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L’accademia dei morti viventi, parte prima: la revisione paritaria

Se il libro di Kathleen Fitzpatrick, Planned Obsolescence. Publishing, Technology and the Future of Academy,  fosse uscito in Italia, sarebbe stato ignorato. Pubblicato negli Stati Uniti, è stato recensito sul “New York Times”. La sua versione elettronica, offerta a una revisione paritaria aperta, è liberamente accessibile qui. Le sue tesi non sono originali per chi fa ricerca in rete.  Meritano, però, di essere riferite dettagliatamente per l’uso di chi avesse bisogno di argomentazioni esterovestite per riconoscere il loro interesse filosofico e politico.

Che, nel campo delle scienze umane, il modello economico della pubblicazione accademica tradizionale sia ormai insostenibile, è evidente almeno dall’inizio di questo secolo, quando lo scoppio della bolla speculativa del 2000 portò con sé pesanti tagli nei bilanci delle biblioteche. La monografia però, in quanto viatico per la cattedra, vaga per gli atenei come un morto vivente, mentre il suo sistema di produzione e disseminazione sta diventando obsoleto.  Oggi sarebbe più veloce ed economico mettere la proprie opere in rete, corredate, ex ante e ex post, dei pareri dei revisori:  ma come far riconoscere il valore scientifico e accademico delle pubblicazioni sul web in un ambiente conservatore e ossessionato dalla carriera?

The Museum SyndicateLa revisione paritaria (peer review) com’è condotta tradizionalmente, in un dialogo notturno fra redattori e revisori, esclude gli autori dalla conversazione e ostacola la circolazione delle idee. La rete non solo rende possibile spostare la revisione dopo la pubblicazione, ma, soprattutto, trasforma il giudizio in una peer-to-peer review. L’autore non è più un ‘individuo “originale” artificiosamente isolato dal contesto, ma un nodo di citazioni e di rielaborazioni: la ricerca può tornare a essere, come nei dialoghi platonicipartecipazione a uno scambio comunitario di idee. Se la rete si trasforma in un medium universale, gli studiosi che non sapranno trascendere se stessi, per restare incatenati in sistemi che li separano gli uni dagli altri, diventeranno  morti viventi, con i loro libri e la loro professione

1. Revisione paritaria

Investiti dalla disintermediazione e dalla partecipazione rese possibili dalla rete, i  concetti di autorità e di autorevolezza stanno cambiando . Gli studiosi, però, hanno resistito al mutamento, rimanendo per lo più alieni al nuovo spazio pubblico che si sta creando. Per un accademico analizzare le strutture del sistema che gli ha dato potere e prestigio può essere tanto sgradevole quanto accettare forme di revisione paritaria posteriori alla pubblicazione e pubbliche. Questo passo, tuttavia, sarà obbligato, perché rimanere chiusi nel proprio recinto significa condannarsi all’irrilevanza.

La storia della revisione paritaria, che trae le sue origine dalla prassi della Royal Society nella seconda metà del XVII secolo, è stata molto studiata per quanto riguarda le scienze naturali e sociali. Sebbene oggi sia intesa come un controllo di qualità scientifica, le sue radici affondano nell’assolutismo statale e nella censura, nella forma di un’autodisciplina imposta tramite le società di studiosi. Le sue stesse procedure, fondate sul controllo del direttore della rivista che decide se sottoporre un testo a peer review e sceglie i revisori, sono di natura assolutista.

L’ArXiv pratica, nei fatti, un’alternativa alla revisione paritaria tradizionale tramite un endorsement il cui scopo è verificare che i suoi contributori appartengano alla comunità scientifica. Nel 2006 “Nature” tentò un esperimento di revisione paritaria aperta e pubblica, parallela a quella privata e anonima, che si  affrettò a dichiarare fallito – anche perché i revisori erano ben poco incentivati a contribuire a un’impresa annunciata fin dall’inizio come irrilevante per l’effettiva valutazione dei testi.

La revisione paritaria aperta, successiva alla pubblicazione, è vista con sospetto perché non è anonima. Chi, però. l’ha praticata sul serio  può confermare che lo stesso timore della discussione pubblica produce – come sa chi si occupa di accesso aperto – un’autoselezione preliminare da parte degli autori.

I revisori anonimi, in virtù della loro posizione, hanno un potere senza responsabilità e senza interazione con gli autori;  questo dà libero gioco a pregiudizi sistematici, quando i nomi di questi ultimi sono loro noti. In gruppi disciplinari ristretti sono comunque facili da indovinare anche quando sono nascosti, e rimangono pur sempre noti al direttore della rivista, il cui potere è altrettanto irresponsabileMa può darsi giustizia  senza trasparenza?

Il “Bollettino telematico di filosofia politica“, a dire il vero, aveva reso l’anonimato completo, nascondendo l’autore dei contribuiti sottoposti alla rivista non solo ai revisori, ma anche alla redazione. Il programma che lo rendeva possibile, Hyperjournal, non ha però raggiunto la massa critica di utenti indispensabile per il successo di un progetto di software libero: evidentemente il problema dell’equità della peer review è scarsamente avvertito nel mondo accademico.

Anche se la revisione paritaria non serve alla discussione fra gli studiosi ed è un  controllo di qualità opinabile,  le è tuttavia riconosciuta una funzione di accreditamento.  Le università hanno dato in outsourcing agli editori la valutazione della ricerca, con effetti gravemente distorsivi.  I revisori possono essere condotti o a inflazionare i loro voti, o ad adottare criteri di selezione “di scuola”, mentre gli studiosi giovani  sono costretti a concentrare le loro ricerche sul “pubblicabile” piuttosto che sull’innovativo.

Internet ha separato la pubblicazione di un testo dalla sua qualità scientifica: ma la reazione più diffusa dell’accademia è stata quella di negare il valore alle pubblicazioni in rete, o di pretendere che imitassero il sistema tradizionale, in modo da non mettere a repentaglio le posizioni acquisite. Il principio  della revisione paritaria – che il proprio contributo sia valutato e criticato da pari competenti – non è però sbagliato. E’ sbagliato trasformare la revisione in un metodo per creare autorità e per escludere dalla discussione. Gli stessi revisori, se interessati alla ricerca e non al potere, sono costretti a sprecare una gran quantità di tempo per un lavoro privo di senso scientifico e destinato a rimanere sconosciuto. Perché non separare la pubblicazione dalla valutazione, aprendo i cancelli e lasciando che la revisione paritaria avvenga pubblicamente, ex post? Perché non usare il social software – come fa  Slashdot – e passare alla peer-to-peer review?

La peer-to-peer review altera il concetto di peer (pari): usato dapprima nel senso di “nobile”, nella scienza moderna designò il membro di una comunità del sapere e non più del sangue, per estendersi, in tempi recenti, a chiunque sia un nodo della rete. I pari nella loro ultima metamorfosi, anonimi, sfuggono al controllo accademico della reputazione: è tuttavia bizzarro che questa critica venga da ambienti che fondano la loro selezione della qualità su una revisione non facoltativamente, bensì’ obbligatoriamente anonima.  Un’esperienza di peer review aperta ha peraltro mostrato che i commenti discussi pubblicamente sono alla fine più affidabili delle esternazioni unilaterali e insindacabili di un paio di revisori anonimi. 

Slashdot, dopo aver sperimentato la dispendiosità e gli abusi di una moderazione affidata a individui,  ha adottato una automoderazione collettiva fondata sull’economia della reputazione. Un sistema simile, però, per non essere esposto a manipolazioni e abusi, o alla mera idiozia delle masse, deve seguire il modello del tribunale di Atene, raggiungendo una massa critica di utenti, offrendo incentivi ai revisori e contenendo rimedi contro lo spam, lo scambio di favori e altre forme di strumentalizzazione.

Nel mondo della stampa la pubblicazione passava per un marchio di qualità perché il testo pubblicato aveva dovuto essere selezionato ex ante. Oggi questo non è più necessario né tecnicamente né economicamente: rimangono però scarsi il tempo e l’attenzione. La necessità di un filtro umano – e l’inevitabilità di un’economia della reputazione – non è quindi abolita, bensì solo dislocata.

Quanto funziona bene  in Slashdot, funziona  piuttosto male  in Philica, un esperimento  di pubblicazione e di revisione paritaria aperta. In generale, però, in un”accademia che accredita gli studiosi sulla base dei loro successi individuali l’abitudine a “pensare insieme” e la convinzione che il guadagno più grande sia il progresso collettivo sono talmente rare da rendere infrequenti anche le comunità disciplinari ispirate a questi principi. Mediacommons, che pubblica l’opera della  Fitzpatrick, è il  progetto di una comunità aperta, i cui legami sono però anteriori alla rete, che costruisce la reputazione di un utente non solo sui suoi articoli, ma sulla sua capacità di scrivere revisioni valutate come costruttive dagli altri. Il suo scopo è premiare – anti-individualisticamente – chi collabora, senza limitarsi a inondare la scena delle secrezioni del suo lavoro solitario.

Mentre la revisione paritaria è binaria – un testo può essere solo accettato o rifiutato – e gli indici bibliometrici basati sul conteggio delle citazioni sono quantitativi, questo sistema è sfumato e qualitativo, e permette di valutare in che modo un autore è situato nel suo campo disciplinare, seguendo i suoi nessi e i suoi percorsi di discussione. Non possiamo giudicare il valore del lavoro di uno studioso senza confrontarci con il contenuto della sua ricerca e con il suo contributo alle comunità di conoscenza.

[continua]

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Ricercatori di successo

Grazie a Rangle mi è lecito segnalare i risultati di una ricerca ad accesso semiaperto.

Secondo Daniele Fanelli, ricercatore dell’Institute for the Study of Science, Technology and Innovation (ISSTI) presso l’Università di Edinburgh, un modo per verificare l’obiettività con cui i risultati della ricerca vengono prodotti e proposti è quello di selezionare i lavori in cui l’obiettivo è la verifica di un’ipotesi e scoprire in quanti casi gli autori concludono che l’ipotesi si rivela corretta (o no). Proporre un’ipotesi ed indagarne la “bontà” è una pratica consolidata nel mondo della ricerca scientifica, lo fanno in maniera propria e spesso i matematici (non starò qua a discutere i problemi di Hilbert) ed è abbastanza comprensibile che la tendenza generale sia quella di pubblicare studi in cui l’ipotesi si dimostra fondata, comprensibile ma fino ad un certo punto perché la pubblicazione di risultati che non corrispondono alle aspettative è altrettanto cruciale per il progresso della conoscenza scientifica.

Il rischio è che “vi sia  un processo patologico che si insinua nel corpo della ricerca scientifica, una tendenza ad interpretare i risultati negativi come insuccessi e si eviti di proporli privilegiando la pubblicazione di lavori più utili ai fini della carriera e della ricerca di fondi.” Le ricerche di Fanelli usano un database privato e accessibile solo a pagamento, gli Essential Science Indicators di Thomson-Reuters, che comprende però le testate dove pubblicano – grazie a un marketing pervasivo e costante nel tempo – i ricercatori “di successo”. Ebbene:

la percentuale di articoli che riportano un risultato positivo cresce in media del 6% ogni anno, si parte con il 70.2% del 1990-91 e si arriva all’85.9% del 2007 con un picco dell’88.6% nel 2005; i risultati sono molto differenti per differenti discipline, sia per la frequenza media di risultati positivi che per la rapidità di crescita del fenomeno, le scienze fisiche (in particolare le scienze dello spazio) sono le più “virtuose”, le scienze sociali tendono a comunicare quasi solo casi “positivi” e lo stesso accade per le discipline “applicate” rispetto a quelle “pure”; gli autori che lavorano nei paesi asiatici (in particolare in Giappone) riportano risultati positivi più di quelli che lavorano negli Stati Uniti, a loro volta “più positivi” degli europei (in particolare di chi lavora nel Regno Unito).

Queste statistiche sembrano suggerire la progressiva prevalenza di un modello di ricerca individualistico-imprenditoriale che valorizza esclusivamente l’affermazione di sé e della propria idea sul mondo che si dovrebbe interrogare.

Un modello simile si ritrova, applicato alla retorica, nel Gorgia di Platone. La bussola del mondo antico era la politica e non l’economia: la funzione della retorica era dunque paragonabile a quella svolta oggi dal marketing, e cioè convincere la gente nei luoghi in cui è più utile per acquistare potere. La retorica si fondava sulla competitività: riuscire a ottenere ragione era essenziale; farsi confutare significava perdere la faccia; cercare di confutare qualcun altro equivaleva ad attaccarlo. 

Platone impose un’idea di scienza diversa. Nel Gorgia, Socrate interrompe la conversazione col sofista per chiedergli  se in generale pensa che la confutazione sia o no utile a liberarci dagli errori. Gorgia è costretto a una risposta obbligata: neppure il più competitivo dei ricercatori potrebbe mantenere il suo onore professionale dichiarando che in astratto dell’accuratezza scientifica non gli importa nulla perché gli interessa solo aver ragione anche quando ha torto.

Per riconoscere il valore dell’insuccesso dobbiamo intendere la ricerca non come competizione, bensì come collaborazione, secondo un interesse che supera quello strettamente personale. Chi confuta i miei argomenti “di ferro e diamante” fa un favore non solo alla scienza, ma anche a me come scienziato. I miei oppositori, anche se sostenessero tesi falsificate, sono indispensabili nel cammino della ricerca.

Il Socrate del Gorgia conduce sistematicamente i suoi interlocutori in situazioni che impongono loro di rispondere nel modo da lui desiderato, con un’abilità retorica paragonabile e superiore a quella dei sofisti. Fra il loro sapere e la scienza socratica c’è, in realtà, soltanto una differenza: il riconoscimento del valore della confutazione, del risultata negativo, dell’insuccesso. La ricerca non è l’arte di avere ragione: è un metodo per rendersi conto dei propri torti. Dimenticarsene significa esporre i sistemi di pubblicazione e di valutazione al rischio di selezionare ottimi retori, prima e piuttosto che ricercatori di valore. 

 ResearchBlogging.orgFanelli D (2010). “Positive” results increase down the Hierarchy of the Sciences. PloS one, 5 (4) PMID: 20383332

 

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Francesca Di Donato, Comunicare la cultura: il dibattito sulla repubblica delle lettere nell’Illuminismo tedesco

Depositato nell’archivio “Giuliano Marini”, l’articolo di Francesca Di Donato offre una prospettiva storica sul modo e sul grado di consapevolezza teorica  con  cui gli studiosi organizzano se stessi

L’espressione respublica literaria compare per la prima volta nel 1417 in una lettera scritta da Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini. La repubblica delle lettere è  la comunità degli studiosi che, condividendo i medesimi interessi e la medesima occupazione, si scambiano notizie sulle proprie ricerche e scoperte, dapprima per via epistolare e poi tramite la stampa. Nella prima modernità, che vede la crisi della respublica Christiana, la comunità internazionale dei dotti si ispira a ideali di cosmopolitismo, pacifismo, libertà, uguaglianza e condivisione del metodo critico-razionale, dapprima inteso nella sua unità ispirata all’emancipazione umanistica dal giogo dell’autorità costituita, e successivamente bipartito a seconda che si parli di lettere o di scienze. In ogni caso, studioso non è semplicemente chi ama il sapere, ma chi ha la vocazione e la capacità di comunicarlo.

La respublica literaria nasce con una lingua comune, il latino, a cui successivamente subentrano le varie lingue nazionali, in un gioco delicato fra il rischio della frammentazione del discorso scientifico e la volontà di raggiungere pubblici più ampi. Anche la Germania, a partire dalla fine del Seicento, partecipa a questo sviluppo, favorito dal principio luterano dell’interpretazione dei testi tramite retta ragione e pubbliche confutazioni e da una fitta rete di periodici eruditi e di riviste politico-culturali. Per esempio Thomasius, vittima di una censura di stato, si difese tramite la teoria delle personae morali di Pufendorf: come il maestro di equitazione del re, pur essendo tenuto ad obbedirgli come suddito, deve trattarlo come qualsiasi altro allievo quando gli insegna ad andare a cavallo, così lo studioso può essere a un tempo suddito di uno stato, e, nella sua funzione, libero. 

Le trattazioni degli eruditi cominciano a distinguere due repubbliche: una prima (astratta) che coincide con la sfera della libertà di pensiero e di espressione; una seconda (storica), che include le istituzioni, le tradizioni, le regole e l’organizzazione di società dedite alla ricerca. Si crea una nuova attenzione nei confronti dell’influenza che i processi storici, sociali e politici possono avere sulla scienza, e su tale base l’universalità della repubblica delle lettere viene messa in discussione.

In questo quadro, il poeta Klopstock fa uscire, nel 1774,  Die deutsche Gelehrtenrepublik. La sua repubblica ha una struttura gerarchica, con degli anziani eletti da corporazioni, di cui cui fa parte chiunque abbia prodotto qualcosa di “più che mediocre” in una qualche scienza, e un popolo privo di influenza politica e sociale. I suoi princípi sono tre:

  1.  impegnarsi nella “ricerca, nella determinazione, nella scoperta, nell’invenzione, nella composizione e nell’animazione di più nuovi e più degni oggetti del pensiero e dei sensi
  2. condividere i più nuovi e più belli di tali oggetti con gli altri, comunicandoli attraverso gli scritti e tramite l’insegnamento
  3. promuovere le opere migliori, per contenuto e per forma, operando dunque una sorta di selezione delle migliori produzioni scientifiche e artistiche”

Dalla repubblica sono esclusi gli stranieri, chi non parla in tedesco e i filosofi, in quanto astratti ideatori di sistemi e autori di “scritti polemici”. Klopstock, che, sul piano pratico, condivide con illuministi come Lessing il progetto di emancipare gli studiosi dagli stampatori,

sa che la repubblica delle lettere è una costruzione storica e sociale, è a conoscenza del fatto che l’organizzazione culturale e intellettuale della repubblica ha prodotto controllo interno e censura, e anche che serve a dominare le menti degli illetterati. Gli piace soprattutto per questo: come progetto in chiave anti-illuministica e antifrancese. […] Il progetto del poeta si propone di regolare e controllare la critica nella comunità erudita, teoreticamente con l’esclusione della filosofia dalla repubblica, e praticamente fondando un’accademia che abbia il potere di filtrare il dibattito erudito al pubblico.

Da parte illuministica, il progetto fu criticato come oligarchico da Wieland; e analizzato sistematicamente da Moses Mendelssohn.  Costruire la respublica literaria entro lo stato nazionale e secondo il suo modello, anziché come cosmopolitica e indipendente, significa rendere anche gli studiosi dipendenti da poteri politici particolari. Gli scienziati, però, pur dovendo prescindere da ogni interesse personale, hanno il diritto e il dovere di essere in primo luogo partigiani della conoscenza, e non asettici burocrati. Né si possono escludere i filosofi dalla repubblica sulla base di una critica alla filosofia, perché la critica è parte dello sviluppo dell’attività filosofica stessa.  La barriera linguistica, infine, se può aver senso per la letteratura, non ce l’ha per la scienza: lo scienziato non cerca una “verità” nazionale, perché le sue teorie sono scientifiche solo se valgono per il mondo intero.

Questo articolo aiuta a capire perché, pochi anni dopo, Kant, sostenendo che chi fa uso pubblico della ragione in quanto studioso, appartiene alla società cosmopolitica, evita accuratamente di menzionare la repubblica delle lettere, e perché la sua teoria politica successiva, applicando il cosmopolitismo all’ordinamento degli stati, ribalta di fatto l’impostazione di Klopstock.  Se poi, oggi, le comunità di studiosi siano più simili a come le desiderava Klopstock o a come le sognavano gli illuministi, è questione che merita di essere offerta alla riflessione del lettore. 

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Marco Calamari, La scomparsa della rete

Chi era in rete prima che fosse invasa dalle moltitudini – scrive Marco Calamari su “Punto Informatico” – temeva principalmente la sua occupazione “militare” da parte degli stati,  tramite una censura e un controllo capillare. Non è andata esattamente così.

L’”economia del dono“, per la sua eccellenza tecnica, ha retto alla pressione delle masse e del commercio elettronico. Poi, però,

l’apparizione di entità della Rete di dimensioni tali da renderle quasi onnipotenti, come Google, Twitter e Facebook, o di ibridi Mondo-Rete come Apple ed Amazon, ha segnato un altro punto di svolta, in questo caso totalmente negativo. Una frazione maggioritaria della popolazione della Rete, che rappresenta ormai una frazione consistente della popolazione mondiale, ha iniziato a riversare sé stessa nella Rete, ma ha purtroppo scelto la strada sbagliata. Invece di diffondere in Rete il meglio di sé stessi, cose accuratamente realizzate e curate, possibilmente intelligenti o geniali, e magari fare questo con una certa dose di umiltà, vi ha riversato la propria vita e le proprie relazioni, permettendo ai pesi massimi della Rete di esercitare silenziosamente il loro potere per accumulare ricchezze e istituire un tecnocontrollo pervasivo.

Se la connettività “sparisce” negli oggetti e diventa un orizzonte invisibile, anziché uno spazio di partecipazione che dipende dalle nostre competenze e dalle nostre scelte, anche i cittadini della rete tendono a scomparire a favore di “una vastissima maggioranza di plebei sazi di quotidiano e privi di domande ed aspirazioni, unicamente concentrati sulla promozione del proprio sé come brand personale.” Al di fuori della plebe rimangono due minoranze: “quella dei potenti”, di “coloro che sanno, decidono cosa fanno gli oggetti, li progettano, e li danno da realizzare ad una parte della plebe (oggi in oriente, ma domani chissà) che in condizioni di sfruttamento produce cose che non comprende e che probabilmente non può permettersi”, e “quella dei ribelli, dell’underground digitale” – “ribelli certo, geniali forse, ma ghettizzati e autoghettizzati.”

Mi sono trovata a usare una metafora simile – la degradazione dei ricercatori da cittadini della repubblica della scienza, a proletariato, a plebe – argomentando a favore di un principio elementare come quello della pubblicazione ad accesso aperto: se la ricerca si fonda sulla libertà dell’uso pubblico della ragione, non ha senso imporle artificialmente una discussione ad accesso riservato, dietro barriere economiche ormai tecnologicamente obsolete, a esclusivo vantaggio degli oligopoli dell’editoria scientifica. Eppure, nonostante l’impegno delle istituzioni, buona parte dei ricercatori continua a lavorare gratis per i latifondisti della conoscenza e a misurare se stessi su parametri di cui non hanno controllo – dagli indici bibliometrici a qualche altra più impalpabile rete di rapporti personali, proprio come le twitstar si misurano sul Klout. Come mai gli studiosi – lo notava Robert Darnton qualche giorno fa – non si rendono conto del danno che arrecano alla repubblica delle lettere?

La rete ha fatto uscire l’etica hacker dall’Accademia, ha offerto virtù e conoscenza a chi le cercava, ma non ci ha liberato dall‘idiozia di non avere altro orizzonte al di là del proprio naso e del proprio marchio personale – da una libertà dei moderni interamente chiusa nello spazio angusto dell’individualità. Ma perché uno strumento che era stato pensato per resistere all’apocalisse – per sopravvivere, senza un’autorità centrale, alla fine di ogni sistema di controllo – si può così facilmente usare per chiudere l’orizzonte del mondo?

La libertà dei moderni, che ci ha abituato a pensare allo stato come unico nemico, ci ha indotto ad affinare gli strumenti per proteggere i privati dallo stato. Quanto al problema della protezione dei privati dai privati, la nostra esperienza storica lo associa a un mondo prepolitico, e  lo vede risolto nell’istituzione dello stato. Ora, però, ci stiamo muovendo in un ambiente post-politico, in cui il potere dei privati sui privati e sugli stati riesce a essere tanto pervasivo quanto implicito, e in cui i più ancora non si rendono conto che le leggi del codice e dell’architettura sono tanto importanti quanto quelle del diritto.

Di proletarizzazione dei ricercatori aveva parlato Max Weber, nel secondo decennio del secolo scorso: il professore, inserito come dipendente in un sistema burocratico, è privato della proprietà del suo strumento di lavoro – la biblioteca – proprio come gli operai sono separati dai mezzi di produzione. Se vediamo la rete come una macchina per la conoscenza, soltanto un passo piccolissimo separa il ricercatore proletarizzato, al servizio di un sistema il cui senso è stabilito da una struttura aliena, dal plebeo inconsapevole che regala se stesso a Facebook perché altri ne traggano profitto.

Il testo in cui Weber menzionò questo tema, La scienza come professione, è più noto per la sua “difesa – spiegava Norberto Bobbio – della scienza disinteressata [che] va di pari passo con una concezione fondamentalmente irrazionalistica dell’universo etico“, per la quale lo scienziato deve custodire “l’unica e limitata cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione che si esprime nei giudizi di valore”:

non saranno mai ricordate abbastanza le accorate, severe, e  quanto preveggenti!, parole che Weber pronunciò alla fine del 1918, al momento della sconfitta della Germania, nella conferenza alla Libera lega studentesca, sulla scienza come professione e come vocazione (Wissenschaft als Beruf), quando disse che nella scienza ha una sua personalità e una sua dignità soltanto colui che ‟serve puramente il proprio oggetto”, esaltò ‟l’intima dedizione al proprio compito”, e domandandosi perché il professore non debba dare consigli pratici intorno al modo di agire nella società, rispose: ‟Perché la cattedra non è per i profeti e per i demagoghi”

Che, però, il senso del sapere sia solo interno, a uso dei professori, entro un universo relativistico che ha rinunciato all’intellettualismo etico e all’orizzonte di una verità possibile,  non induce, all’esterno, a smettere di prendere decisioni, e di farlo secondo valori.  Difendere la cittadella della scienza in questi termini significa lasciare ad altri – al tecnocontrollo burocratico o capitalistico – la scelta di che cosa sia meritevole essere studiato. Togliere dalla cattedra i profeti e i demagoghi, per sostituirli con i proletari e i plebei, sulla cattedra e altrove, finché – con le parole di Weber –  “non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile“, cioè fino al crollo del sistema e alla sua apocalisse.

Siamo di fronte a una questione non soltanto tecnica, ma culturale. Per smettere di essere idioti dovremmo imparare a sentirci a un tempo ingegneri e filosofi, e scienziati, profeti e demagoghi – dovremmo imparare a riflettere sul senso non specialistico di quanto facciamo e sul valore dell’uso pubblico della ragione e dei suoi strumenti. Soltanto vent’anni fa, prima della rete, non mi sarebbe venuto in mente di leggere un articolo scritto da un ingegnere su una rivista di informatica, né avrei pensato di spendere del tempo a segnalarlo e a commentarlo per dare a Cassandra una  possibilità in più. 

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Paola Galimberti, I dati sulla ricerca: un problema aperto

Appena uscito su Roars, l”articolo di Paola Galimberti tratta di una questione solo in apparenza burocratica e trascurabile per chi discetta di massimi sistemi: come facciamo a sapere che cosa producono i ricercatori che lavorano nell”università italiana? Come facciamo a sapere quanto e come si citano e vengono citati?

Questi dati sono reperibili da due categorie di fonti:

– enti pubblici, che usano sistemi di archiviazione diversi e non necessariamente interoperabili, e che non necessariamente rendono pubblico quanto possiedono;

– enti privati, quali Thomson-Reuters (Wos), che raccolgono e vendono dati sulla base dei loro interessi di mercato.

La valutazione della ricerca vorrebbe dipendere almeno in parte da indici bibliometrici, cioè da indicatori di popolarità della produzione di ciascun ricercatore da misurarsi con le citazioni ricevute in una platea predeterminata di testi. Il fatto che i dati che dovrebbe usare siano pubblici ma nascosti, o privati e nascosti, o pubblici ma non interoperabili,  parziali, e ottenibili – in tempi di crisi e di tagli – per lo più a pagamento mette seriamente a rischio l”attendibilità di questo esercizio.

Una politica coerente a favore della pubblicazione ad accesso aperto, perseguita dalle università, favorita dal ministero e condivisa da ricercatori che finalmente si rendessero conto che il modo stesso in cui disseminano i loro testi è parte dei massimi sistemi di cui si occupano avrebbe potuto rendere l”esercizio più facile, più economico, più trasparente e meno esposto al rischio di ridursi a un grado di appello del tribunale di Kafka.

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Dmytri Kleiner, Manifesto telecomunista

Liberamente scaricabile presso telekommunisten.net, The Telekommunist Manifesto è un tentativo di riformulare il Manifesto del partito comunista  per l’età della rete.

Chi lavora in rete – ha sostenuto Kevin Kelly – adotta modi di produzione sociali e paritari, al di là dello stato e del mercato, che sembrano approssimarsi al socialismo. Dmytri Kleiner, sviluppatore e attivista, trasforma quest’intuizione diffusa in un programma politico ed economico complessivo.

Il sistema capitalistico corrisponde a un’architettura di rete di tipo client-server, il telecomunismo di Klein a un modello peer-to-peer, da estendere dal mondo delle macchine a quello degli uomini.  Nel primo caso ci sono gerarchie, privilegi e recinti, nel secondo auto-organizzazione e uguaglianza.

Internet è una rete aperta, decentralizzata e distribuita. Non è un giardino murato. Ben prima che si parlasse di Web, Usenet offriva una rete paritaria di server, senza un’amministrazione centrale, su cui gli utenti pubblicavano e  discutevano i propri contenuti, filtrando localmente la visualizzazione di quelli altrui. La novità del  Web 2.0 non è dunque l’user generated content, ma una condivisione sottoposta a forme di controllo centralizzato da parte di aziende private.

I sistemi peer to peer, proprio perché distribuiti, sono più efficienti di quelli centralizzati: mentre You Tube o Facebook richiedono enormi data center e grandi quantità di banda, a un nodo in una rete p2p basta un computer e una connessione internet commerciale. Sono più longevi, perché la loro sopravvivenza dipende esclusivamente dalla persistenza dell’interesse di chi vi partecipa, sono più resistenti alla censura, perché diffondono i loro contenuti in un modo simile a quello in cui l’antichità lasciava circolare i suoi manoscritti, e garantiscono maggiore privacy perché privi di un database centrale di utenti.

Il valore di servizi come Facebook non sta né nel loro software, né nei loro server, ma nei contenuti che vi caricano, gratuitamente, gli utenti: deriva dunque dalla recinzione e dalla privatizzazione di oggetti prodotti in comune, in modo da  controllarli e sfruttarli unilateralmente.

Secondo Klein, l’economia materiale ridurrà ai propri termini quella immateriale finché il modo di lavorare sperimentato in rete rimarrà confinato alla rete.  Il software libero, con la licenza GPL, usa il copyright – che pur affonda la sue radici nella censura  e nello sfruttamento  – per garantire che quanto è prodotto con mezzi di produzione comuni rimanga comune. I mezzi di produzione di uno scrittore di programmi, immateriali, sono altri programmi altrettanto immateriali, e facilmente collettivizzabili, perché non rivaliSi può fare lo stesso con mezzi di produzione materiali e rivali? 

Kleiner propone un sistema plurale di cooperative – le comuni di ventura – che acquistano e posseggono i mezzi di produzione affittandoli ai soci, coprono le spese tramite obbligazioni, e ridistribuiscono gli utili a tutti i propri membri, i quali sono ammessi alla società solo se offrono un contributo non patrimoniale, ma lavorativo. L’amministrazione comune di ciascuna cooperativa si limita alla gestione delle obbligazioni e degli affitti.

A dispetto dei suoi toni, il progetto del Manifesto è riformista: le comuni di ventura, a meno che non decidano di federarsi, stanno sul mercato come qualsiasi altra azienda basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, con un’unica, rilevante differenza: al loro interno non ospitano rapporti di lavoro subordinato.

In questa prospettiva, secondo Kleiner, le licenze Creative Commons sono “revisioniste” perché non rendono veramente comuni le opere dell’ingegno, ma si limitano a offrire ai produttori, indipendentemente dal loro modo di  organizzare il lavoro, una serie di recinti modulati in base alle loro esigenze. Il suo Manifesto è dunque soggetto a una nuova licenza, il copyfarleft – copyleft estremo che prevede una richiesta di remunerazione esclusivamente per gli usi commerciali da parte di aziende che sfruttano il lavoro subordinato.

Le licenze Creative Commons, però, non solo sono di più facile applicazione rispetto al copyfarleft, ma proprio per la loro gradualità e modularità, aiutano gli autori a emanciparsi dagli oligopolisti del copyright e a prendere coscienza della natura comunitaria degli oggetti culturali. In questo senso offrono una piattaforma il cui sviluppo spetta agli utenti, piuttosto che un  prodotto da prendere o lasciare.  Lo stesso Kleiner, per quanto parli il linguaggio del socialismo del XIX secolo, propone un progetto riformista e modulare, che potrebbe addirittura apparire come uno sviluppo del primo comma dell‘articolo 45 della costituzione italiana. Riprodurre, in questo contesto, il conflitto fra massimalismo e riformismo rischia  di ridursi a un‘inutile ripetizione della storia.

Stiamo vivendo una gravissima crisi economica strutturale, dovuta al fatto che intere società – capitalistiche e gerarchiche – hanno perso il senso della responsabilità e del rischio. Per i molti abituati a lavorare sotto padrone e a pagare le conseguenze di decisioni a cui non hanno partecipato, il telecomunismo potrebbe essere un esperimento allo stesso tempo liberatorio e responsabilizzante.

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