo ortogonalmente alla qualità della ricerca, anche se sono indispensabili alle burocrazie valutatrici centralizzate, munite o meno di programmi per computer, perché incapaci di leggere e comprendere la scienza non solo come è scritta, ma anche com’è fatta. I ricercatori non sono necessariamente più truffaldini del resto della popolazione: semplicemente, sono esposti alla tentazione di truccare il sistema per amor di carriera o di mera sopravvivenza accademica proprio perché sottomessi a criteri di valutazione che non afferrano la sostanza della scienza. La prima manipolazione del sistema, in altre parole, è il sistema stesso.3

E il sistema è anche, letteralmente, un sistema di sottomissione: chi guida COARA si è sentito in dovere di rispondere a critici che non parlano come ricercatori che si rivolgono a colleghi, ma con i toni del padrone, o del consulente del padrone, che vede gli studiosi come risorse il cui uso va ottimizzato.

Nel ventunesimo secolo, patrocinare una valutazione della ricerca basata sulla revisione paritaria invece che su metodi scientometrici appare obsoleto e controproducente. Da decenni si va perseguendo una costante innovazione tecnologica trainata dalla necessità di ottimizzare risorse limitate quali gli scienziati. La ricerca scientometrica conduce a soluzioni più efficienti ed economiche per valutare la ricerca e soddisfare le esigenze degli utenti.4

Anche se COARA, come pare, mira solo alla riduzione del danno, l’ammissione delle agenzie di valutazione non solo alla coalizione ma al suo stesso consiglio direttivo mette a rischio pure questo modesto obiettivo: le agenzie di valutazione di massa, avendo bisogno di armi di valutazione di massa, portano con sé un enorme conflitto di interessi, che può condurre – come mostra il caso italiano5 – l’intrapresa al fallimento.

4. Qualità e libertà

La valutazione fra pari, anche in COARA, è legata, come discussione idealmente libera e accessibile, alle pratiche della scienza aperta – pratiche che numerose istituzioni politiche si sono date la pena di definire e raccomandare. In un ambiente addomesticato dalla valutazione amministrativa questi interventi inducono a trattare l’open science come uno dei tanti adempimenti richiesti agli addetti alla ricerca, spesso pensati senza neppure una particolare lungimiranza.

Per esempio, nel 2015 la Commissione europea rappresentava la scienza aperta (p. 33) così: “L’ Open Science è un cambiamento tanto importante e dirompente quanto l’e-commerce per la vendita al dettaglio”. Era già, allora, chiaro che il cosiddetto platform capitalism stava esponendo il web pubblico a privatizzazione, monopolio e sfruttamento: nel 2010 lo stesso inventore del web, Tim Berners-Lee, aveva già lanciato il suo allarme. Ma la Commissione europea inseriva spensieratamente nell’ecosistema della scienza aperta (p.39) piattaforme proprietarie come Academia.edu o Mendeley, acquistata da Elsevier nel 2013.

Oggi è diventato facile criticare la scienza di stato, quando viene stabilita per decreto oltreoceano. Ma non si tratta di qualcosa di nuovo, spuntato nottetempo come un fungo: anche se riducessimo a periferica la valutazione di stato italiana, non possiamo trattare come tale l’interferenza dell’Unione Europea nelle modalità e nelle valutazioni della scienza – a dispetto di un Kant molto invocato e poco letto.

La rivoluzione scientifica moderna, dal canto suo, non nacque da prescrizioni di monarchi e di despoti illuminati. Secondo Paul David, l’idea della scienza come bene comune, basata sulla collaborazione e finanziata da mecenati aristocratici, si radica in un mondo pre-capitalistico e assai meno burocratico. Se vogliamo allentare la morsa della burocrazia che priva la ricerca di qualità, non possiamo concepire l’apertura come un compito amministrativo. Infatti, l’obiettivo non è quello di devolvere risorse in pubblicazioni a pagamento per i profitti o le rendite private,6 ma di mantenere o ricreare le condizioni che consentono alle comunità scientifiche di curarsi della qualità del loro lavoro attraverso la collaborazione e la critica libera.

5. Qualità: una definizione sfuggente

Secondo Wilhelm von Humboldt, la cui riforma universitaria è stata per lo più smantellata dall’Unione Europea tramite il cosiddetto processo di Bologna, è “caratteristica degli istituti scientifici superiori continuare a trattare la scienza come un problema ancora non del tutto risolto e perciò rimanere sempre alla ricerca”. Anche per questo – non solo perché non sappiamo concepire un criterio universale di verità – la definizione di qualità è così elusiva.

Nel linguaggio aziendale la qualità consiste in parametri rigorosamente definiti a cui si devono adeguare prodotti e processi. La qualità della ricerca, però, non essendo riducibile a standard amministrativamente accertabili, può essere meglio indagata a partire da un testo eccentrico: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig.

Nel libro l’alter ego di Pirsig a Bozeman, Fedro, prova in primo luogo a trattare la qualità non come una questione teoretica, bensì pragmatica. Il docente abolisce i voti e chiede agli studenti di valutare i loro compiti da sé, giorno per giorno. Alla fine scopre che gli studenti tendono all’imitazione reciproca e dell’insegnante. Non è una sorpresa: se ci si affida alla pratica senza nessuna riflessione teoretica si otterrà soltanto una moda, i cui capricci sono imitabili ma irriducibili a concetto.

Paradossalmente, questo è anche il peccato originale della valutazione bibliometrica della ricerca: perché cercare l’inafferrabile e non scalabile qualità quando si può facilmente calcolare, tramite le citazioni, quanto va di moda?

Il metodo scientifico, per Pirsig, è il modo in cui esseri razionali ma finiti selezionano una singola (e forse provvisoria) verità tra molte ipotesi, pur senza essere in grado di afferrare la Verità in generale. E nell’uso di questo metodo – che è diverso dall’annotazione amministrativa dell’impatto di qualcosa che non ci si cura di capire – si manifesta, di volta in volta e provvisoriamente, la qualità. Per cogliere il senso di questo processo, però, bisogna farne parte, cioè essere ricercatori e non burocrati che, più o meno “responsabilmente”, registrano l’“impatto” di qualcosa che rimane loro oscuro. Questa tesi non va interpretata come una mistica della ricerca: semplicemente, quando adottiamo criteri “statici” di qualità per valutazioni puntuali quali concorsi e assunzioni, dobbiamo essere consapevoli che non sono in grado di render giustizia all’intero processo, che non è statico ma dinamico.7

Pertanto, come Kant sostenne nel Conflitto delle facoltà, ridurre le università a istituzioni ministeriali sottomesse a criteri di verità interamente estrinseci e amministrativamente applicati, mette a repentaglio la credibilità stessa della scienza. La credibilità scientifica, infatti, non dipende dall’adesione a parametri bensì dalla libertà della critica pubblica, proprio perché si forma entro un processo non terminato e non terminabile. Questa libertà degli studiosi, che è condizione della scienza, non consiste in una facoltà di dare ordini, bensì nella possibilità di mettere in discussione anche gli studiosi-funzionari al servizio dell’amministrazione – criteri amministrativi di valutazione compresi. Perciò

alla domanda “chi valuta?” Kant risponde: la comunità scientifica, perché solo studiosi possono giudicare altri studiosi. Se questo giudizio venisse alterato da ragioni esterne alla sua propria ragione, cioè la ricerca della verità, la scienza non sarebbe più tale.

6. L’Unione Elusiva

Per Kant l’economia interna dell’università richiede, in primo luogo, la libertà. I politici, da parte loro, dovrebbero occuparsi delle infrastrutture della ricerca e non del modo in cui i ricercatori la fanno. Caesar non est supra grammaticos.

Molti tecnocrati europei, quando si tratta di appellarsi ai “nostri valori”, amano o amavano presentarsi, a proposito o a sproposito, come kantiani. Ma l’accordo ARRA e COARA non possono dirsi tali se non propagandisticamente.

  1. La Commissione europea scopre, sia pure in grave ritardo, che la valutazione quantitativa della ricerca produce quantità e non qualità.
  2. Per risolvere il problema promuove una coalizione lasca di università, istituzioni di ricerca, società di studi e agenzie di valutazione, anche centralizzate, con lo scopo di riformare la valutazione della ricerca, come se il dominio della bibliometria e il danno alla qualità della ricerca fosse esito esclusivo di iniziative venute dai ricercatori, che vanno incoraggiati ad autocorreggersi.

Un politico kantiano avrebbe fatto esattamente l’opposto.

  1. In primo luogo, avrebbe lasciato la valutazione della ricerca ai ricercatori.
  2. In secondo luogo, avrebbe indagato sulle eventuali condizioni infrastrutturali – le buone strade, la buona moneta, lo snello diritto di cambio della citazione in epigrafe – che un’azione politica avrebbe potuto migliorare. E non avrebbe fatto fatica a scoprire che la bibliometria, come arma di valutazione di massa, è indispensabile dove la valutazione è amministrativa e centralizzata – come in Italia con l’ANVUR e in Spagna con l’ANECA. E avrebbe usato la sua autorità legislativa per eliminare o ridurre al minimo questo tipo di valutazione. “Quanto al resto, lasciateci fare!”

L’iniziativa politica europea si è invece concentrata, soluzionisticamente, sul come si valuta non solo senza chiedersi chi valuta, ma anche dando per scontata la legittimità delle agenzie di valutazione statali e soprattutto che queste, ammesso e non concesso che siano indipendenti, possano seriamente impegnarsi a minimizzare o abolire le armi – bibliometriche – di valutazione di massa e quindi a ridimensionare o abolire se stesse. Così il peccato originale della sovrapposizione di potere amministrativo e ricerca continua ad affliggere COARA, senza che l’UE, in veste di Unione Elusiva, abbia il cervello e il cuore di redimerlo.8


  1. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, AK VII, 19-20 n2, traduzione di Domenico Venturelli (Brescia : Morcelliana, 1994), con qualche modifica. ↩︎
  2. Ha, infatti, reso facile sostenere che qualsiasi pretesa è “scientifica” perché pubblicata su una rivista a revisione paritaria (Adam Marcus, Ivan Oransky. “The Scientific Literature Can’t Save You Now”. In: The Atlantic (2025) https://www.theatlantic.com/science/archive/2025/02/rfk-kennedy-vaccines-scientific-literature/681681/ ↩︎
  3. “Rather than serving as a scientific certification process, administrative evaluation functions as a mechanism for ascribing value to research outputs and contributions based on criteria established by administrative or policy authorities”: Alberto Baccini, COARA will not save science from the tyranny of administrative evaluation, https://arxiv.org/abs/2408.05587v3, 2025, §6. ↩︎
  4. Giovanni Abramo, The forced battle between peer-review and scientometric research assessment: Why the CoARA initiative is unsound, 2024. ↩︎
  5. Come mostra, per quanto concerne l’Anvur, la distanza fra gli impegni sottoscritti e quelli programmati. ↩︎
  6. Come nei conservativi accordi trasformativi, finiti un vicolo cieco. ↩︎
  7. Per esempio la discussione fra matematici può essere documentata da pubblicazioni che in passato erano riviste e ora, come mostra il caso Perel’man, un archivio istituzionale ad accesso aperto. ↩︎
  8. Anche perché i suoi consulenti più rispettati, ancorché non eletti (The Future of European Competitivenss: A competitiveness strategy for Europe (Part A) 2024), deplorando che poche università europee raggiungano “top levels of excellence” (eccellenza misurata, a dispetto di COARA, sulla base del volume di pubblicazioni in “top academic journals”, p. 24) e pesando il valore della ricerca pubblica in base alla sua capacità di privatizzarsi in brevetti (p.25), trattano i ricercatori come risorse da spremere per estrarne “innovazione” (p.24) senza mai chiedersi se a renderli conformisti non sia proprio la servitù amministrativa a cui sono sottomessi. ↩︎
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Italia: le occasioni perdute della scienza aperta

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L'occasione L’articolo che Paola Galimberti offre alla revisione paritaria aperta parla di occasioni perdute, vale a dire di alluvioni di parole a cui raramente sono seguiti fatti.

A parole ci sono stati molti impegni declaratori, alcuni dei quali precoci come l’adesione del 2004 alla dichiarazione di Berlino sotto il patrocinio della Crui, altri tardi e parziali, come l’anomala legge del 2013 sull’accesso aperto e un piano nazionale per la scienza aperta privo di finanziamenti e infrastrutture di sostegno.

Quando poi si sono avuti strumenti come gli archivi IRIS, sono mancate politiche istituzionali e di formazione sistematiche e coerenti. In più la valutazione di stato della ricerca  dal 2012 impone un sistema basato sul publish or perish e sulla collocazione editoriale – sistema  che la firma di COARA da parte dell’ANVUR non ha, nella sostanza, cambiato.

È possibile render pubblica la scienza in modo non commerciale con il Diamond Open Access. Iniziative di questo tipo fioriscono anche in Italia, ma dal basso, grazie al volontariato di docenti, istituzioni e university press: in alto pochissimi, a differenza che all’estero, si sognano di sostenerle e valorizzarle. L’unico accesso aperto promosso dall’alto è quello costosissimo dei cosiddetti accordi trasformativi, la cui natura conservativa è ormai ampiamente dimostrata.

Paola Galimberti conclude, ancorché provvisoriamente, che

La pratica della scienza aperta richiede tempo e competenze specifiche, scelte consapevoli e supporto adeguato. Se i ricercatori non riescono a vedere il vantaggio di questa gestione onerosa (ad esempio in termini di riconoscimento), se le istituzioni non mettono loro a disposizione competenze e strumenti, è difficile che ci si applichino e vi aderiscano.

Nel nostro Paese le molte premesse per uno sviluppo normalizzato della scienza aperta ci sono state e ci sono ancora. Si tratta solo di implementarle in maniera consapevole, e il National chapter di COARA potrebbe forse essere un primo passo.

Dopo vent’anni, però, dovremmo chiederci se la questione della scienza aperta italiana sia riducibile a  un problema amministrativo che istituzioni e funzionari più consapevoli e illuminati saprebbero risolvere, e considerare l’ipotesi che il suo seme non abbia attecchito semplicemente perché fin dall’inizio è stato piantato solo un simulacro di pietra da esibire in eventi cerimoniali e declaratori. Come mai l’unico accesso aperto normalizzato è quello, programmaticmente conservatore, di contratti “trasformativi” solo in senso ironico? Come mai istituzioni che per la scienza aperta non sono andate molto oltre le dichiarazioni hanno invece collaborato con zelo a una riforma del sistema che ha condotto a una compressione selettiva e cumulativa degli atenei italiani, a una crescente e insopportabile precarizzazione e gerarchizzazione dei ruoli accademici e a una valutazione di stato centralizzata e ferocemente bibliometrica – a dispetto dell’articolo 33 della costituzione?

La presenza di iniziative che nascono dal basso, da pochi studiosi e istituzioni, mostra che, perfino sotto una valutazione di stato pervasiva e autoritaria, chi è strutturato nell’università italiana e vuole fare scienza aperta la fa, pur su scala artigianale e rinunciando a ciò che normalmente passa per potere e prestigio. Galileo Galilei seppe cogliere l’occasione che la stampa gli offriva per pubblicare il suo Sidereus Nuncius senza bisogno, e anzi contro, il Sant’Uffizio. E già alla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso il World Wide Web, il software libero e le licenze Creative Commons offrivano l’occasione di aprire la scienza a chi avesse voluto fare uso pubblico della ragione: e ci fu chi fu capace di coglierla, senza bisogno di corsi di formazione ad hoc.

La via amministrativa alla scienza aperta con le sue dichiarazioni, pianificazioni, incentivazioni e monitoraggi sembra una scorciatoia inevitabile in un’università burocratizzata come quella, prima che neoliberale, moderna. E lo è: ma porta da tutt’altra parte. Gli amministratori suddividono arbitrariamente la ricerca in elementi discreti: “prodotti”, dati, pubblicazioni, sedi editoriali, impatti calcolabili in termini di citazioni su riviste o anche su media sociali. E a questi elementi associano castighi e premi, necessariamente rivolti a “masse uniformi e obbligate”. La scienza (aperta), invece, è difficile da tradurre in adempimenti, perché, avendo a che fare con problemi ancora non del tutto risolti, non solo è metodo e processo, bensì metodo e processo esposti essi stessi alla discussione. La comunità scientifica, quando l’interesse è quello della scienza, può permettersi di essere anarchica. Al matematico russo Grigori Perelman, per far riconoscere un avanzamento di grande importanza,  bastò l’ArXiv e una comunità scientifica attenta.

Wilhelm von Humboldt, in un frammento incompiuto e per molti decenni abbandonato in un archivio, si era chiesto come fosse possibile inserire l’anarchia dei problemi ancora non del tutto risolti negli istituti di studi superiori, e aveva disegnato un progetto minimalista, isolato e fragile in un mondo che, dopo la Restaurazione, sarebbe divenuto molto diverso da quello immaginato dai riformatori prussiani. Le strutture italiane attuali, altrimenti impiegatizie, riposano su un sistema iperburocratizzato di premi e castighi, che difficilmente può ospitare gli spazi negativi della discussione della scienza (aperta) – anche se la relativa retorica rimane utile per una patina di legittimazione in continuità col passato. Perché mai convertirsi davvero alla scienza (aperta)? Perché mai tentare un simile salto nel vuoto? Perché allevare ricercatori amministrativamente e spiritualmente liberi dalle catene bibliometriche e dalla valutazione di stato, e dunque in grado di rifiutarsi di privatizzare il loro lavoro in brevetti, o di asservire perfino la ricerca di base a scopi commerciali1 o militari?

Come l’Occasione di Machiavelli, anche i ricercatori italiani tengono il piè sopra una rota: ma la loro non è la ruota del kairos bensì quella in cui certi piccoli animali domestici vengono fatti esercitare da chi li ha messi in gabbia: non porta da nessuna parte ma conforta, trasferendo ad altri il compito di stabilire il senso di tutto il loro girare.

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Un discorso per niente normale

Breaking barriersRendiamo disponibile il testo del discorso pronunciato il 9 luglio 2021 da tre portavoce degli allievi della classe di Lettere della Scuola Normale Superiore di Pisa durante la cerimonia di consegna del loro diploma. La stampa ne ha enfatizzato la denuncia della disparità di genere, a cui è più facile dare una parvenza di risposta o con una politica di quote o con l’impossibilità legale di applicarla – come se prendere le studiose sul serio fosse così difficile da non riuscire a dar loro spazio se non per costrizione amministrativa. Ma questa denuncia è a conclusione di un argomento più difficile, che riguarda, oltre il caso particolare, ancorché estremo, della Normale di Pisa, l’università italiana nel suo complesso.

Quanto infatti l’Italia prende la ricerca, gli studiosi, gli studenti sul serio? Ben poco: l’università pubblica è da tempo sottoposta a un ridimensionamento selettivo e cumulativo, che ha allontanato e allontana i giovani dallo studio sia come studenti, sia come ricercatori, consegnandoli, dentro e fuori l’università, alla precarietà e allo sfruttamento. L’eccellenza, qui, è un eufemismo a nascondere il privilegio di pochi, di sempre meno: negare ai più il diritto allo studio significa toglier loro la possibilità di pensare da sé e quindi anche di cercare di lasciare il mondo migliore di come l’hanno trovato.

Ma non solo a chi è negato il diritto allo studio viene chiesto di abbassare la testa e di adattarsi: lo si chiede anche a chi ha il privilegio di studiare, in nome di “un’università-azienda in cui l’indirizzo della ricerca scientifica segue la logica del profitto, in cui la divisione del lavoro scientifico è orientata a una produzione standardizzata, misurata in termini puramente quantitativi“. La retorica dell’eccellenza non solo sottrae e divide, ma livella e comprime, affinché anche i pochissimi salvati siano in realtà sommersi: “prima fra tutte la spinta alla competitività, alla produttività, al publish or perish. Se l’obiettivo della Scuola è abituarci quanto prima ad accettare acriticamente tale sistema, crediamo che questo sia un obiettivo perverso.”

Accettare acriticamente il sistema significherebbe infatti disconoscere che

Le disuguaglianze sono stridenti: il divario di genere; il divario territoriale tra Nord e Sud; e non da ultimo il divario tra i poli di eccellenza ultra-finanziati e la gran parte degli atenei, determinato dalla diminuzione dei fondi strutturali e dall’aumento delle quote premiali: lo abbiamo visto con l’istituzione dei dipartimenti di eccellenza, che in questo quadro non può che apparire odiosa e insensata. Faccia riflettere un ultimo dato: mentre, come abbiamo detto, docenti e ricercatori diminuivano nel complesso degli atenei italiani, questi aumentavano del 40% nelle Scuole Superiori, come la Normale.

In questo contesto, noi, i cosiddetti “eccellenti”, siamo certamente quelli fortunati. Ma quale eccellenza tra queste macerie? Che valore ha la retorica dell’eccellenza se, fuori da questa cattedrale nel deserto, ci aspetta il contesto desolante che abbiamo descritto?

La stampa ha per lo più trascurato la sezione del discorso che chiede di orientare la didattica della Normale alla qualità invece che all’eccellenza, alla formazione invece che alla performatività, alla cooperazione invece che alla competizione, all’uso pubblico della ragione invece che all’autoreferenzialità. Ma anche qui non solo della Normale si tratta: per rendersi conto che la ricerca richiede insegnamento e l’insegnamento è a sua volta parte della ricerca non occorre essere particolarmente rivoluzionari, né è difficile comprendere che in generale la scienza aperta è nell’interesse di tutta l’università pubblica, perché contribuisce a legittimarla.

I vertici accademici, non solo in Normale, sono popolati da professori che si illudono che perseguire un prestigio amministrativamente definito garantisca una salvezza singolare in un sistema pubblico in via di smantellamento: e non si rendono conto che l’esclusività abitua i più a fare a meno di loro, così che, quando saranno repressi o soppressi, nessuno se ne accorgerà perché la loro stessa sottomissione li avrà privati del loro senso. Il loro silenzio, quando non la loro collaborazione, forse contribuisce a spiegare perché – come scrive Stefano Isola su “Anticitera” – il dibattito pubblico su scuola, università e ricerca si perda sovente in una cortina fumogena di dettagli secondari e questioni elusive, mentre il discorso dei normalisti suoni invece, e pericolosamente, niente affatto normale.

Consegna dei diplomi, 9 luglio 2021 – Discorso degli Allievi della Classe di Lettere

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I custodi del sapere

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 David Stanley Bibliotheca Alexandrina1. Per lo stato o per il pubblico?

I used to work for the government, but now I work for the public. It took me nearly three decades to recognize that there was a distinction.2

Per il governo degli Stati Uniti d’America Edward Snowden è un traditore che ha messo a rischio la sicurezza nazionale rivelando che la National Security Agency sottopone – legalmente – buona parte del mondo a sorveglianza e schedatura di massa. Se il “pubblico” e lo stato, o ancor più specificamente lo stato inteso come apparato amministrativo, fossero due concetti sovrapponibili, sarebbe difficile evitare di condividere questa opinione.

Questa dissociazione, però, non è un pretesto escogitato da Snowden. Si ritrova nella Risposta alla domanda: che cos’è l’Illuminismo scritta da Kant nel 1783, e precisamente nella sua distinzione fra uso pubblico e privato della ragione. Per Kant, quando agisco come funzionario di un’organizzazione collettiva particolare il mio uso della ragione è privato, deficitario, perché, rivolgendomi a un gruppo istituzionalmente delimitato, devo attenermi a norme che non necessariamente mi appaiono giustificate. Quando invece parlo come studioso il mio uso della ragione è pubblico, e deve essere libero, perché non mi esprimo come funzionario di un’istituzione particolare, bensì come partecipe di una comunione ideale aperta alla discussione con tutti gli esseri razionali. Come potrebbe uno studioso servire credibilmente la verità se fosse allo stesso tempo sottomesso agli interessi particolari di chi gli paga lo stipendio? Questa comunione, detta da Kant “cosa comune” e società cosmopolitica, è molto più dello stato: in caso di conflitto fra ciò di cui sono convinto come studioso e ciò che sono tenuto a dire e fare come funzionario è la mia coscienza a dover prevalere. Snowden, lontano dallo studioso ordinario, ha fatto, tradendo un governo di cui non era neppure funzionario, quanto buona parte degli impiegati che oggi lavorano all’università non osa immaginare: render pubblico quello che sapeva rischiando del proprio, anche – almeno in apparenza – contro gli interessi dello stato di cui era cittadino.

Nell’ultimo decennio del secolo scorso, cambiare idea in rete era facile come cambiare persona: Internet poteva dunque apparire, in opposizione allo stato, come la migliore approssimazione al “pubblico”: uno spazio virtuale di discussione libera in cui nulla – neppure la preoccupazione per la propria reputazione – ci incatena ai nostri tutori.

In the 1990s, the Internet had yet to fall victim to the greatest iniquity in digital history: the move by both government and businesses to link, as intimately as possible, users’ online personas to their offline legal identity. Kids used to be able to go online and say the dumbest things one day without having to be held accountable for them the next. This might not strike you as the healthiest environment in which to grow up, and yet it is precisely the only environment in which you can grow up — by which I mean that the early Internet’s dissociative opportunities actually encouraged me and those of my generation to change our most deeply held opinions, instead of just digging in and defending them when challenged.3

Nell’Internet di oggi, gli stati e le aziende monopolizzano, frammentano, recintano e sorvegliano lo spazio della discussione. Identificarla col pubblico è divenuto difficile. Ma una democrazia che non voglia assorbirsi in una tecnocrazia più propensa a rispondere ai pochi che ai molti avrebbe ora più che mai bisogno della libertà del sapere anche e soprattutto a proposito di se stessa.

Kant pensava il pubblico come una società virtuale: ridurlo in un’istituzione, anche mondiale, lo avrebbe infatti esposto al rischio di essere sottomesso all’uso privato della ragione. Pretendeva, tuttavia, che le organizzazioni particolari, indebitamente dette “pubbliche”, al pubblico fossero aperte, riconoscendo a chi parla come studioso la possibilità di farlo liberamente. E se per pubblico s’intende uno spazio ulteriore a quello istituzionale, sottratto al controllo del governo e alla sorveglianza delle aziende, nel quale e per il quale le istituzioni possano aprirsi alla discussione, venir criticate e talvolta superate o abbandonate, a preoccuparsi per esso dovrebbe essere non solo Snowden, bensì in primo luogo l’università, in quanto organizzazione di studiosi soggetta a un’amministrazione sempre più ostile alla sua indipendenza.

In Italia, pur essendo possibile fare altrimenti, la maggior parte delle università affida servizi di comunicazione essenziali quali la posta elettronica o la didattica a distanza a Microsoft e Google, che contribuivano e possono contribuire allo spionaggio denunciata da Snowden perché soggetti alla legge statunitense. Anche la ricerca, la cui comunicazione e valutazione è amministrativamente consegnata ai monopolisti dell’editoria commerciale, è abbandonata alla loro sorveglianza, cioè al controllo di privati con scopi – e capacità di manipolazione e di indirizzo – ben lontani dalla scienza, e dall’interesse pubblico in generale.

2. Biblioteche, monasteri, università

Dov’è, dove può essere, come può sopravvivere l’apertura al “pubblico”?
Karen Maex, rettrice dell’università di Amsterdam, ha cercato di rispondere a questa domanda in un discorso per la celebrazione del suo 389 Dies Natalis. Ciò che qui chiamiamo “pubblico” è vissuto in spazi progettati per organizzare durevolmente il sapere: la biblioteca di Alessandria, i monasteri, le accademie e le università. Tutti questi luoghi non aggregano e aggregarono soltanto libri, ma anche studiosi che facevano uso dei testi e ridavano loro la parola da lettera morta che erano.

Ideas, great or small, can communicate their effect only through the institutions that organize them. Some of the most powerful ideas are those with the capacity to reorganize the ways in which people pursue knowledge: who pursues it, where and how they do so, and how they judge themselves to have attained it.4

Da quando si è tentato di riversare il sapere in testo e di costruirvi attorno istituzioni che lo conservino, lo riproducano, lo disseminino e lo discutano, queste hanno acquisito la capacità di influenzare e formare la conoscenza stessa. La biblioteca di Alessandria concentrò i libri nello spazio, al servizio di una scienza ecumenica ed enciclopedica e di un disegno originariamente ellenistico basato sull’egemonia del greco come lingua veicolare: il prezzo di questa intrapresa fu la spoliticizzazione della conoscenza – letteralmente, il suo allontanamento dalla polis e il suo spostamento entro la gabbia dorata della dipendenza da una successione di imperi, per legarsi sia alla loro forza sia alla loro finale fragilità.
I monasteri, concepiti per sopravvivere al collasso della civiltà antica, permisero di tramandare la conoscenza nel tempo, affidandola a una rete di comunità che copiavano e riadattavano i libri. Le università, che si aggregarono come corporazioni nella rinascita urbana del basso Medioevo, riportarono lo studio nella civiltà, pur attraverso crisi connesse ora alla loro dipendenza da poteri politici non più capaci di essere ecumenici, ora al loro essere esse stesse formazioni di potere non sempre in grado di restare cosmopolitiche.5

Lo sguardo sulla storia aiuta la rettrice, ingegnera elettronica di formazione, a non ridurre la rivoluzione digitale a un’innovazione tecnica – come se l’informatica non si occupasse di automazione dell’informazione e del suo trattamento, bensì soltanto di progettarne erogatori più efficienti ma altrimenti neutrali.

Le istituzioni del passato hanno concentrato i testi nello spazio, li hanno estesi nel tempo e vi hanno costruito attorno comunità di conoscenza ora lasciando la polis per sottomettersi all’impero, ora allontanandosi dal consorzio civile, ora aggregandosi in corporazioni o in accademie, ora dividendosi in raggruppamenti disciplinari: ogni volta, per ottenere questo scopo, hanno rinunciato a qualcosa – dal consorzio con la polis fino a quello con la società – ma hanno ottenuto l’essenziale, vale a dire la possibilità di tramandare e coltivare un sapere relativamente indipendente e pubblico in virtù del controllo della propria “biblioteca”. Ora, però, la biblioteca, divenuta digitale, è governata ed elaborata da macchine cognitive la cui automazione – la potenza delle procedure basate su un sapere passato che pare esonerare gli umani dalla comprensione – induce a credere che non più di comunità di conoscenza ci sia bisogno, ma solo di inseritori di dati.

Dall’ultimo quarto del secolo scorso le biblioteche hanno cominciato a smettere di essere depositi di volumi di loro proprietà da rendere disponibili a tutti, per diventare sempre più simili a ugelli erogatori di materiali non più loro, ma semplicemente sotto licenza, grazie a una “proprietà” intellettuale inasprita ed estesa perché cucita addosso a interessi commerciali e non scientifici e alla dissociazione bibliometrica della valutazione della ricerca dalle comunità scientifiche e quindi dalla ricerca stessa. L’accesso aperto, in un sistema in cui non viene fatto contare quanto facciamo e scriviamo, ma il suo metadato citazionale, può cambiare ben poco. Mentre gli editori ancora sfruttano il monopolio detto copyright, mentre la “pirateria” offre il servizio pubblico che essi non danno, mentre si pagano cifre oltraggiosamente alte per rendere i testi visibili, le biblioteche – o quel che ne resta – smettono di essere luoghi aperti a tutti, per cedere il governo dell’accesso in lettura e scrittura a privati che ne traggono profitto.

Ma non solo di biblioteche si tratta. La rettrice olandese è consapevole che chi domina i nostri dati organizza il modo in cui possiamo vederli o no, e, traendo dagli stessi strumenti di lavoro che ci vende altri dati sul nostro comportamento, è in condizione di creare un ambiente di scelta in grado di influenzare le nostre decisioni sulla ricerca, sulla sua valutazione e sulla selezione di ricercatori e studenti. Era una preoccupazione già fondata prima del passaggio forzato a una telematica integrale dovuto alla pandemia. Era infatti già possibile, per uno studioso, tener rinchiuso l’intero ciclo della sua ricerca entro un recinto e un controllo proprietario: ora, però, la saldatura fra i monopoli relativamente circoscritti dell’editoria scientifica e quelli globali di Microsoft, Google, Amazon, Facebook, Apple è divenuta pervasiva ed evidente. È normale per i ricercatori cercare l’H index proprio e altrui su Google Scholar, collaborare fra loro regalando documenti e dati a Google Docs, fare lezione su Microsoft Teams o ricorrere spensieratamente a Google Drive o ai servizi cloud di Amazon per condividere dati. I ricercatori, del resto, grazie alla bibliometria, sono abituati a essere condizionati nelle loro letture e nelle loro scelte di ricerca da algoritmi non scelti da loro e di proprietà altrui: la differenza rispetto al passato non è nella specie, ma soltanto nel grado. Prima che i media sociali proprietari restringessero e polarizzassero la sfera pubblica generale a scopo di profitto, gli editori commerciali6 e gli algoritmi di valutazione avevano già ristretto e pervertito la discussione scientifica. E come si è accettato questo pervertimento, altrettanto passivamente si accetta che ne venga coinvolta anche la relazione fra docente e discente.

3. Proteggere l’università digitale

L’indipendenza della didattica e della ricerca è – o è stata – una parte importante dalla tradizione intellettuale europea della scienza aperta, resa possibile dal carattere pubblico dell’università, dalla pluralità delle sue discipline e dalla sua accessibilità a studenti di ambienti e prospettive differenti. Ma proprio questa indipendenza, che ha messo in grado l’università di rivolgersi da pari a pari ad altre istituzioni, industria compresa, è ora a rischio, entro un ecosistema post-democratico profondamente sbilanciato a favore di monopoli e oligopoli privati. Ed è così a rischio che la rettrice olandese, da poco eletta presidente della LERU, chiede agli stati nazionali e a un’Unione Europea che si è adoperata molto di più a favore delll’uso privato che di quello pubblico della ragione un Digital University Act per:

  • assicurare che i dati di ricerca siano oggetto di archiviazione e accesso pubblico organizzato da università e infrastrutture altrettanto pubbliche;
  • garantire un accesso aperto alle pubblicazioni universitarie in lettura e scrittura libero dal controllo e dal commercio privato dei relativi dati;
  • fare sì che gli strumenti digitali di apprendimento e ricerca siano generalmente sotto controllo pubblico e basati su pubbliche infrastrutture; se in parziale collaborazione con piattaforme private, le università devono influenzarne le scelte di sviluppo e controllarne la raccolta e l’elaborazione dei dati degli utenti;
  • esigere che docenti e ricercatori accedano ai dati delle piattaforme che usano.

Non possiamo decidere pubblicamente senza pubblicamente sapere: ciò che vale per il futuro dell’insegnamento e della ricerca indipendente vale anche, dice Karen Maex, per il futuro della democrazia. Ben difficilmente, infatti, uno stato che non protegge il sapere indipendente e pubblico, o addirittura ne incoraggia e sostiene la privatizzazione, potrà tornare dalla parte del pubblico.

Perché le università hanno bisogno di costrizione e tutela legale? Perché, salvo eccezioni non italiane, trattano il sapere non più come un problema ancora non del tutto risolto, bensì come un complesso di prodotti soggetti a valutazione esterna. Le modalità della loro erogazione sono indifferenti: i prodotti, come unità cristallizzate e indivisibili, possono dunque essere distribuiti da monopolisti editoriali e tecnologici senza che il loro carattere venga alterato. Anche qui c’è una dissociazione fra l’istituzione e il pubblico: la ricerca non viene valutata tramite l’uso pubblico della ragione, bensì amministrativamente, cioè con l’uso privato. Se la valutazione della ricerca fosse stata ancora interna alla ricerca stessa,7 università e biblioteche avrebbero riflettuto un po’ di più prima di consegnarsi alle determinazioni di enti amministrativi e di monopolisti privati.

http://www.andreasaltelli.eu/file/repository/Lobbies_0_1.pdf Andrea Saltelli, in Science and regulatory capture, analizza cinque casi europei di “regulatory capture” basati su un uso strategico di una legittimazione scientifica organizzata ad hoc. L’espressione inglese regulatory capture, che si riferisce a casi in cui interessi particolari organizzati influenzano l’intervento politico, legislativo o amministrativo dello stato, si traduce in italiano, meno asetticamente, con “politica clientelare”. È grazie a una politica clientelare, racconta Saltelli, che un’associazione industriale è riuscita addirittura a introdurre un nuovo principio, il principio di innovazione contro quello di precauzione, nell’ordinamento giuridico europeo.

In un simile clima, chi difende gli interessi dei molti è esposto, indipendentemente dalle sue intenzioni, al rischio di essere esso stesso catturato dalla regulatory capture, o perché, come è avvenuto nella vicenda della direttiva europea sul copyright, si accontenta delle briciole lasciate cadere dal tavolo su cui banchettano i potenti, o perché si limita a reclamare un’eccezione per la propria istituzione, quando, come del resto pare consapevole Karen Maex, la conoscenza indipendente e pubblica non è solo la ragion d’essere dell’università, ma la base dell’autonomia, in senso distributivo e collettivo, di una società che voglia emanciparsi dai clientelismi. Anche se un discorso come quello di Karen Maex si potrebbe difficilmente immaginare nella bocca di un rettore italiano, e anche se la sua proposta è pragmaticamente encomiabile, un giudizio filosofico deve fare i conti con un orizzonte più ampio e con rischi più grandi. E in questa prospettiva non basta una legge speciale a protezione dell’università per fare i conti con la generale sudditanza dell’università stessa, della società e di chi le governa, e anzi perfino il doverla chiedere è già un’ammissione di marginalità. A emanciparsi dal clientelismo dovrebbero infatti essere la politica e la legislazione europea in merito ai monopoli sui testi, sulle idee e sulla comunicazione in generale. E difficilmente lo faranno, almeno finché l’ordine del mondo continuerà a ridurre ciascuno a far parte per se stesso.

Appendice

doi.org/10.1002/acp.3844 Cliccando sull’immagine qui a fianco il lettore può vedere un campione dei traccianti contenuti in un articolo scelto a caso in Wiley Online Library. Chi volesse verificare personalmente può aprire con Chromium un qualsiasi articolo sul sito del suo oligopolio editoriale preferito, da “Strumenti per sviluppatori” selezionare “Sources” e confrontare quanto ottenuto con una lista di traccianti noti, quale, per esempio, quella resa disponibile da DuckDuckGo.
Nel momento in cui questo testo viene composto, chi facesse la stessa operazione su Open Reseach Europe, dato in gestione a F1000 Research, si renderebbe conto che anch’esso contiene dei traccianti di terzi, anche invadenti e occhiuti come quelli di Google.

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Plan I: un’infrastruttura per riaprire la scienza

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Trundholm sun chariot1. Di cavalli e di carrozze

Gli studiosi di Kant conoscono la Pace perpetua come un progetto filosofico che, non senza ironia, si propone di superare la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – e si propone di farlo, irrealisticamente, col diritto invece che, realisticamente, con la forza.
Chi ha familiarità, prima che con la filosofia, con il denaro e il potere, può prendere il filosofo poco sul serio, soprattutto quando, nella prima parte dell’appendice alla Pace perpetua, contrappone due specie di politici:

  • il “politico morale” che, per superare la guerra, delimita la scelta dei mezzi a quelli compatibili con l’imperativo categorico, vale a dire con il rispetto dei diritti degli esseri umani;
  • il “moralista politico” che, sostenendo di mirare allo stesso fine, pensa che si possa ottenere solo con la guerra.

Come ottenere la pace se non con una forza preponderante? Machiavellicamente siamo abituati a credere che il moralista politico di Kant sia l’unico politico possibile. E però quanto pare efficace nel particolare e nel particulare non necessariamente lo è anche dal punto di vista sistemico: una guerra vittoriosa non elimina la guerra e anzi contribuisce a conservare un mondo governato dalla legge del più forte nel quale l’unica pace possibile è quella degli imperi e dei cimiteri.
Se si accoglie l’invito dell’imperativo categorico a pensare in universale, i mezzi non hanno un rapporto accidentale, meramente tecnico, con il fine, perché essi stessi cambiano o conservano il sistema. Se per pace non s’intende una provvisoria assenza di guerra, bensì l’instaurazione di un ordinamento che risolva le controversie internazionali con il diritto, pretendere di perseguirlo con la guerra non è solo moralmente incoerente: è anche, e in primo luogo, politicamente irrealistico. Anteporre il fine al mezzo ignorandone gli effetti sistemici è come – scrive Kant – mettere la carrozza davanti ai cavalli: si perpetua l’esistente, senza avanzare d’un passo.

2. Open access: un fine che giustifica i mezzi?

In un articolo del 2015 Ralf Schimmer, della Max Planck Gesellschaft Digital Library, propose un modo realistico per superare il persistente scandalo per il quale i testi scientifici, pur potendo essere facilmente ed economicamente resi disponibili in rete almeno dal 1991, rimanevano per lo più accessibili solo dietro pagamento di abbonamenti ingiustificatamente alti e continuamente crescenti. Dal momento che gli autori, anziché preferire riviste ad accesso aperto, sottopongono i loro testi a riviste costose che danno loro prestigio e carriera, perché non spostare il denaro degli abbonamenti dalla lettura alla scrittura? Perché, cioè, non pagare gli editori per rendere pubblico quello che scriviamo invece che per accedere a testi incongruamente chiamati “pubblicati”?

Many who advocate open access envisage the development of a new publishing environment — new journals, new ways of operating — in which researchers can eventually be resettled. But it may be preferable to work with the publishing habitat that has evolved organically and bring open access into it. This could be achieved by transforming the existing core journals’ business models while simultaneously maintaining their function of providing quality assurance through peer review, publishing services and brand value [corsivo aggiunto].

This would enable a large-scale shift to open access while still providing researchers with the services and functions of the journal publishing system in which they are comfortable. The beauty of this idea is that the disruption would be perceptible only in the organisational domain in which the money is managed; since this side of business is typically hidden from researchers, authors would not experience any disturbance to their ordinary publishing activity.

L’ideale della scienza aperta – superare la proprietà intellettuale per rendere pubblica la ricerca del sapere in ogni sua fase – pare difficile da mettere in atto se i ricercatori, o chi per loro, preferiscono la “pubblicazione” alla pubblicità. Perché dunque chi dispone del denaro per farlo non agisce solo sulla “pubblicazione”, lasciando tutto il resto – sistema di valutazione della ricerca compreso – inalterato? Questo, certo, mette in difficoltà i ricercatori indipendenti e dei paesi poveri, ma riesce a ottenere lo scopo dell’accesso aperto, pur tenendone ogni altro aspetto chiuso – possibilità di pubblicare compresa.

La via del moralista politico – quella realistica – ha finora condotto, anche e soprattutto in Italia, a contratti svantaggiosi, quali quello con Elsevier e quello con Springer-Nature. Se, infatti, un articolo su “Nature” rimane fondamentale per il prestigio e la carriera dei ricercatori, il suo editore, com’è riuscito a imporre un prezzo oltraggiosamente alto per gli abbonamenti, può anche chiederne uno paragonabilmente alto per la pubblicazione. Possiamo – realisticamente – permetterci di continuare a essere realisti? Il progetto Plan I – Towards a sustainable research information infrastructure spiega perché è più che mai indispensabile rispondere di no.

3. Il monopolio come questione politica

I contratti con gli editori sfuggono alle regole degli appalti pubblici – sostengono i coautori di Plan I – semplicemente perché sono contratti con monopolisti. Ogni articolo scientifico è, infatti, un pezzo unico: una volta che l’autore è stato indotto a cederne il copyright a un editore commerciale, è con lui, e con lui soltanto, che si deve negoziare. Questo ha permesso agli editori di imporre prezzi che superano fra 10 e 20 volte i costi di pubblicazione e negoziazioni estenuanti per ottenere miglioramenti minimi.

Il monopolio degli editori commerciali non ha solo un effetto monetario, ma anche tecnologico, bloccando forme di interoperabilità e interconnessione altrimenti banali: “efficient citation linking, interactive data visualizations or interoperabilities with data and code have yet to be implemented in the scholarly literature”. Gli editori, infatti, non hanno interesse a favorire la creazione di uno spazio cosmopolitico di discussione e di ricerca: le loro rendite di monopolio, quando non finiscono nelle tasche dei loro azionisti, si orientano infatti all’acquisizione di sistemi di analisi dei dati e di produzione, pubblicazione, valutazione, disseminazione e amministrazione della ricerca per creare bolle reciprocamente impermeabili in cui ogni passo e ogni dato del nostro lavoro è controllato, sorvegliato e sfruttato a fini commerciali e di manipolazione. A questa sorveglianza non si sottrae la didattica, né, tanto meno, la teledidattica.

In una simile condizione, è riduttivo affrontare il monopolio come se fosse solo e in primo luogo una questione economica.

…we are in a position, after the experience of the last 20 years, to state two things: in the first place, that a corporation may well be too large to be the most efficient instrument of production and distribution, and, in the second place, whether it has exceeded the point of greatest economic efficiency or not, it may be too large to be tolerated among the people who desire to be free. [corsivi aggiunti]

Queste righe, attribuite a Louis Brandeis, risalgono al 1911, e sono citate da Tim Wu per ricordare che nella società – rete compresa – la libertà di ognuno non è garantita solo dalla divisione e dalla limitazione dei poteri degli stati, ma anche di quelli delle aziende. Come può una democrazia sopravvivere se un pugno di aziende determina, con una sorta di prerogativa regia, la vita e le scelte dei più e può influenzare le decisioni del legislatore?

Quanto vale per la democrazia a maggior ragione vale per la ricerca: se copyright e concentrazione editoriale limitano la possibilità di leggere e di scrivere come si può garantire un’universale libertà dell’uso pubblico della ragione?

Per spezzare i monopoli, Plan I propone alle istituzioni pubbliche – o a quel che ne rimane dopo decenni di deriva post-democratica – un intervento collettivo di sistema.

4. Un’infrastruttura pubblica per la ricerca

Plan I non mira a sostituire le riviste scientifiche commerciali con una rivista di stato, cioè dei monopoli privati con uno statale, anche perché, nei paesi ove vige la valutazione di stato della ricerca, la coppia distopica di Big Business e Big Government cammina già di pari passo. Mira, piuttosto, a ricostruire un ambiente in cui i servizi editoriali, limitandosi alla pubblicazione, ritornino acquisibili su un mercato concorrenziale popolato sia da attori pubblici sia da editori privati ma reciprocamente sostituibili, perché non monopolisti.

Dal momento che la ricerca è finanziata in buona parte da denaro pubblico, per risparmiare il 90% di quanto viene devoluto agli editori commerciali non occorre smembrare le loro aziende con la sciabola. Basta fissare e far rispettare pochissimi criteri sul formato e sulla valutazione dei risultati della ricerca.

  1. testi, dati e codici devono essere elaborati secondo formati aperti e devono essere pubblicamente archiviabili, in modo che qualunque sia l’editore che li tratta, si possano facilmente esportare e utilizzare, senza barriere proprietarie;
  2. università ed enti di ricerca devono poter essere finanziati dal pubblico solo a condizione che smettano di valutare la ricerca sulla base della pubblicazione su determinate riviste, aderiscano a iniziative come DORA e si associno o promuovano infrastrutture di pubblicazione aperta quali Open Research Europe (ORE).

Anche se il documento non ne fa menzione, nell’apertura dei formati andrebbe inclusa anche una riforma del copyright che riconosca agli autori scientifici un diritto morale e inalienabile alla ripubblicazione immediata di tutti i loro testi, in modo da strappar via agli editori ogni monopolio che possa derivare dalla cessione dei loro diritti.

Plan I, si dirà, è poco realista. E però ci si dovrebbe chiedere in quale senso – se non quello vuoto ed estetizzante del realismo capitalista – lo è invece un sistema che, perfino in tempi di gravissima crisi, sottrae milioni e milioni di pubblico denaro ai contribuenti, ai docenti e agli studenti, indirizza a indagare non su quello che ci interessa ma su quello che viene citato, induce a trattative segrete ed accordi capestro, riduce la scienza aperta a un costoso adempimento burocratico e i ricercatori a vassalli o a complici dei signori della valutazione. Il suo testo, molto breve, meriterebbe dunque di essere letto per intero, soprattutto da chi, invece di affrontare i monopoli, preferisce scendere a patti con essi.

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Scienza aperta: solo una questione di adempimenti?

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I would prefer not toPaola Galimberti ha reso pubblico su Zenodo.org un breve articolo, Open Science: cambiamento culturale cercasi, per offrire un resoconto ragionato del modo in cui  l’università statale di Milano ha perseguito e va perseguendo l’apertura della scienza.

La Statale, negli anni. ha reso disponibili strumenti, quali gli archivi istituzionali per il deposito di testi e dati della ricerca e una piattaforma per pubblicare riviste ad accesso aperto e gratuito sia dal lato del lettore sia da quello dell’autore, ha deliberato discipline, e ha monitorato e diffuso i dati sui loro effetti e sui loro costi. Buona parte delle amministrazioni universitarie si interessano di scienza aperta per lo più in virtù di quanto imposto dai bandi dell’Unione Europea, in Italia indebitamente assunti a surrogati del finanziatore ordinario. L’ateneo milanese ha dunque l’ulteriore merito di averla perseguita in un ambiente che le è indifferente se non ostile. L’articolo, però, non è stato scritto per celebrare l’efficienza milanese, bensì per chiedere se – a Milano e altrove – sia possibile superare la logica dell’adempimento amministrativo per trasformare la scienza aperta in una pratica di ricerca diffusa e condivisa.

Quando, all’inizio dell’età moderna, la scienza cominciò la sua rivoluzione, la  pubblicità – come strumento di discussione e di falsificazione –  s’impose senza aver bisogno di essere imposta. Perché oggi, invece, viene perseguita come un adempimento amministrativo esteriore – così esteriore che pochissimi si sono resi conto che certi contratti detti trasformativi trasferiscono semplicemente in scrittura l’oligopolio in lettura di una manciata di editori scientifici commerciali?

La scienza aperta, se presa sul serio, è tale non solo nel suo medium ma anche nei suoi fini, entro un orizzonte che supera la durata del corpo e del nome del singolo  studioso: la conversazione non può e non deve aver conclusione perché chi indaga è un essere finito destinato a essere superato.  Anche per questo  – perché agli esseri finiti è difficile fare i conti con la propria fine – è stato semplice addestrare i ricercatori alla logica dell’adempimento burocratico, con incentivi e disincentivi individuali a brevissimo termine, ancorché di valore scarso o addirittura controproducente. L’università di Milano persegue l’open science con un certo grado di democrazia – si pensi per esempio alla sua commissione per l’accesso aperto che, invece di essere emanazione di un rettore-monarca, è composta dai delegati dei dipartimenti – ma che cosa ci impedisce di rappresentarla, entro la camicia di forza burocratica che impoverisce e comprime la ricerca italiana, come un mero esempio di efficienza amministrativa, ancora interamente prigioniero della logica dell’adempimento?

A questa domanda, proposta da chi scrive, ha tentato di rispondere Roberto Caso:

L’università di Milano ha devoluto risorse e investito sistematicamente in un’organizzazione favorevole alla scienza aperta; l’ha fatto con un processo trasparente e, soprattutto, dedica tempo e spazio alla formazione e all’informazione dei ricercatori.
Ciò dovrebbe essere sufficiente a convincerli che la scienza aperta è l’unico modo di fare scienza. In altri termini, dovrebbe scavare la differenza tra adempimento burocratico e obbligo morale (o anche semplice opportunità per se stessi e per tutti). Ma i ricercatori vivono nel mondo dell’università-azienda e hanno ormai talmente metabolizzato la logica dei premi e punizioni da non riuscire a concepire un mondo diverso. Anche quando premi e punizioni non sono istituzionalizzati a livello di ateneo il maggior incentivo a pubblicare in OA è la speranza di essere più citati.
Paola Galimberti ha più volte evidenziato che a Milano molte cose sono state fatte perché l’ateneo aderisce a LERU che applica ai suoi soci la logica di premi, punizioni e misure [ancorché solo reputazionali – N.d.R.]. Il che non sorprende e chiude il cerchio.

La discussione sull’articolo di Paola Galimberti, anteriore alla sua pubblicazione, è qui riportata sia perché rientra nella nostra prassi di revisione paritaria aperta, sia perché chi vi ha partecipato è convinto che la questione dell’open science, se emancipata  dalla logica dell’adempimento burocratico, potrebbe aiutare a ridiscutere il senso e il ruolo dell’università, almeno per chi non si accontenta di ridurla “a una mera strutture contabile, dove alla gerarchia priva di autorità di gruppi accademici che si azzuffano nella difesa d’interessi minimali si affiancano la degenerazione e la corruzione caratteristiche degli apparati aziendali e amministrativi“.

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