Category Archives: Filosofia

Nico De Federicis, Kant e le ambiguità della sovranità

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250 Jahre Immanuel Kant La filosofia politica moderna, a partire da Hobbes, ha impiegato il concetto di sovranità statale con un’ambiguità peculiare: da una parte, essa si giustifica come la forma di un ordine politico a garanzia delle libertà individuali, dall’altra, però, la sua stessa assolutezza produce un potere smisurato, assai più pericoloso di quelli degli singoli immaginati nel disordine pre-statuale dello stato di natura. Sull’arena internazionale, così, si replica l’alternativa fra stato di natura e assolutismo nella forma potenziata di una contrapposizione fra disordine mondiale e dispotismo internazionale, a proposito della quale, paradossalmente, difensori della sovranità quali C. Schmitt si schierano a favore del primo per timore del secondo.

Nico De Federicis, nel suo articolo “Kant e la filosofia politica moderna“, sostiene che Kant sfugge da questa ambiguità perché:

  • la sua repubblica mondiale non supera lo stato di natura fra stati fondendoli in un superstato, secondo una visione monista della sovranità, bensì tramite un federalismo che non la scinde solo orizzontalmente, con la divisione dei poteri, ma anche verticalmente;
  • la fondazione ultima della repubblica, o, meglio, ciò che la rende possibile, è una legittimazione morale, vale a dire il diritto degli esseri umani intesi come agenti razionali liberi e uguali.

In altre parole, mentre Hobbes e i teorici della sovranità monista propongono un aut aut fra guerra civile e dispotismo, Kant sostiene che proprio la sovranità in quanto concentrazione di potere basata sulla forza produce e guerra civile e dispotismo, e che l’unico modo per uscirne sia distribuire il potere, in luogo di concentrarlo, e prendere sul serio la questione della sua legittimazione morale.

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È possibile un’ “educazione alla pubblicità”?

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Mani alzate L’articolo di Romina Perni È possibile un'”educazione alla pubblicità”? Una riflessione sul progresso in prospettiva kantiana affronta l’importante tema dell’uso pubblico della ragione, con la sua funzione di emancipazione umana e di controllo del potere, per chiedersi se alla pubblicità della discussione scientifica e giuridica sia possibile educare. La sua lettura di Kant, influenzata dalla prospettiva di Hannah Arendt, si sviluppa su tre questioni:

1. È possibile concepire un’educazione alla pubblicità, in quanto educazione pubblica al senso del diritto e una cittadinanza consapevole?

2. Se sì, che ruolo può avere, collettivamente, nel progresso giuridico del genere umano?

3. In che modo può esserne coinvolto, distributivamente, il singolo come essere libero?

Il testo è liberamente disponibile su Zenodo, nella comunità del “Bollettino telematico di filosofia politica”.

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Paolo Bodini, Liberalismo e voto obbligatorio

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Pieter Bruegel il vecchio
Se il “Bollettino telematico di filosofia politica” fosse una rivista di classe A e riconoscesse l’autorità scientifica della valutazione di stato italiana, avrei avuto motivo di negare a Paolo Bodini il suo punto-fedeltà da spendere nell’emporio della carriera, perché la sua tesi non ha convinto né il professor Roberto Giannetti né me. Per noi però la valutazione amministrativa non è né scientifica né costituzionale: per noi le “pubblicazioni” che onorano il loro nome sono e dovrebbero rimanere pubbliche proposte di discussione, punti di partenza e non fini del cammino della ricerca. Abbiamo dunque deciso di segnalare il testo, ma con alcune critiche che non vogliono essere una valutazione gerarchica bensì una prima e non definitiva risposta a un invito alla discussione che estendiamo a tutti i lettori.

L’autore – va riconosciuto a suo merito – è d’accordo con la nostra scelta: il suo testo può essere commentato paragrafo per paragrafo nella nostra sezione dedicata alla revisione paritaria aperta.

1. Voto obbligatorio o obbligo di affluenza?

Secondo Paolo Bodini, la crisi della partecipazione politica che affligge molte liberal-democrazie occidentali – Italia compresa – può essere risolta con il voto obbligatorio, o, più precisamente, con l’affluenza obbligatoria alle urne, pensata come un rimedio “all’inadeguata normazione del meccanismo elettorale, incapace di interpretare e fronteggiare l’atteggiamento dell’elettorato.”

È però questa soluzione rispettosa della libertà del cittadino, intesa sia nel suo senso propriamente liberale, negativo, sia nel suo senso democratico, positivo? Uno stato che professa sia il principio della limitazione della sua interferenza (libertà negativa), sia quello dell’autodeterminazione dei cittadini (libertà positiva) può coerentemente permettersi di obbligarlo a presentarsi alle urne?

L’autore risponde di sì: l’obbligo, infatti, non limita, contenutisticamente, la libertà perché quanto si può esprimere con l’astensione si può ugualmente e anzi più efficacemente comunicare in un regime di affluenza obbligatoria.

  1. Se non voto perché mi sento incapace di prendere una posizione, l’affluenza obbligatoria mi permette di rendere esplicito che decido di non scegliere.
  2. Se non voto perché rifiuto tutti i candidati o tutti partiti in lizza, presentarmi alle urne per rifiutare la scheda o, dove essa lo prevede, indicare che non mi riconosco in nessuno di essi, l’affluenza obbligatoria mi consente di esprimere la mia posizione e, con ciò, anche la mia maturità civica.
  3. Se non voto perché non mi interessa la politica, l’affluenza obbligatoria mi consente di rifiutare la scheda, trasformando semplicemente la mia indifferenza da passiva a attiva, entro un sistema, quale quello statale, la cui autorità è comunque completa o omnicomprensiva.
  4. Se non voto perché non accetto il regime vigente – per esempio perché sono anarchico – posso presentarmi alle urne e rifiutare la scheda, rendendo esplicita la mia protesta e cogliendo l’occasione per divulgare il mio ideale.

La stessa mitezza delle sanzioni previste per il mancato rispetto dell’obbligo è indice della natura “liberale” del suo scopo, che sarebbe “la difesa della partecipazione elettorale come strumento di autodeterminazione e di controllo del popolo sui governanti”.

2. Costringere a essere liberi?

Da un punto di vista storico, tuttavia, la partecipazione elettorale non è stata un obiettivo dei regimi puramente liberali, che anzi per molto tempo si sono fondati sul lato negativo della libertà e – temendo il suffragio universale – su un diritto di voto spesso molto ristretto.1 Lo è invece stata, e lo è, nei sistemi democratici che non possono fare a meno del lato positivo della libertà, ossia dell’autodeterminazione dei cittadini.2 La questione se il voto obbligatorio sia o no (liberal-)democratico, in questa prospettiva, può dunque essere ricondotta a un problema più ampio e più classico: se, cioè, sia possibile e coerente costringere a essere – positivamente – liberi.

L’autore sostiene che l’affluenza obbligatoria alle urne permette all’elettore di dichiarare tutte le posizioni politiche possibili, ma il punto non è questo, se almeno vogliamo tener distinti gli eventuali contenuti di una scelta dalla libertà della scelta stessa. Se vale questa distinzione, allora una cosa è dimostrare che l’affluenza obbligatoria permette all’elettore di dire tutto quello che potrebbe esprimere con l’astensione, e un’altra è provare se il suo essere costretto a dire tutto sia compatibile con il principio dell’autodeterminazione democratica. Non aver chiara questa differenza espone al rischio di confondere un interrogatorio giudiziario, nel quale posso confessare tutto ma, salvo eccezioni, sono obbligato a rispondere, con l’uso pubblico della ragione, nel quale ho facoltà di dire tutto quello che penso, ma con la possibilità di scegliere se, come e quando dirlo.

L’elezione non può essere pensata come una raccolta coercitiva di dati – la quale espone a una pubblica schedatura gli anarchici e i dissidenti radicali che, costretti a presentarsi al seggio, rifiutano di entrare in cabina elettorale – perché, in un sistema democratico, dovrebbe essere un atto libero di autodeterminazione. Eravamo abituati a pensare alla privacy come al diritto, civile, di essere lasciati da soli, ma la segretezza del suffragio, che dovrebbe essere praticabile per tutti, anarchici compresi, indica che è anche – e non da oggi – un essenziale diritto politico.3 Il mio discorso, così come il mio voto, è un mio atto culturale o politico libero solo se è l’esito volontario della mia scelta personale di esprimermi,4 e non il frutto coatto di una raccolta di dati.

In molti paesi – Italia compresa – è obbligatorio partecipare ai censimenti: ma i censimenti sono rilevazioni amministrative della popolazione che trattano i residenti come sudditi sottoposti all’autorità di un governo – non necessariamente democratico – e non come cittadini che scelgono di esserne partecipi.

Che le sanzioni previste per la mancata affluenza siano miti è, da questo punto di vista, irrilevante: il difficile rapporto del voto obbligatorio con la libertà positiva non è una questione di grado, bensì di specie. Per quanto blandamente, l’elettore rimane pur sempre costretto: e qui non si tratta di capire in che misura una (liberal-)democrazia possa obbligare al voto, ma se in generale un’autodeterminazione elettorale coatta possa dirsi autodeterminazione, e, soprattutto, possa dirsi politica.

3. Affluenza obbligatoria e post-democrazia

Come mai è divenuto così faticoso distinguere fra politica e amministrazione, fra cittadinanza e sudditanza, fra governare ed essere governati?

La filosofia politica normativa neo-contrattualista si basa sul modello di un patto costituzionale ideale che è un esperimento mentale e non un fatto storico. E però questa astrazione, se si vuole applicare almeno approssimativamente all’esperienza, non può essere un mito racchiuso in un passato irripetibile o nei sogni di qualche filosofo accademico, ma deve avere qualche nesso con quello che facciamo: un patto costituzionale nel cui esercizio i cittadini non esperiscano più dei momenti in cui scelgono effettivamente qualcosa, in cui la loro decisione conduca a un qualche cambiamento, perde rapidamente il suo senso per ridursi a rituale e finzione ideologica.

In un libro neppure così recente, Colin Crouch ha dato un nome a questa condizione: post-democrazia. Viviamo, cioè, in un mondo in cui le strutture formali della democrazia, elezioni comprese, rimangono in vigore, ma vengono svuotate del loro senso politico, perché il potere, le decisioni e perfino i servizi pubblici, appaltati o privatizzati, sono in mano a gruppi di interesse economici globali, in grado di esercitare un’influenza assai più profonda e capillare rispetto a governi minimizzati, depauperati e confinati nel proprio territorio. Mentre per il liberalismo pre-democratico, il cui suffragio era ristretto, era scontato che la politica fosse un affare per i ricchi e per i pochi, la post-democrazia ha però ancora bisogno dello spettacolo del consenso. E se questo consenso non può più venir guadagnato tramite progetti politici – la storia è finita e c’è certo molto da fare, ma più nulla da progettare – lo si costruisce con le tecniche della pubblicità e delle analisi di mercato. Qui, infatti, richiamare alle urne quanti ormai hanno perso – o non hanno mai avuto – la volontà, l’interesse o la competenza per stare al gioco è assieme indispensabile e pericoloso. Indispensabile, perché ancora non si può fare esplicitamente a meno del consenso delle masse, e pericoloso – perfino nel caso di quanto è poco determinatamente detto “populismo” – perché la maggioranza deve certo partecipare, ma non può propriamente vincere, cioè decidere su qualcosa di più dei marginali feticci su cui la propaganda di volta in volta la mobilita.

In una simile situazione, assimilare l’elezione a una censimento e trattare il momento della deliberazione come una semplice rilevazione di dati – con l’effetto collaterale della schedatura dei dissidenti più radicali – può certamente sembrare una soluzione. Ma ci si può e ci si deve chiedere se questo espediente, al di là della sua coerenza teorica, possa davvero rendere il sistema più democratico, o non sia invece un ulteriore passo di un’assimilazione della politica all’amministrazione che non solo riduce i cittadini a sudditi, ma ci sta rendendo drammaticamente incapaci di rispondere alle crisi.

Paolo Bodini, Liberalismo e voto obbligatorio: un confronto

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Pierpaolo Ciccarelli, Laicismo e persecuzione

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Il Bollettino telematico di filosofia politica propone alla revisione paritaria aperta l’articolo di Pierpaolo Ciccarelli, Laicismo e persecuzione. Abbozzo di una fenomenologia dello «spazio assiologico».

Ne anticipiamo, qui, la conclusione.

Se veramente, dunque, ci sta a cuore l’assolutezza dei valori, e non quella della forza, non c’è altro modo che salvaguardare laicamente lo spazio assiologico. Una volta, infatti, che questa sia stato limitato o annientato, all’espressione discorsiva dei valori rimarrà soltanto un’alternativa: o quella, nobile ma necessariamente relativizzante, del loro studio teorico e storico, oppure quella, ignobile eppure sempre più in voga quando si sollevano i problemi etici, dell’uso strumentale del discorso a fini propagandistici.

Chi desidera conoscere e discutere l’argomentazione dell’autore trova una versione commentabile  del testo qui.

Le istruzioni per partecipare alla revisione paritaria aperta si leggono, come sempre, qui.

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Il Cratilo di Platone

tetradrakmatonLa guida ipertestuale alla lettura del Cratilo di Platone composta per gli studenti della facoltà di Scienze politiche dell’università di Pisa è ora visibile a tutti qui.

L’ipertesto ha tratto vantaggio dall’Introduzione alla linguistica generale del professor Manuel Barbera dell’università di Torino il quale ha scelto di rendere il suo corso disponibile ad accesso aperto. Questa decisione, ancora poco comune, mi ha permesso di illustrare il senso interdisciplinare di un dialogo platonico importante non soltanto per la storia della filosofia, senza costringermi a re-inventare la ruota.

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Szlezák e le dottrine non scritte di Platone: una scheda

L’archivio Marini ospita una scheda di Thomas A. Szlezák. Platon lesen, Stuttgart: Frommann Holzboog Verlag, 1993,  scritta – in questa sede solo con spirito di cura – per rendere disponibile ad accesso aperto la sintesi di un importante testo tuttora non disponibile all’uso pubblico della ragione.
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