Misura responsabilmente. COARA, la riforma della valutazione della ricerca e l’Unione Elusiva

Affiche - L'Alcool est un Poison

Un ministro francese convocò alcuni dei commercianti più stimati, per chiedere loro suggerimenti sul modo in cui poter sollevare le sorti del commercio, come se intendesse scegliere l’avviso migliore. Dopo che uno ebbe suggerito questo e l’altro quel rimedio, un vecchio commerciante, che fino ad allora era rimasto in silenzio, prese a dire: costruite buone strade, battete buona moneta, accordate uno diritto snello in materia di cambio e così via; quanto al resto, ‘lasciateci fare!’ Questa sarebbe la risposta che dovrebbe dare la facoltà di filosofia, se il governo le chiedesse quali dottrine deve imporre agli studiosi: solo di non impedire il progresso delle idee e delle scienze.1

1. Il ritorno della qualità

COARA è una coalizione composta promiscuamente da università, enti di ricerca, associazioni scientifiche e agenzie di valutazione che si è formata in seguito all’Agreement on Reforming Research Assessment (ARRA), reso pubblico nel luglio 2022. La coalizione comporterebbe un reciproco impegno a superare o integrare la valutazione amministrativa della ricerca, che è bibliometrica e quantitiva, e a riconoscere la sua qualità e varietà tramite la revisione fra pari.

Secondo un articolo offerto alla revisione paritaria aperta da Francesca Di Donato, che è fra i redattori dell’accordo, per riconoscere la qualità occorrerebbe riaffermare, al modo di Kant, l’autonomia della comunità scientifica. Kant assegnava la ricerca di base alla facoltà di filosofia e trattava la valutazione come intrinseca alla ricerca stessa, se per ricerca si intende “l’esercizio di un metodo che consiste nel sottoporre a critica qualsiasi dottrina, e come tale è presupposto essenziale di ogni conoscenza”. Una valutazione di questo tipo, però, non può svolgersi senza “libere comunità di pari che imparano dai propri errori e si correggono costantemente a vicenda.” Perciò, conclude Francesca Di Donato, per riportare la qualità nella ricerca “non basta cambiare il modo in cui si valuta”: occorre sviluppare un principio dell’accordo ARRA (pp. 3, 5, 6, 9) – quello di coinvolgere la comunità scientifica, incoraggiandola a “controllare collettivamente le infrastrutture necessarie per il successo della riforma.”

Vale però la pena ricordare che i quattro impegni fondamentali dell’accordo ARRA, riassunti qui a fianco, riguardano il come si valuta. Il coinvolgimento della comunità scientifica è fra gli impegni di sostegno ed è spesso formulato in modo da far pensare che questa possa offrire suggerimenti, di nuovo, sul come si valuta, dando per scontato chi valuta, e dunque la sua legittimazione e la sua assenza di conflitto di interessi. Come recita, per esempio, la spiegazione del punto 6.1 (in traduzione italiana a p. 17, corsivo aggiunto) “questo impegno garantirà che le autorità nazionali / regionali / organizzative e le agenzie di valutazione rivedano e, se necessario, sviluppino criteri per la valutazione delle unità e delle istituzioni di ricerca, in conformità con i Principi”.

2. Valutatori e valutati

L’origine dell’ Agreement on Reforming Research Assessment su cui si basa COARA ha poco a che vedere con Kant. È infatti esito di un’iniziativa che non nasce fra gli studiosi, bensì nella Commissione, con il sostegno del Consiglio dell’Unione Europea, quando la pandemia di Covid-19 mostrò anche ai più conservatori che una valutazione della ricerca basata sulla quantità di pubblicazioni e citazioni non garantisce, come tale, né accessibilità né qualità alla scienza.

Sebbene gli organi dell’Unione Europea abbiano fondato la loro iniziativa su numerosi studi, sia indipendenti sia su commissione, il loro intervento non ha preso di mira le infrastrutture, bensì la qualità della ricerca.

Per riconoscere la qualità di un’opera – ha ammesso l’Unione Europea – bisogna leggerla e comprenderla: per questo una valutazione che la prenda sul serio deve mettere in primo piano la revisione fra pari, compiuta dagli studiosi stessi, e usare la bibliometria in modo “responsabile”. E però il difetto della bibliometria – la pretesa di valutare la ricerca solo quantitativamente, senza leggerla e senza capirla – diventa una virtù, quando la valutazione, strappata alle comunità degli studiosi, è affidata ad agenzie governative centralizzate. La revisione fra pari – si dice – non può essere usata come arma di valutazione di massa perché non è scalabile. La bibliometria invece lo è, proprio perché esonera dalla lettura e dalla comprensione.

Come possiamo dunque sperare di eliminare o ridimensionare l’uso valutativo della bibliometria senza ridimensionare o eliminare le agenzie amministrative centralizzate – quali l’ANVUR italiana e l’ANECA spagnola – a cui il governo ha conferito il compito della valutazione di massa?

COARA, che pure non ammette gli editori scientifici commerciali per il loro evidente conflitto di interessi, non si è posta questo problema: non solo le agenzie statali di valutazione ne possono fare parte, ma possono addirittura sedere nel suo consiglio direttivo. Semplice distrazione o consapevole ambiguità?

Come riferisce Francesca Di Donato il secondo impegno di ARRA richiede che la ricerca sia valutata tramite la lettura e la discussione delle opere dei ricercatori. La revisione fra pari è dunque fondamentale, come parte di un dibattito scientifico pubblico che dovrebbe essere esso stesso oggetto di ricerca, allo scopo di “tenere il meccanismo efficiente e vitale”. Inoltre, il terzo impegno patrocina una “misurazione responsabile”, che prenda congedo “dagli usi inappropriati di indicatori come il fattore d’impatto delle riviste e l’indice H”.

A chi è destinata la ricerca sul dibattito scientifico? Alla riflessione della comunità scientifica o ai valutatori amministrativi per sperimentazioni behavioristiche in corpore vili? Come racconta Melinda Baldwin, negli USA la revisione paritaria chiusa in doppio cieco divenne marchio di scientificità per motivi politici: l’esibizione della procedura permise di sfuggire allo scrutinio del Congresso sui finanziamenti pubblici alla ricerca. Questo arrocco – nella veste di una versione procedurale dell’ipse dixit – non è stato privo di conseguenze, e non solo in termini di conformismo.2 Ma una cosa è un’autocritica della comunità scientifica sul proprio uso pubblico e privato della ragione, un’altra è che funzionari o studiosi-funzionari ne facciano un impiego amministrativo, coinvolgendo, o no, i ricercatori semplici.

3. “Negazionismo bibliometrico”

A chiarire la posizione di COARA, o, almeno, di chi la guida, ha aiutato la recente accusa di “negazionismo bibliometrico”, a cui Luciana Balboa, Elizabeth Gadd, Eva Mendez, Janne Pölönen, Karen Stroobants, Erzsebet Toth Cithra e l’intero consiglio direttivo di COARA si sono affrettati a rispondere cosi:

Usare solo la scientometria per valutazioni a livelli di granularità più bassi, cioè per la valutazione degli individui, che comprende scopi importanti quali l’assegnazione di riconoscimenti (finanziamenti, posti di lavoro), è altamente problematico. In casi come questi si dovrebbe preferire la revisione paritaria.

Tuttavia

l’uso della scientometria a livelli di aggregazione superiori, come quello nazionale o universitario, e per forme di valutazione meno importanti come la conoscenza scientifica, è molto meno problematico (anche se ancora imperfetto).

La loro risposta mostra anche la consapevolezza della difficoltà di tener confinata la bibliometria a livelli superiori. Un ricercatore che si trova a lavorare in un’istituzione valutata e finanziata con criteri quantitativi sarà spinto a orientarsi bibliometricamente, a dispetto di tutti gli impegni a farne un uso responsabile.

Resta il fatto che una dipendenza eccessiva da una scientometria pur responsabile può comunque avere un impatto negativo, per trascinamento, sull’ecosistema della valutazione della ricerca. Un uso legittimo della bibliometria per comprendere l’attività a livello di paese può velocemente estendersi ai criteri di promozione, se, a livelli di aggregazione superiori, si associa alla valutazione bibliometrica un riconoscimento troppo grande.

La risposta rende chiaro che COARA non intende eliminare le armi di valutazione di massa e le agenzie statali che ne fanno uso, bensì solo limitarne il danno. Quanto all’effetto trascinamento (trickle-down) la soluzione – si dice – può essere il principio 9 del Leiden Manifesto for the responsible use of bibliometrics, il quale suggerisce di adottare “un insieme di indicatori” invece che “uno solo”, in modo da render difficili la manipolazione (gaming) e la trasformazione dell’indicatore in obiettivo.

Se non ci accontentiamo di soluzioni “soluzioniste”, dobbiamo però ricordare che è così facile manipolare il sistema perché gli indicatori bibliometrici sono connessi solo ortogonalmente alla qualità della ricerca, anche se sono indispensabili alle burocrazie valutatrici centralizzate, munite o meno di programmi per computer, perché incapaci di leggere e comprendere la scienza non solo come è scritta, ma anche com’è fatta. I ricercatori non sono necessariamente più truffaldini del resto della popolazione: semplicemente, sono esposti alla tentazione di truccare il sistema per amor di carriera o di mera sopravvivenza accademica proprio perché sottomessi a criteri di valutazione che non afferrano la sostanza della scienza. La prima manipolazione del sistema, in altre parole, è il sistema stesso.3

E il sistema è anche, letteralmente, un sistema di sottomissione: chi guida COARA si è sentito in dovere di rispondere a critici che non parlano come ricercatori che si rivolgono a colleghi, ma con i toni del padrone, o del consulente del padrone, che vede gli studiosi come risorse il cui uso va ottimizzato.

Nel ventunesimo secolo, patrocinare una valutazione della ricerca basata sulla revisione paritaria invece che su metodi scientometrici appare obsoleto e controproducente. Da decenni si va perseguendo una costante innovazione tecnologica trainata dalla necessità di ottimizzare risorse limitate quali gli scienziati. La ricerca scientometrica conduce a soluzioni più efficienti ed economiche per valutare la ricerca e soddisfare le esigenze degli utenti.4

Anche se COARA, come pare, mira solo alla riduzione del danno, l’ammissione delle agenzie di valutazione non solo alla coalizione ma al suo stesso consiglio direttivo mette a rischio pure questo modesto obiettivo: le agenzie di valutazione di massa, avendo bisogno di armi di valutazione di massa, portano con sé un enorme conflitto di interessi, che può condurre – come mostra il caso italiano5 – l’intrapresa al fallimento.

4. Qualità e libertà

La valutazione fra pari, anche in COARA, è legata, come discussione idealmente libera e accessibile, alle pratiche della scienza aperta – pratiche che numerose istituzioni politiche si sono date la pena di definire e raccomandare. In un ambiente addomesticato dalla valutazione amministrativa questi interventi inducono a trattare l’open science come uno dei tanti adempimenti richiesti agli addetti alla ricerca, spesso pensati senza neppure una particolare lungimiranza.

Per esempio, nel 2015 la Commissione europea rappresentava la scienza aperta (p. 33) così: “L’ Open Science è un cambiamento tanto importante e dirompente quanto l’e-commerce per la vendita al dettaglio”. Era già, allora, chiaro che il cosiddetto platform capitalism stava esponendo il web pubblico a privatizzazione, monopolio e sfruttamento: nel 2010 lo stesso inventore del web, Tim Berners-Lee, aveva già lanciato il suo allarme. Ma la Commissione europea inseriva spensieratamente nell’ecosistema della scienza aperta (p.39) piattaforme proprietarie come Academia.edu o Mendeley, acquistata da Elsevier nel 2013.

Oggi è diventato facile criticare la scienza di stato, quando viene stabilita per decreto oltreoceano. Ma non si tratta di qualcosa di nuovo, spuntato nottetempo come un fungo: anche se riducessimo a periferica la valutazione di stato italiana, non possiamo trattare come tale l’interferenza dell’Unione Europea nelle modalità e nelle valutazioni della scienza – a dispetto di un Kant molto invocato e poco letto.

La rivoluzione scientifica moderna, dal canto suo, non nacque da prescrizioni di monarchi e di despoti illuminati. Secondo Paul David, l’idea della scienza come bene comune, basata sulla collaborazione e finanziata da mecenati aristocratici, si radica in un mondo pre-capitalistico e assai meno burocratico. Se vogliamo allentare la morsa della burocrazia che priva la ricerca di qualità, non possiamo concepire l’apertura come un compito amministrativo. Infatti, l’obiettivo non è quello di devolvere risorse in pubblicazioni a pagamento per i profitti o le rendite private,6 ma di mantenere o ricreare le condizioni che consentono alle comunità scientifiche di curarsi della qualità del loro lavoro attraverso la collaborazione e la critica libera.

5. Qualità: una definizione sfuggente

Secondo Wilhelm von Humboldt, la cui riforma universitaria è stata per lo più smantellata dall’Unione Europea tramite il cosiddetto processo di Bologna, è “caratteristica degli istituti scientifici superiori continuare a trattare la scienza come un problema ancora non del tutto risolto e perciò rimanere sempre alla ricerca”. Anche per questo – non solo perché non sappiamo concepire un criterio universale di verità – la definizione di qualità è così elusiva.

Nel linguaggio aziendale la qualità consiste in parametri rigorosamente definiti a cui si devono adeguare prodotti e processi. La qualità della ricerca, però, non essendo riducibile a standard amministrativamente accertabili, può essere meglio indagata a partire da un testo eccentrico: Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert M. Pirsig.

Nel libro l’alter ego di Pirsig a Bozeman, Fedro, prova in primo luogo a trattare la qualità non come una questione teoretica, bensì pragmatica. Il docente abolisce i voti e chiede agli studenti di valutare i loro compiti da sé, giorno per giorno. Alla fine scopre che gli studenti tendono all’imitazione reciproca e dell’insegnante. Non è una sorpresa: se ci si affida alla pratica senza nessuna riflessione teoretica si otterrà soltanto una moda, i cui capricci sono imitabili ma irriducibili a concetto.

Paradossalmente, questo è anche il peccato originale della valutazione bibliometrica della ricerca: perché cercare l’inafferrabile e non scalabile qualità quando si può facilmente calcolare, tramite le citazioni, quanto va di moda?

Il metodo scientifico, per Pirsig, è il modo in cui esseri razionali ma finiti selezionano una singola (e forse provvisoria) verità tra molte ipotesi, pur senza essere in grado di afferrare la Verità in generale. E nell’uso di questo metodo – che è diverso dall’annotazione amministrativa dell’impatto di qualcosa che non ci si cura di capire – si manifesta, di volta in volta e provvisoriamente, la qualità. Per cogliere il senso di questo processo, però, bisogna farne parte, cioè essere ricercatori e non burocrati che, più o meno “responsabilmente”, registrano l’“impatto” di qualcosa che rimane loro oscuro. Questa tesi non va interpretata come una mistica della ricerca: semplicemente, quando adottiamo criteri “statici” di qualità per valutazioni puntuali quali concorsi e assunzioni, dobbiamo essere consapevoli che non sono in grado di render giustizia all’intero processo, che non è statico ma dinamico.7

Pertanto, come Kant sostenne nel Conflitto delle facoltà, ridurre le università a istituzioni ministeriali sottomesse a criteri di verità interamente estrinseci e amministrativamente applicati, mette a repentaglio la credibilità stessa della scienza. La credibilità scientifica, infatti, non dipende dall’adesione a parametri bensì dalla libertà della critica pubblica, proprio perché si forma entro un processo non terminato e non terminabile. Questa libertà degli studiosi, che è condizione della scienza, non consiste in una facoltà di dare ordini, bensì nella possibilità di mettere in discussione anche gli studiosi-funzionari al servizio dell’amministrazione – criteri amministrativi di valutazione compresi. Perciò

alla domanda “chi valuta?” Kant risponde: la comunità scientifica, perché solo studiosi possono giudicare altri studiosi. Se questo giudizio venisse alterato da ragioni esterne alla sua propria ragione, cioè la ricerca della verità, la scienza non sarebbe più tale.

6. L’Unione Elusiva

Per Kant l’economia interna dell’università richiede, in primo luogo, la libertà. I politici, da parte loro, dovrebbero occuparsi delle infrastrutture della ricerca e non del modo in cui i ricercatori la fanno. Caesar non est supra grammaticos.

Molti tecnocrati europei, quando si tratta di appellarsi ai “nostri valori”, amano o amavano presentarsi, a proposito o a sproposito, come kantiani. Ma l’accordo ARRA e COARA non possono dirsi tali se non propagandisticamente.

  1. La Commissione europea scopre, sia pure in grave ritardo, che la valutazione quantitativa della ricerca produce quantità e non qualità.
  2. Per risolvere il problema promuove una coalizione lasca di università, istituzioni di ricerca, società di studi e agenzie di valutazione, anche centralizzate, con lo scopo di riformare la valutazione della ricerca, come se il dominio della bibliometria e il danno alla qualità della ricerca fosse esito esclusivo di iniziative venute dai ricercatori, che vanno incoraggiati ad autocorreggersi.

Un politico kantiano avrebbe fatto esattamente l’opposto.

  1. In primo luogo, avrebbe lasciato la valutazione della ricerca ai ricercatori.
  2. In secondo luogo, avrebbe indagato sulle eventuali condizioni infrastrutturali – le buone strade, la buona moneta, lo snello diritto di cambio della citazione in epigrafe – che un’azione politica avrebbe potuto migliorare. E non avrebbe fatto fatica a scoprire che la bibliometria, come arma di valutazione di massa, è indispensabile dove la valutazione è amministrativa e centralizzata – come in Italia con l’ANVUR e in Spagna con l’ANECA. E avrebbe usato la sua autorità legislativa per eliminare o ridurre al minimo questo tipo di valutazione. “Quanto al resto, lasciateci fare!”

L’iniziativa politica europea si è invece concentrata, soluzionisticamente, sul come si valuta non solo senza chiedersi chi valuta, ma anche dando per scontata la legittimità delle agenzie di valutazione statali e soprattutto che queste, ammesso e non concesso che siano indipendenti, possano seriamente impegnarsi a minimizzare o abolire le armi – bibliometriche – di valutazione di massa e quindi a ridimensionare o abolire se stesse. Così il peccato originale della sovrapposizione di potere amministrativo e ricerca continua ad affliggere COARA, senza che l’UE, in veste di Unione Elusiva, abbia il cervello e il cuore di redimerlo.8


  1. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, AK VII, 19-20 n2, traduzione di Domenico Venturelli (Brescia : Morcelliana, 1994), con qualche modifica. ↩︎
  2. Ha, infatti, reso facile sostenere che qualsiasi pretesa è “scientifica” perché pubblicata su una rivista a revisione paritaria (Adam Marcus, Ivan Oransky. “The Scientific Literature Can’t Save You Now”. In: The Atlantic (2025) https://www.theatlantic.com/science/archive/2025/02/rfk-kennedy-vaccines-scientific-literature/681681/ ↩︎
  3. “Rather than serving as a scientific certification process, administrative evaluation functions as a mechanism for ascribing value to research outputs and contributions based on criteria established by administrative or policy authorities”: Alberto Baccini, COARA will not save science from the tyranny of administrative evaluation, https://arxiv.org/abs/2408.05587v3, 2025, §6. ↩︎
  4. Giovanni Abramo, The forced battle between peer-review and scientometric research assessment: Why the CoARA initiative is unsound, 2024. ↩︎
  5. Come mostra, per quanto concerne l’Anvur, la distanza fra gli impegni sottoscritti e quelli programmati. ↩︎
  6. Come nei conservativi accordi trasformativi, finiti un vicolo cieco. ↩︎
  7. Per esempio la discussione fra matematici può essere documentata da pubblicazioni che in passato erano riviste e ora, come mostra il caso Perel’man, un archivio istituzionale ad accesso aperto. ↩︎
  8. Anche perché i suoi consulenti più rispettati, ancorché non eletti (The Future of European Competitivenss: A competitiveness strategy for Europe (Part A) 2024), deplorando che poche università europee raggiungano “top levels of excellence” (eccellenza misurata, a dispetto di COARA, sulla base del volume di pubblicazioni in “top academic journals”, p. 24) e pesando il valore della ricerca pubblica in base alla sua capacità di privatizzarsi in brevetti (p.25), trattano i ricercatori come risorse da spremere per estrarne “innovazione” (p.24) senza mai chiedersi se a renderli conformisti non sia proprio la servitù amministrativa a cui sono sottomessi. ↩︎
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Italia: le occasioni perdute della scienza aperta

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L'occasione L’articolo che Paola Galimberti offre alla revisione paritaria aperta parla di occasioni perdute, vale a dire di alluvioni di parole a cui raramente sono seguiti fatti.

A parole ci sono stati molti impegni declaratori, alcuni dei quali precoci come l’adesione del 2004 alla dichiarazione di Berlino sotto il patrocinio della Crui, altri tardi e parziali, come l’anomala legge del 2013 sull’accesso aperto e un piano nazionale per la scienza aperta privo di finanziamenti e infrastrutture di sostegno.

Quando poi si sono avuti strumenti come gli archivi IRIS, sono mancate politiche istituzionali e di formazione sistematiche e coerenti. In più la valutazione di stato della ricerca  dal 2012 impone un sistema basato sul publish or perish e sulla collocazione editoriale – sistema  che la firma di COARA da parte dell’ANVUR non ha, nella sostanza, cambiato.

È possibile render pubblica la scienza in modo non commerciale con il Diamond Open Access. Iniziative di questo tipo fioriscono anche in Italia, ma dal basso, grazie al volontariato di docenti, istituzioni e university press: in alto pochissimi, a differenza che all’estero, si sognano di sostenerle e valorizzarle. L’unico accesso aperto promosso dall’alto è quello costosissimo dei cosiddetti accordi trasformativi, la cui natura conservativa è ormai ampiamente dimostrata.

Paola Galimberti conclude, ancorché provvisoriamente, che

La pratica della scienza aperta richiede tempo e competenze specifiche, scelte consapevoli e supporto adeguato. Se i ricercatori non riescono a vedere il vantaggio di questa gestione onerosa (ad esempio in termini di riconoscimento), se le istituzioni non mettono loro a disposizione competenze e strumenti, è difficile che ci si applichino e vi aderiscano.

Nel nostro Paese le molte premesse per uno sviluppo normalizzato della scienza aperta ci sono state e ci sono ancora. Si tratta solo di implementarle in maniera consapevole, e il National chapter di COARA potrebbe forse essere un primo passo.

Dopo vent’anni, però, dovremmo chiederci se la questione della scienza aperta italiana sia riducibile a  un problema amministrativo che istituzioni e funzionari più consapevoli e illuminati saprebbero risolvere, e considerare l’ipotesi che il suo seme non abbia attecchito semplicemente perché fin dall’inizio è stato piantato solo un simulacro di pietra da esibire in eventi cerimoniali e declaratori. Come mai l’unico accesso aperto normalizzato è quello, programmaticmente conservatore, di contratti “trasformativi” solo in senso ironico? Come mai istituzioni che per la scienza aperta non sono andate molto oltre le dichiarazioni hanno invece collaborato con zelo a una riforma del sistema che ha condotto a una compressione selettiva e cumulativa degli atenei italiani, a una crescente e insopportabile precarizzazione e gerarchizzazione dei ruoli accademici e a una valutazione di stato centralizzata e ferocemente bibliometrica – a dispetto dell’articolo 33 della costituzione?

La presenza di iniziative che nascono dal basso, da pochi studiosi e istituzioni, mostra che, perfino sotto una valutazione di stato pervasiva e autoritaria, chi è strutturato nell’università italiana e vuole fare scienza aperta la fa, pur su scala artigianale e rinunciando a ciò che normalmente passa per potere e prestigio. Galileo Galilei seppe cogliere l’occasione che la stampa gli offriva per pubblicare il suo Sidereus Nuncius senza bisogno, e anzi contro, il Sant’Uffizio. E già alla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso il World Wide Web, il software libero e le licenze Creative Commons offrivano l’occasione di aprire la scienza a chi avesse voluto fare uso pubblico della ragione: e ci fu chi fu capace di coglierla, senza bisogno di corsi di formazione ad hoc.

La via amministrativa alla scienza aperta con le sue dichiarazioni, pianificazioni, incentivazioni e monitoraggi sembra una scorciatoia inevitabile in un’università burocratizzata come quella, prima che neoliberale, moderna. E lo è: ma porta da tutt’altra parte. Gli amministratori suddividono arbitrariamente la ricerca in elementi discreti: “prodotti”, dati, pubblicazioni, sedi editoriali, impatti calcolabili in termini di citazioni su riviste o anche su media sociali. E a questi elementi associano castighi e premi, necessariamente rivolti a “masse uniformi e obbligate”. La scienza (aperta), invece, è difficile da tradurre in adempimenti, perché, avendo a che fare con problemi ancora non del tutto risolti, non solo è metodo e processo, bensì metodo e processo esposti essi stessi alla discussione. La comunità scientifica, quando l’interesse è quello della scienza, può permettersi di essere anarchica. Al matematico russo Grigori Perelman, per far riconoscere un avanzamento di grande importanza,  bastò l’ArXiv e una comunità scientifica attenta.

Wilhelm von Humboldt, in un frammento incompiuto e per molti decenni abbandonato in un archivio, si era chiesto come fosse possibile inserire l’anarchia dei problemi ancora non del tutto risolti negli istituti di studi superiori, e aveva disegnato un progetto minimalista, isolato e fragile in un mondo che, dopo la Restaurazione, sarebbe divenuto molto diverso da quello immaginato dai riformatori prussiani. Le strutture italiane attuali, altrimenti impiegatizie, riposano su un sistema iperburocratizzato di premi e castighi, che difficilmente può ospitare gli spazi negativi della discussione della scienza (aperta) – anche se la relativa retorica rimane utile per una patina di legittimazione in continuità col passato. Perché mai convertirsi davvero alla scienza (aperta)? Perché mai tentare un simile salto nel vuoto? Perché allevare ricercatori amministrativamente e spiritualmente liberi dalle catene bibliometriche e dalla valutazione di stato, e dunque in grado di rifiutarsi di privatizzare il loro lavoro in brevetti, o di asservire perfino la ricerca di base a scopi commerciali1 o militari?

Come l’Occasione di Machiavelli, anche i ricercatori italiani tengono il piè sopra una rota: ma la loro non è la ruota del kairos bensì quella in cui certi piccoli animali domestici vengono fatti esercitare da chi li ha messi in gabbia: non porta da nessuna parte ma conforta, trasferendo ad altri il compito di stabilire il senso di tutto il loro girare.

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Cambi di classe:”Sulla ‘non-riproduzione e la ‘fabbrica dei trans-classe'” di Brunella Casalini

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Le rouge et le noir 1831Come conciliare l’ideale dell’uguaglianza ancora scritto nelle costituzioni dei paesi cosiddetti occidentali con l’influenza di gerarchie sociali implicite sempre più rigide? Il bispensiero dell'”ugualitarismo gerarchico”, nel quale l’uguaglianza del socialismo ideale conviveva con la gerarchia del socialismo reale, veniva associato da Yuri Levada all’homo sovieticus. Lo ritroviamo, ora, anche nei regimi post-democratici?

L’individualismo metodologico non usa, e dunque non espone alla critica,  modelli di configurazioni sociali collettive, quali le classi e le relative gerarchie, perché, tutt’al più, rappresenta le disparità  come esiti spontanei di combinazioni di azioni individuali e non come costruzioni politiche. E per  l’ideologia del merito queste configurazioni sono tali da permettere ai singoli di collocarvisi a seconda della loro capacità: ci sono  “ascensori sociali”  – volere è potere – per salire ai piani alti. Ma questa metafora suggerisce che la struttura della società – a piani e dunque gerarchica – sia un dato fuori di ogni discussione.

Brunella Casalini, nell’articolo che offre alla revisione paritaria aperta,2 si occupa dei pochissimi che riescono a prendere l’ascensore. Oggi, in Francia, numerosi lavori letterari e sociologici affrontano il tema dell’attraversamento delle frontiere di classe.  Chantal Jaquet, in particolare, chiama questi viaggiatori,  in modo assiologicamente neutro, “transclasse”. Nella prospettiva della teoria della riproduzione sociale di Bourdieu, per la quale i presunti ascensori, a partire dalla scuola, instillano e replicano le gerarchie esistenti, i transclasse sono eccezioni. Eccezioni, però, di straordinario interesse sociologico e letterario, perché il loro rapporto con le determinanti non solo economiche, ma anche affettive, culturali e simboliche nella costruzione delle identità di classe e con i confini che riproducono e conservano la gerarchia sociale offre un punto di vista inaccessibile da quelli che rimangono fermi ai piani, alti o bassi che siano.

A che possono servire questi studi? Possono certo legittimare la gerarchia sociale  invisibili all’individualismo metodologico: se qualcuno riesce a salire allora vale il “volete è potere” e non il “potere è volere”. Possono, inoltre, essere la base di rivendicazioni di identità, entro un coacervo di minoranze che si rappresentano tutte come discriminate e pretendono diritti – o, meglio, privilegi – particolari per sé. Possono, poi, essere il punto di partenza di una critica politica – socialista o democratica che sia – alla struttura a piani della società, che la metafora dell’ascensore opportunamente nasconde. Possono, infine, permettere una discussione auto-critica sulla costruzione dei modelli sociologici – alcuni dei quali fanno vedere solo gli individui, il merito e la spontaneità, e altri invece le classi, il potere e il determinismo: perché li creiamo? Chi li crea? Per conto di chi? Che cosa vogliono sapere? Che cosa vogliono giustificare e che cosa no? E infine, e soprattutto: come sono possibili?

 

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Enrica Salvatori, Il fegato del vescovo. Studi di confine sui confini della Lunigiana medievale

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Mappa della LunigianaProponiamo alla revisione paritaria aperta, fuori disciplina, il libro di Enrica Salvatori Il fegato del vescovo. Studi di confine sui confini della Lunigiana medievale. Infatti, mentre l’idea di rendere i commenti dei revisori parte della discussione pubblica, in modo da riconoscerne il contributo e da arricchire il dibattito scientifico trova già attuazioni importanti in Europa, chi cerca di praticarla in Italia deve sfidare una valutazione di stato della ricerca ancora amministrativamente incatenata ai limiti tecnici ed economici dell’età della stampa. Così chi, come l’autrice, desidera tentare un esperimento che altrove ha avuto luogo con successo più di un decennio fa deve accontentarsi di questa sede, certamente poco frequentata dagli storici del medioevo.
La versione in corso di stampa del testo è sottoposta a una revisione chiusa e anonima. Questo esemplare, invece, verrà discusso pubblicamente da alcuni esperti invitati, se accetteranno di farlo, e aperto ai commenti di chiunque desideri partecipare, secondo le regole consultabili qui. Per il loro uso, offriamo qui sotto un breve invito alla lettura preparato dall’autrice.

Il fegato del vescovo mette in luce le caratteristiche salienti del processo di costruzione dello Lunigiana dal medioevo ai giorni nostri. La sua ricerca indagine individua il periodo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo successivo come il momento di elaborazione dei miti e delle narrative attualmente più diffusi e condivisi relativi a questo spazio, dando particolare attenzione al mito della distruzione di Luni conseguente a ipotetici attacchi normanni e saraceni. Le ricerche guardano all’uso e al rilievo effettivo del titolo comitale sfoggiato dal vescovo di Luni a partire dal XII secolo, all’estensione della sua signoria in rapporto alle altre realtà signorili del territorio e al formarsi del concetto di Lunigiana tra il tardo medioevo e la prima età moderna.
L’idea di una Lunigiana politicamente irrilevante ed economicamente arretrata perché frammentata e priva di un centro urbano dominante viene sostanzialmente ribaltata dalla considerazione che proprio la frammentarietà e il dinamismo dei dominati tra medioevo ed età moderna costituiscono i fattori che hanno formato il concetto di Lunigiana e soprattutto hanno plasmato il paesaggio che oggi è percepito come caratteristico della regione. Nell’ultima parte del volume i confini della Lunigiana sono stati indagati nel presente, tramite un questionario teso a capire in che modo i residenti e i visitatori non occasionali percepiscano la storia di questo territorio, portandoli a riflettere sulle ragioni che hanno contribuito alla formazione dell’identità delle comunità locali in una regione dai confini politico-amministrativi inesistenti.

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Politiche della scienza: Francesca Di Donato, Giovanni Molteni Tagliabue

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scriba Sottoponiamo alla revisione paritaria aperta due articoli dedicati a dei progetti di riforma politica della scienza istituzionale – una esterna e l’altra interna.
“Rationalized and Extended Democracy”: Inserting public scientists into the legislative/executive framework, reinforcing citizens’ participation di Giovanni Molteni Tagliabue suggerisce di inserire degli scienziati nei processi decisionali della democrazia, così da renderli meno esposti al rischio strutturale di produrre classi politiche autoreferenziali e corruttibili. Un simile inserimento, sostiene l’autore, non trasformerebbe la democrazia in tecnocrazia se avesse luogo tramite una seconda camera legislativa composta da scienziati provenienti da enti pubblici o pubblicamente riconosciuti ed eletti per non più di due mandati, e, per quanto concerne il potere esecutivo, tramite l’affiancamento dei ministri politici con esperti nominati dalla camera scientifica. In caso di conflitti fra le due camere un referendum popolare interverrebbe a risolverli.
Questo disegno dipende dalla convinzione che i difetti della democrazia siano intrinseci alla stessa competizione elettorale, la quale restringe e influenza gli orizzonti della classe politica, e che inserirvi degli scienziati – meno esposti ai vizi dei politici di mestiere grazie anche al limite dei mandati – possa renderla più capace di rispondere alle sfide che le si presentano.

1. Integrità e autonomia della ricerca

Uno dei revisori, Antonino Palumbo, ha osservato che la scienza istituzionale non è immune dai difetti della politica, né da essa indipendente. Molteni Tagliabue, da parte sua, individua nelle riviste predatorie (II.18. 6) il problema principale della pubblicazione scientifica contemporanea, lo connette all’uso del publish or perish come motore della carriera accademica, e lo pensa superabile tramite un mutamento del sistema degli “incentivi”.
Che i ricercatori abbiano bisogno di bastoni e carote per evitare di produrre opere senza qualità esclusivamente allo scopo di far numero è però solo una delle conseguenze di una valutazione della ricerca divenuta amministrativa, fondata non più sulla lettura dei testi bensì sul conteggio delle pubblicazioni e delle citazioni. In questo modo un aspetto decisivo, prima che per le carriere, per l’autodeterminazione della discussione scientifica è stato dato in outsourcing ad editori commerciali che continueranno ad accrescere i loro oligopoli e a drenare quantità astronomiche di denaro pubblico, finché ne sarà loro lasciato il controllo. Più che con “mele marce” e “riviste predatorie”, abbiamo a che fare con una generale editoria parassitaria, che vive e prospera soltanto in virtù della valutazione amministrativa.
La valutazione amministrativa della ricerca è a sua volta un esito dell’erosione dell’autonomia della scienza istituzionale che già Max Weber vedeva in atto all’inizio del secolo scorso. I danni che ha inflitto alla qualità della ricerca sono talmente noti che pochi, ormai, li liquidano, impropriamente, come “aneddotica”. La stessa Commissione europea, all’inizio del 2021, ha avviato un processo che si è concluso con un Agreement on Reforming Research Assessment. Di questo si occupa l’articolo di Francesca Di Donato, anch’esso proposto alla revisione paritaria aperta, Una questione di qualità o una formalità? L’Agreement on Reforming Research Assessment e il processo di riforma della valutazione della ricerca in Europa.
L’accordo si propone di concordare forme di valutazione che, facendo tesoro delle pratiche della scienza aperta, riconoscano la qualità e la molteplicità delle attività di ricerca senza esaurirle nelle pubblicazioni e senza pretendere di misurarle con metriche basate sulla sede di pubblicazione, quali il JIF e l’H-index, o con classifiche di università ed enti ricerca stilate da aziende secondo i propri criteri e per il proprio lucro. La riforma europea si è resa necessaria perché la valutazione amministrativa, avendo sottratto alle comunità scientifiche la capacità di valutarsi da sé tramite l’uso pubblico della ragione, deve ora por rimedio a ciò che essa stessa ha determinato. In Italia ne sarà protagonista l’ANVUR, a cui ha fatto capo la valutazione quantitativa che l’accordo prevede di superare. Quale sarà il suo esito? Proprio perché, in particolare in Italia, il rischio di cambiare tutto per non cambiare nulla è elevato, l’articolo di Francesca Di Donato – testimonianza di chi ha partecipato direttamente al processo – merita una lettura attenta.

2. Scienziati applicati

Una scienza istituzionale soggetta a valutazione amministrativa e inserita in un sistema di oligopoli editoriali e mediatici può difficilmente offrire al pubblico un punto di vista indipendente e non autoreferenziale. Una seconda camera scientifica, senza un cambiamento radicale nella valutazione della ricerca, sarebbe probabilmente composta da ricercatori con un accesso privilegiato ai finanziamenti pubblici e ai media, scienziati che hanno ricevuto visibilità grazie agli algoritmi commerciali di Facebook, academic star finanziate dai monopolisti del capitalismo della sorveglianza in conflitto d’interessi, o intellettuali che, invece di confutare un pensatore eterodosso con l’uso pubblico della ragione, firmano lettere contro di lui. Secondo Kant, trasformare il filosofo in funzionario, mettendogli in mano la spada del potere, lo espone alla tentazione di ricorrere a quella stessa spada per troncare le discussioni scientifiche: questo rischio vale a maggior ragione se la spada è già stata usata a monte, nella valutazione amministrativa della ricerca, per attribuire visibilità e promozioni.
Molteni Tagliabue, quando deve indicare quali scienziati prestare alla politica, produce una lista esemplificativa che comprende giuristi, sociologi e politologi e scienziati applicati come gli esperti di pianificazione territoriale e urbana, di organizzazione industriale e infrastrutturale, di agricoltura, istruzione e sanità, ambiente, cultura, università e ricerca, nonché filosofi morali studiosi di bioetica. L’elenco pare escludere chi si occupa ricerca di base: non ci sono storici, linguisti, teologi, matematici, informatici, fisici teorici e scienziati naturali. Fra le discipline filosofiche si salva solo la filosofia morale, che, come mostra il caso della cosiddetta AI ethics, più facilmente si presta al servizio di interessi commerciali, o a “risolvere problemi che non pone, ma che le sono posti”. Questa selezione è casuale, o presuppone una prospettiva da “fine della storia”, per la quale tutti i problemi da affrontare sono ormai soltanto amministrativi?
La costituzione della repubblica islamica d’Iran, approvata nel 1979 con un referendum popolare, riconosce la separazione dei poteri, il carattere elettivo del potere legislativo, le garanzie giudiziarie e i diritti civili. Ma lo stato iraniano non è una semplice democrazia: è una democrazia teocraticamente custodita. Un consiglio dei guardiani di dodici membri, in cui sei giuristi islamici (fuqaha) sono nominati dalla guida suprema e sei giuristi civili di fede islamica sono eletti dal parlamento, esamina la compatibilità delle norme approvate dal potere legislativo con l’Islam e vaglia le candidature alle cariche elettive. La guida suprema, a sua volta, è, finché il dodicesimo Iman non uscirà dall’occultamento, un giurista islamico giusto e virtuoso nominato da un consiglio degli esperti, a sua volta composto da giuristi islamici eletti dal popolo. Abbiamo così un regime a duplice – e precaria – legittimazione, nel quale la custodia della democrazia usa strumenti curiosamente consonanti col progetto di Molteni Tagliabue: il riconoscimento costituzionale di una categoria di esperti che si sono affermati come tali in istituzioni diverse dallo stato democratico e la limitazione dell’elettorato passivo. A differenza di quella islamica, tuttavia, la costituzione della repubblica scientista presuppone una gerarchia esplicita fra la fonte di legittimazione democratica e quella scientifica, prevedendo referendum per risolvere i conflitti fra la camera dei politici e quella degli esperti, ammesso e non concesso che quest’ultima abbia l’integrità e il coraggio di crearli.

3. Crisi nella democrazia o crisi della democrazia?

La corruzione e l’autoreferenzialità della classe politica sono un aspetto strutturale della procedura democratica, o sono l’esito della sua impotenza?
Dopo la crisi del 1929, la democrazia statunitense ebbe l’elasticità di reagire e di intraprendere cambiamenti radicali senza aver bisogno di trasformarsi in una repubblica scientista.

Con la presidenza Roosevelt si abbandona il capitalismo a briglia libera del laissez-faire e laissez-passer, il liberismo delle grandi diseguaglianze e delle grandi ingiustizie, stravolgendone i presupposti e inaugurando il più grande intervento dello Stato nell’economia mai concepito fino ad allora: il New Deal. Si rimette a lavoro una nazione, si costruiscono strutture di sostegno al reddito e di sicurezza sociale, si fa ripartire l’economia con una più equa ripartizione delle risorse, si pone un freno al dominio della speculazione finanziaria separando banche di investimento e di deposito. Si mette così in sicurezza il sistema americano tramite un cambiamento profondo dei suoi presupposti. La democrazia viene in sostegno al capitalismo, garantendo l’elasticità necessaria per uscire da un sistema morente con una nuova visione e una grande trasformazione. Anche a costo di attaccare i privilegi acquisiti della classe dominante.3

Nel 2015, in una situazione paragonabile a quella del 1929, la Grecia, oppressa sia da una sua propria crisi del debito, sia dalle soluzioni imposte dall’esterno per risolverla, tentò di proporre una via d’uscita dallo status quo della politica economica dell’Unione Europea.

La richiesta non è quella di contribuire alla spesa pubblica di un paese in bancarotta. Si tratta di chiedere, più radicalmente, una diversa soluzione alla stagnazione economica, alla disoccupazione e al ricatto del debito per tutti gli europei. Si tratta di trovare soluzioni comuni al debito pubblico crescente (una conferenza sul debito), alla mancanza di investimenti e all’economia stagnante (un New Deal per l’Europa), alle banche zombie (una vera unione bancaria) e alla disoccupazione a due cifre (un piano straordinario di occupazione) come problemi che riguardano tutta l’Unione. È una battaglia, in una parola, condotta per ottenere una diversa politica economica europea.4

Sappiamo com’è andata a finire:

le banche greche vengono strangolate, la popolazione ridotta allo stremo, i ricatti e l’intransigenza delle tecnocrazie europee raggiungono un apice mai visto fino ad allora e senz’altro mai applicato nei riguardi dei nazionalismi autoritari dell’Est Europa. La stessa BCE […] scende in campo con tutte le armi di cui dispone, anche se questo significa violare il proprio mandato e rinunciare a garantire la stabilità del sistema bancario europeo. La guerra viene vinta. Nonostante una schiacciante maggioranza respinga nel referendum del luglio 2015 l’accordo offerto dalla Troika, Syriza finisce per capitolare e accettare le condizioni imposte dall’Eurogruppo: austerità draconiana e la piena garanzia del proseguimento della Grande Depressione a fronte di un rifinanziamento del debito del paese e vaghe promesse di un possibile sconto di pena per buona condotta.5

Se la Grecia fosse stata una repubblica scientista, sarebbe cambiato qualcosa? L’economista Yanis Varoufakis non aveva avuto bisogno di un elettorato passivo privilegiato per proporre un New Deal. Ma i vertici politici e tecnocratici dell’Unione europea, rivelando quale fosse la loro effettiva gerarchia di valori, schiacciarono la democrazia greca con durezza estrema. In un quadro come questo, in cui le decisioni degli stati sono dettate dall’esterno perfino per quanto concerne la pace e la guerra, l’unica classe politica che può sopravvivere è quella che non si propone di cambiare il mondo, ma di perseguire il proprio “particulare”; e l’unico elettore a cui rimangono dei motivi per andare a votare è quello che spera di ottenere un favore o una vendetta per qualche suo piccolo risentimento, in un orizzonte altrettanto ristretto.
Wilhelm von Humboldt, in un momento di gravissima crisi, inventò un sistema che affidava la garanzia dell’autonomia delle istituzioni di ricerca a uno stato problematicamente assunto come capace di autolimitarsi. Era infatti convinto che, in una società aperta, una ricerca libera, sola e cooperativa avrebbe avuto ricadute politiche, sociali e culturali che si sarebbero realizzate come effetti collaterali e non nella forma burocratica di incarichi da assumere e di prodotti da consegnare. Si tratta, ora, di capire se, dalla gabbia d’acciaio che tiene oggi prigioniere sia la scienza sia quel che resta della democrazia, sia possibile immaginare vie d’uscita amministrative che non siano esenti dal rischio di renderne più fitte e complesse le sbarre.

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La prima vittima

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Copertine Maurizi-Piro1. Segreti e bugie

Il potere segreto di Stefania Maurizi ricostruisce sistematicamente “la storia di un giornalista” – Julian Assange – “imprigionato e trattato con insostenibile crudeltà per aver rivelato crimini di guerra; della determinazione dei politici inglesi e americani di distruggerlo; e della quieta connivenza dei media in questa mostruosa ingiustizia.”6

Mentre la polizia britannica lo stava arrestando, Assange teneva in mano un libro di Gore Vidal, History of the National Security State, che racconta come gli Stati Uniti, vinta la II guerra mondiale, abbiano continuato ad accrescere la loro spesa militare fino a creare il cosiddetto complesso militar-industriale. Gli interessi di un gigantesco apparato offensivo statale e dell’industria bellica privata si sono così raggrumati in un nesso che condiziona la politica a guerre preferibilmente interminabili, il cui scopo implicito non è più vincere, bensì risucchiare denaro pubblico. A denunciarne i rischi, nel 1961, fu lo stesso Dwight D. Eisenhower, in un memorabile discorso di commiato, che Gore Vidal commenta così:

The good thing was, upon— he kept back military spending. And then, when he left office, he made this great speech, and he explained why it was necessary to have such a huge military. Might have been better if he’d said we don’t need this much military for our task in the world to preserve freedom for ourselves. But he said no matter how necessary, and we think it is, that we have this great military–industrial complex, it is a dangerous thing because of the vast amounts of federal money that are going to private corporations for our defense — and he was trying have it both ways — which is necessary, which is necessary. And he said this is going to change everything in the way our country’s governed: It’s going to change us politically; it’ll change us spiritually. And then part of the speech which I’ve always loved, nobody ever quotes it. After all, he’d been president of Columbia University. He said the effect of all this money coming to our universities, even though it’s for the physics department, the nuclear departments, is going to affect all education. And if the universities are not the home of free investigation, suddenly our knowledge of the world is curtailed by this huge amount of money, which will control the responses of everybody, including the history department. He didn’t say that, but that was his meaning. 7

Dopo l’11 settembre 2001 il grumo si è espanso fino a diventare “uno Stato nello Stato con i suoi apparati dalla Cia alla Nsa al Pentagono che, di fatto, non rispondono a nessuno, perché blindati dalla segretezza”,8 il quale ambisce a catturare, sorvegliare e schedare la comunicazione del mondo e che si coordina con oligopoli privati9 e sempre più concentrati, a loro volta sottratti al controllo del pubblico.

Il suo potere pervasivo fa sì che l’illibertà di stampa del cosiddetto occidente si manifesti come coercizione solo occasionalmente, e con la parvenza dello stato di diritto. E però, se la libertà degli autori è un diritto a salvaguardia di tutti gli altri diritti, come ultimo rimedio civile contro norme e istituzioni ingiuste, allora la posta in gioco, nel destino giudiziario di Assange, di Edward Snowden o di Chelsea Manning, non è la loro salvezza personale, bensì la facoltà dei cittadini del mondo di conoscere e di decidere sulla pace e sulla guerra e in generale di determinare gli ordinamenti sotto i quali vivono, contro la pretesa di imporre il diritto positivo di un singolo stato come norma globale, o, più propriamente, imperiale.

2. Maledetti pacifisti: il controllo del discorso pubblico

Nel 2010 Umberto Eco affermava che la possibilità di pubblicare senza filtri ex ante avvantaggia i pochi colti e disorienta i molti incolti. Nel mondo della scienza aperta si sostiene invece che, essendo la pubblicazione in rete divenuta facile, il filtro può operare ex post, come selezione attraverso la discussione e l’uso. Anche un filtro di questo tipo, peraltro, può essere arbitrario e omologante quanto quelli applicati ex ante nel chiuso delle redazioni. Con la differenza, però, che il suo operare non è interamente nascosto e può essere oggetto d’indagine induttiva e di pubblica critica.

Il libro di Nico Piro, Maledetti pacifisti, denuncia uno di questi filtri: quello che protegge la guerra infinita, vale a dire il lato visibile del potere segreto,10 e che, implicitamente, pretende di legittimarlo.

L’informazione giornalistica italiana, per lo più in mano a un’editoria incapace di partecipare attivamente alla rivoluzione digitale, si è sempre più assimilata ai media sociali proprietari, enfatizzando opinioni e polarizzazioni così da mungere i dati dei lettori per l’uso della propaganda economica e politica e risparmiarsi il rischio, la fatica e i costi di ricostruire e mettere allo scoperto fatti.11 In queste condizioni, chi concentra nelle sue mani media e denaro non ha difficoltà a smerciare la guerra infinita come uno scontro fra amici e nemici, fra buoni e cattivi, per l’intrattenimento o l’oblio non più di cittadini elettori, ma di consumatori-tifosi.

L’obiettivo è quello di venderci la guerra come una partita di calcio dove se accade un infortunio si tira fuori il cartellino rosso. Insomma, la guerra è presentata come un male necessario, una cosa brutta ma che può diventare bella per l’ardimento di chi vi partecipa. Se poi si scade nell’orrore è colpa di qualche anomalia: un crimine, appunto.

Si mira a nascondere la verità, cioè che la guerra è di per sé un crimine, il peggiore che si possa commettere sulla faccia della Terra.

Quando una madre con i suoi bimbi esce di casa in una città assediata per procurarsi dell’acqua da bere e si ritrova presa nel fuoco incrociato di un’imboscata contro un convoglio nemico; quando dall’ultimo piano di un palazzo un cecchino spara e l’artiglieria nemica demolisce l’edificio al cui interno ci sono ancora famiglie; quando una IED piazzata lungo la strada per colpire truppe in avanzamento esplode sotto l’auto di un padre che porta le figlie a scuola; quando accadono questi fatti – ricorrenti in una guerra – perché non parliamo di crimini? Gli unici crimini sono gli stupri? I saccheggi? Le esecuzioni sommarie svolte da militari inferociti? 12

Nel primo articolo definitivo della Pace perpetua, Kant scriveva che la costituzione di ogni stato deve essere repubblicana perché a deliberare la guerra non fosse il potere esecutivo, bensì, tramite i loro rappresentanti, quanti, militari o civili, ne avrebbero subito i danni.

Il 18 settembre 2001, il congresso americano, sull’onda dell’emozione dell’attentato alle Torri gemelle, ha approvato una Authorization for Use of Military Force che permette al presidente di usare tutta la forza necessaria e appropriata “against those nations, organizations, or persons he determines planned, authorized, committed, or aided the terrorist attacks that occurred on September 11, 2001, or harbored such organizations or persons, in order to prevent any future acts of international terrorism against the United States by such nations, organizations or persons”. Soltanto una rappresentante, Barbara Lee, la riconobbe come una clausola in bianco che avrebbe sottratto al parlamento il potere di decidere della pace e della guerra per consegnarlo all’esecutivo, ed espresse un voto contrario. Come scrive Nico Piro,

quella decisione emotiva, sull’onda della tragedia dell’11 settembre, costerà agli Stati Uniti due decenni di “guerra al terrore” con il macabro bilancio di 929mila morti – di questi, 387mila civili, senza considerare i deceduti per gli effetti collaterali della guerra sulla sanità, l’accesso all’acqua e al cibo, la contaminazione ambientale – e di 38 milioni di persone costrette a lasciare le proprie case in veste di sfollati o rifugiati. I soli Stati Uniti hanno speso 8 trilioni di dollari per operazioni antiterrorismo (meglio chiamarle “attività belliche”) che coprono 85 Paesi stranieri e hanno comportato, anche nel loro stesso territorio nazionale, ai danni di cittadini statunitensi, sistematiche violazioni dei diritti umani e civili.13

Quanto vive, nelle nostre post-democrazie, della repubblica di Kant? Chi decide della pace e della guerra? Che cosa giustifica l’inizio e la prosecuzione di una guerra – umanitaria, esportatrice di democrazia, per la difesa dei “nostri valori” o del nostro potere – quando il rischio della pace perpetua nel suo senso cimiteriale è sempre meno un’eventualità teorica? Anche per la guerra ultima e prossima, quella in Ucraina,

nella conversazione pubblica non c’è traccia di pensiero critico, nessuno prova a ricostruire da dove nasca questa guerra e quei pochissimi che tentano di farlo vengono messi a tacere con l’infamante accusa di essere dalla parte del carnefice. Di nuovo il conflitto passa come unica scelta moralmente accettabile in nome di una implicita superiorità morale dell’Occidente.
Eppure nessuno prova a interrogarsi su cosa significhi “Occidente”, sulla continua autoassoluzione rispetto a scelte come quelle dell’invasione dell’Iraq o dell’Afghanistan, del conflitto in Libia, del caotico intervento in Siria, dell’accordo di Doha. Nessuno che si chieda perché continuiamo a disegnare un mondo dove gli occidentali sono buoni e il resto del mondo è fatto di infidi e pericolosi nemici. Nessuno che si chieda perché l’Occidente non possa liberarsi dell’ipoteca che l’apparato militare rappresenta per la società americana e quindi per tutti gli alleati. Nessuno che provi ad aprire un dibattito su quel concetto variabile di giustizia che porta a giustificare ogni intervento armato piuttosto che pretendere che la sottintesa e perennemente evocata “civiltà superiore” occidentale debba basarsi sulla capacità di mantenere la pace, non sulla presunta forza di avviare guerre.
Nessuno lo fa, e chi ci prova viene messo a tacere con l’accusa di essere antiamericano.14

3. Apparati morali: la normalizzazione della guerra

In un’intervista del 1998, Zbigniew Brzeziński, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Carter, si vantò di aver orchestrato per l’URSS una “trappola afgana” promuovendo e sostenendo il fondamentalismo islamico. Per lui il fine della dissoluzione dell’impero sovietico giustificava un mezzo che, tre anni prima dell’attentato alle Torri gemelle e dell’inizio della guerra in Afghanistan, appariva già una minaccia per tutti. Dovremmo chiederci se gli Stati Uniti e i loro vassalli europei non stiano ora facendo un calcolo analogo, esponendo l’umanità a rischi ancora più gravi.

In un Paese armato fino ai denti come l’Ucraina, dove sulla scena pubblica da anni operano indisturbate formazioni neonaziste e ultranazionaliste, dove sono stati dati fucili d’assalto anche ai detenuti, dopo aver lanciato al mondo ultimatum su base quotidiana (dateci armi, dateci soldi per far funzionare la macchina dello Stato, dateci aerei, dateci la No fly zone) come potrà il Presidente Zelensky caricarsi la responsabilità di un compromesso? Come potrà arretrare dalla posizione di chi guida le truppe a quella di chi firma un accordo sapendo che dietro di lui c’è chi invece non vuole arretrare di un solo passo, perché quelli che l’hanno seguito con più convinzione sono fanatici che vogliono la vittoria a tutti i costi?15

Dovremmo interrogarci sulla prudenza di chi coltiva e arma estremisti e fondamentalisti e fa combattere guerre infinite, per lo scopo nominale di indebolire o distruggere il nemico di turno, almeno con lo stesso zelo con cui ci si sforza di escludere il pacifismo dal novero delle opzioni realistiche in quanto irresponsabile assolutismo morale. Ma perfino un articolo uscito su “Valigia Blu” lo scorso maggio16 ha paragonato i pacifisti a chi, pur potendo indirizzare un vagone fuori controllo, a un bivio, sul binario in cui c’è una sola persona per evitare che travolga le cinque sull’altro, si astiene perché “la vita umana è sacra e non si possono salvare le persone uccidendone altre”.

Per la verità Philippa Foot, quando concepì la prima versione di questo dilemma,17 non si proponeva di contrapporre un’etica della responsabilità a una presunta etica dell’intenzione, da associarsi a interpretazioni di Kant “un po’ letterali e sciocche” e a “molti dei pacifisti più visibili nel dibattito pubblico”: voleva, invece, circoscrivere la legittimità delle azioni compiute in stato di necessità. Se è moralmente accettabile deviare un tram in modo che investa una sola persona anziché cinque, perché allora dovrebbe essere inammissibile uccidere una persona sana per trapiantarne gli organi a cinque pazienti in pericolo di vita?

La dottrina del doppio effetto rispondeva che nel caso del tram la morte di una persona è un mero effetto collaterale, previsto ma non inteso direttamente, mentre in un omicidio a scopo di trapianto la morte dell’involontario donatore è direttamente deliberata come mezzo per conseguire il fine. Philippa Foot trovava però questa distinzione non del tutto convincente, proprio perché basata – a prescindere dai casi in cui l’effetto inteso e quello collaterale sono così contigui da essere indistinguibili – su una dissociazione artificiosa fra intenzione e previsione delle conseguenze di un atto. Se prendessimo sul serio questa dissociazione così da riconoscerci responsabili solo delle nostre intenzioni e non degli effetti prevedibili delle nostre azioni, uno spacciatore di vino addizionato al metanolo potrebbe discolparsi eticamente e giuridicamente coll’argomento che il suo scopo era trar profitto dalla vendita e la morte dei suoi clienti è stata solo un effetto prevedibile ma indesiderato della sua condotta.

La risposta alternativa di Philippa Foot è kantianamente ineccepibile. La differenza moralmente decisiva fra la deviazione del carrello e l’assassinio a scopo di prelievo degli organi non sta nelle intenzioni, bensì nella gerarchia di doveri che ciascuna delle due condotte presuppone: i doveri negativi di astenersi dal ledere i diritti altrui prevalgono o no sui doveri positivi di aiutare gli altri? Nel caso del carrello, il tranviere o l’addetto allo scambio, in un conflitto non evitabile fra doveri negativi verso una o verso cinque vittime potenziali, scelgono la lesione minore; nel caso del trapianto, uccidere il sano per prelevarne gli organi comporta invece una sua esplicita strumentalizzazione per prestare soccorso ad altri. Nel linguaggio di Kant, nella prima situazione abbiamo un caso di necessità con un conflitto fra doveri giuridici (perfetti), nella seconda invece un contrasto fra il dovere giuridico (perfetto) di non ridurre le persone a mezzi al servizio di scopi altrui e il dovere etico (imperfetto) della benevolenza nei confronti del prossimo. Una cosa è intervenire per limitare il danno quando la lesione del diritto altrui è inevitabile, un’altra pianificare omicidi per motivi umanitari.

È stato, d’altra parte, osservato che il dilemma del carrello, applicato alla guerra in Ucraina, può essere usato a favore della causa della pace: se su un binario sta l’appoggio incondizionato a tutte le rivendicazioni dell’Ucraina – o della Russia – fino alla guerra nucleare, e sull’altro un compromesso con qualche sacrificio dell’uno e dell’altro nazionalismo, è abbastanza chiaro che su quest’ultimo sarebbe meglio indirizzare la macchina della guerra. Il saggio sul diritto di mentire per amore degli esseri umani, nel quale Kant sostiene che è immorale dire il falso perfino a un assassino alla porta che ci chiede se un nostro amico si è nascosto da noi, avrebbe permesso di stigmatizzare il presunto assolutismo morale dei pacifisti in modo almeno apparentemente più facile. Perché preferire il dilemma del carrello?

Forse, anche qui, come nella cosiddetta etica dei veicoli a guida autonoma, il tram esercita un fascino mistificatorio. Philippa Foot, col suo esperimento mentale, non voleva avallare la progettazione e la costruzione di tranvie tragicamente insicure, bensì immaginare, come termine di confronto, una situazione artificiale in cui la condizione di partenza e il margine di scelta fossero limitati all’aut aut fra una e cinque vite e i cui esiti fossero interamente prevedibili. Si può applicare il suo dilemma alla guerra effettuale solo se la si rappresenta come uno strumento le cui opzioni e le cui conseguenze sono perfettamente controllabili – a dispetto di Helmuth von Moltke – e riducibili a morale. Lo si può fare, in altre parole, solo se, come scrive Nico Piro, la si normalizza, ossia, in termini tranviari, si fa passare come ordinario e lecito un sistema di trasporto su rotaia progettato così male che i conducenti o i sistemi automatici che li sostituiscono si trovano quotidianamente a determinare quali pedoni maciullare e quali no.

4. La guerra giusta

Nella Metafisica dei costumi Kant scrive che lo ius necessitatis comporta, in condizioni di emergenza, la facoltà di sopprimere, per salvarsi la vita, persone che non ci hanno fatto nulla di male. Per lui però questo presunto diritto è uno ius aequivocum, ambiguo. Uccidere innocenti non diventa giusto perché ci troviamo in una situazione di estremo pericolo: l’estremo pericolo si limita a rendere il diritto inefficace perché privo di sanzioni così spaventose da indurre a superare il terrore dovuto al rischio immediato di morire.

Perché Kant sceglie una via così obliqua per affermare che le azioni compiute in stato di necessità non sono giuridicamente punibili? Perché l’alternativa – trattare come legittima l’uccisione di innocenti in caso di emergenza – normalizzerebbe una condotta che deve rimanere ingiusta. Se lo ius necessitatis fosse diritto in senso stretto, la cura della sicurezza dei trasporti su rotaia – così come il ripudio della guerra come mezzo di soluzione delle controversie internazionali – potrebbe essere trattata come facoltativa.

Coerentemente, Kant criticava il diritto internazionale giusnaturalista perché normalizzava la guerra. Se si riconosce che ciascuno stato è giudice in causa propria e può far legittimamente valere le proprie ragioni con la forza, non si avalla la legge del diritto, bensì, come in un’ordalia, la legge del più forte. Proprio per questo, secondo Kant, per superare la barbarie della guerra è indispensabile ammettere prelimìnarmente che non possono esistere guerre “giuste”18 anche se, in mancanza di un giudice sovranazionale terzo e dotato di potere coercitivo, ci possono essere guerre che sono o sembrano tristemente necessarie.

Chi crede di combattere una guerra giusta si dà ragione da sé, come un giudice in causa propria e in conflitto di interessi, e la fa valere con la forza: sottoscriverà dunque trattati di pace con la riserva di disattenderli appena possibile, perché un nemico ingiusto non merita il rispetto della parola data; tenderà a interferire violentemente nella costituzione e nel governo di altri stati ritenendoli illegittimi ed ergendosene a giudice; e propenderà a combattere con mezzi tali da rendere impossibile ricostruire, fra le parti, la fiducia per trattare una pace futura, perché con un nemico ingiusto non si può scendere a patti.

Come por fine alla guerra infinita senza deporre l’armamentario della guerra giusta? I crimini di guerra statunitensi rivelati da Wikileaks negli Iraq War Logs, la giustificazione dell’aggressione a stati sovrani con la pretesa, fallimentare, di esportare la democrazia e, soprattutto, una pervasiva menzogna propagandistica mostrano che anche il cosiddetto occidente continua a farne un uso sistematico. Come scrive Stefania Maurizi,

la guerra in Iraq è un caso esemplare di manipolazione dell’intelligence al servizio di una causa politica: gli Stati Uniti avevano invaso il paese il 20 marzo 2003 sulla base di informazioni completamente false, secondo cui il regime di Saddam Hussein era in possesso di armi di distruzione di massa e aveva legami con al Qaeda. Si trattava di una totale invenzione dell’amministrazione di George W. Bush, in combutta con il governo inglese di Tony Blair, per giustificare l’invasione. Ma la manipolazione delle informazioni di intelligence avrebbe raggiunto il suo scopo molto più difficilmente se i media americani avessero fatto il loro dovere: trattare con scetticismo i servizi segreti e loro padroni politici.
[…]
La miscela tra la manipolazione dell’intelligence e la propaganda dei media produsse una guerra da cui il Medio Oriente non si è ancora ripreso, perché non solo ha creato milioni di morti e rifugiati, ma ha contribuito a generare la barbarie dell’Isis, emerso proprio nei territori iracheni sprofondati nel caos e nella violenza innescata dall’intervento americano, poi da lì i suoi fanatici sono arrivati a colpire fino in Afghanistan, in un crescendo di teste tagliate, attacchi suicidi, crocifissioni, stupri di massa, perfino più brutali – se possibile – di quelli di al Qaeda.19

Con questi precedenti, come credere, ora, che l’ultimo atto della guerra infinita sia così “giusto” o, almeno, così necessario da non meritare di finire?

5. Una propaganda quasi inevitabile

Il 5 novembre 2022 si è svolta in Italia una manifestazione per la pace, il cui scopo non era invitare l’Ucraina a una resa senza condizioni, bensì pretendere da stati che si dicono democratici l’impegno a lavorare per una soluzione politica, contro una guerra che fa male non solo ai popoli che la subiscono direttamente, ma all’intero pianeta: “tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili”. E anche secondo il realista Henry Kissinger solo la via, difficile, della diplomazia e dell’autodeterminazione dei popoli tramite referendum sotto supervisione internazionale può evitarci di ripetere l’errore che nel 1914 condusse l’Europa al suicidio culturale: sprofondare, come in trance, in una guerra che si pensava normale senza conoscere – e tanto meno riuscire a governare – la distruttività del potenziale tecnico che avrebbe scatenato.

Nel 1955 Raymond Aron illustrò così le radici di questo difetto di conoscenza sociale:

Trent’anni fa Julien Benda inventò la fortunata espressione trahison des clercs. L’opinione pubblica non aveva ancora dimenticato le mozioni firmate di qua e di là dal Reno dai più grandi nomi della letteratura e della filosofia. Gli intellettuali avevano ripetuto ai soldati che essi si battevano “gli uni per la cultura, gli altri per la civiltà; avevano denunziato la barbarie del nemico, senza sottoporre a critica le testimonianze addotte; avevano trasfigurato una contesa di forza, simile a tante altre che L’Europa aveva vissuto durante i secoli passati sotto forma di guerra santa. Avevano conferito agli interessi degli Stati e agli odi dei popoli una forma articolata e sedicente razionale. Avevano rinnegato la loro missione, che consiste nel servire i valori non temporali: la verità, la giustizia.20

Aron era consapevole che la defezione degli intellettuali è organizzata amministrativamente tramite la loro crescente dipendenza: “l’intellettuale al servizio d’uno Stato, d’un partito o d’un sindacato, dirigente delle ricerche per conto dell’aviazione americana o dell’agenzia per l’energia atomica, come può sottrarsi alle regole del suo ufficio?”21 Anche oggi, secondo Kissinger, conviviamo – e forse anche coltiviamo – con un difetto collettivo di conoscenza altrettanto pericoloso: “overcoming the disjunction between advanced technology and the concept of strategies for controlling it, or even understanding its full implications, is as important an issue today as climate change, and it requires leaders with a command of both technology and history.”

E però, poco dopo la manifestazione del 5 novembre, un altro articolo di Federico Zuolo su “Valigia Blu” rappresenta ancora il pacifismo come privo di senso della realtà e della responsabilità: “attualmente, nei posizionamenti pubblici la questione del pacifismo si esprime nell’urgenza di richiedere la fine delle ostilità qui e ora. È la natura incondizionata della richiesta che sembra demarcare i pacifisti da altre posizioni che, a loro volta, genuinamente vogliono la pace. Quindi la disputa è tra chi vuole la fine del conflitto (quasi) a qualsiasi condizione e chi dà valore alle condizioni. Infatti, anche se abbiamo sempre un dovere di limitare morte e sofferenza, le condizioni contano poiché determinano il modo in cui si continuerà a vivere dopo la fine delle ostilità.”

Questa interpretazione è semplicemente un espediente retorico per attribuire l’esclusiva dell’irresponsabilità a chi preferisce una guerra finita invece che infinita? Forse no, ma soltanto se si riesce a ricondurre il conflitto armato fra stati sotto controllo morale. Zuolo tenta di farlo con tre argomenti:

  1. Uno stato aggredito ha il diritto di difendersi.
  2. Una guerra deliberata da un governo legittimo è più giustificabile di una imposta da uno illegittimo: “da un lato abbiamo una popolazione che quasi unanimemente sostiene lo sforzo di autodifesa, dall’altro una popolazione che in piccola parte dissente, in larga parte teme la repressione e se ne ha i mezzi cerca di sfuggire alla chiamata alle armi. Contrapporre a quest’ultimi fenomeni la (quasi inevitabile) propaganda di Zelensky sembra veramente un sofisma in cattiva fede. Quindi, le recenti illazioni sullo scarso pedigree democratico dell’Ucraina e sulle presunte volontà di alcuni territori russofoni di adesione alla Russia, anche quando fossero vere, non giustificherebbero l’equiparazione dell’Ucraina alla Russia quanto a legittimità istituzionale.”
  3. Le ostilità di un aggredito che rispetta generalmente lo ius in bello sono più giustificabili di quelle del suo aggressore che sistematicamente si macchia di crimini di guerra: “da un lato abbiamo il ricorso abbondante a bombardamenti a danno dei civili, lo stupro di donne e l’uccisione indiscriminata di civili gettati in fosse comuni; dall’altra parte, oltre alle ‘ordinarie’ operazioni dell’esercito, al massimo si possono menzionare azioni di sabotaggio e guerriglia dei civili che si difendono dall’invasore. Laddove ci sono state azioni contrarie a convenzioni o al diritto internazionale da parte dell’aggredito, esse non hanno avuto carattere sistematico o programmatico, né per modalità né per frequenza né per intensità.”

Queste tesi bastano a moralizzare la guerra, così da renderne il superamento soltanto opzionale?

I. Anche se si volesse attribuire all’aggressore esclusivamente la colpa di aver ampliato un conflitto già in corso, attenuato solo provvisoriamente da trattati sottoscritti con riserve mentali fin dall’inizio evidenti, non si può negare all’aggredito la facoltà di difendersi. Ma una cosa è fondare questa facoltà sullo ius aequivocum dello stato di necessità, un’altra trattarla come un diritto in senso stretto. Una cosa è riconoscere che una guerra può essere tristemente necessaria, un’altra rappresentarla anche come giusta. Non è solo una sottigliezza da kantisti: chi crede di combattere una guerra giusta può sentirsi autorizzato a prolungare il massacro oltre l’indispensabile, eventualmente fino a una pace accettabile anche dal generale descritto icasticamente da Emilio Lussu, e a esonerarsi dalla responsabilità per le conseguenze della sua scelta.

II-III. È possibile che l’Ucraina stia combattendo una guerra, se non giusta, inevitabile a causa del carattere incomparabilmente dispotico e criminale del suo nemico. Ma abbiamo gli strumenti per misurarlo? Per rappresentare l’opinione popolare di una parte, che obbliga anch’essa obiettori e renitenti alla leva, come generalmente favorevole alla continuazione della guerra e trattarne i crimini come trascurabili, dovremmo poter disporre di un’informazione libera e accurata e non di una “(quasi inevitabile) propaganda”.

6. La prima vittima

Nel saggio Su un presunto diritto di mentire per amore degli esseri umani, frainteso anche dai non pochi specialisti che ne ignorano il senso politico,22 Kant sostiene che un patto costituzionale che comprendesse il diritto di mentire non potrebbe sussistere, perché includerebbe la facoltà di trasgredire per convenienza tutti gli impegni pubblici su cui la costituzione stessa si fonda e di governare invece con la forza e con l’inganno. E ciò non si applica solo all’interno dei singoli ordinamenti: lo stato di diritto di cui anche la democrazia liberale ha bisogno si realizza solo se la sua garanzia pubblica non vale soltanto occasionalmente e per alcuni, ma per sempre e per tutti – cosa, questa, irrealizzabile in un sistema di relazioni che, normalizzando la guerra, si regge sulla legge della forza e non su quella del diritto.

Una democrazia dovrebbe non solo consentire, ma anche garantire la pubblicità di tutte le informazioni necessarie ai cittadini per deliberare consapevolmente sulla pace e sulla guerra. Una costituzione materiale – orientale o occidentale che sia – sotto la quale i coraggiosi che rivelano violazioni e crimini sono perseguitati, incarcerati o costretti all’esilio e la propaganda bellica e il potere segreto sono dati per scontati si espone al sospetto che le guerre che fa combattere non siano affatto inevitabili. Nel detto secondo il quale la verità è la prima vittima della guerra si cela un luogo che sta diventando difficile rendere comune: la prima vittima della guerra è la democrazia, che avrebbe potuto essere la sua prima nemica.

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