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Spendere meno, spendere meglio: una proposta panottica di J.-C. Guédon

open access logoJ.-C. Guédon ha commentato la nostra campagna di crowdsourcing in merito alle spese delle biblioteche  sulla mailing list Nexa.  Offriamo, qui di seguito, la versione italiana delle sue osservazioni – che presuppongono un mondo accademico molto diverso da quello impostoci dalla burocrazia della valutazione e dei tagli, perché consapevole che bisogna cooperare,  per uscire di prigione.


Da molto tempo gli editori giocano al “dilemma del prigioniero” facendo firmare alle biblioteche clausole di riservatezza sull’esito delle trattative come condizione per conservare quanto è presentato come un privilegio fatto su misura, vale a dire un piccolo sconto sul prezzo complessivo di un pacchetto di testate e di database.  Senza la clausola di riservatezza, lo sconto va perduto. Questo significa che gli editori godono di ciò che si potrebbe senza dubbio chiamare – per usare il concetto di Bentham come rielaborato da M. Foucault – un vantaggio “panottico” sulle biblioteche.

È ben ora che le biblioteche reagiscano con un sistema panottico simmetrico per ripristinare un qualche grado di equilibrio nella relazione di potere con gli editori. Potrebbero farlo creando un database delle licenze e dei costi di ciascun editore, naturalmente con una descrizione dettagliata di quanto ottengono in cambio dei loro soldi,  e rendendolo pubblico. Questo sistema panottico potrebbe partire su base nazionale, per esempio in Italia, e poi, per imitazione, diffondersi nel mondo.  E dovrebbe essere esplicitamente progettato per evitare che alcuni bibliotecari siano puniti per non aver conseguito l’accordo migliore: non deve, cioè, essere inteso come una classifica, bensì come un modo per documentare l’estensione arbitraria dei prezzi, quanto sono l’esito di trattative opache.

A proposito di spesa bibliotecaria, le biblioteche, su base nazionale, potrebbero concordare collettivamente che, da ora in poi, il loro budget complessivo per gli acquisti verrà suddiviso fra gli acquisti e il sostegno di iniziative ad accesso aperto (sia verdi sia auree), e questa suddivisione potrebbe spostarsi gradualmente verso l’Open Access.  Si potrebbe immaginare, dunque, che il primo anno le biblioteche dirotterino il 5% del loro bilancio per sostenere riviste ad accesso aperto, il secondo anno il 10% e così via. In questo modo il flusso di ricavi dei grandi editori si ridurrebbe inesorabilmente, mentre si finanzierebbe qualche iniziativa Open Access a livello nazionale, per esempio una piattaforma italiana simile a SciELO o un megajournal scientifico ad accesso aperto. E se i ricavi cominciassero a diminuire, e diventasse noto nei circuiti degli investitori, il valore delle loro azioni cadrebbe precipitosamente…

Le biblioteche, collettivamente, detengono un potere d’influenza enorme: non hanno, però, trovato ancora il modo di organizzarsi per trarne vantaggio.

 

 

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Originalità e insularità: una discussione platonica

Hassan TowerIn “Why Plato wrote”: the insularity of Platonic studies (Center for Hellenic Studies Research Bulletin, Harvard 2012) Andrea Capra discute un libro di Danielle S. Allen, Why Plato Wrote, edito nel 2010, ad accesso chiuso, da una multinazionale dell’editoria scientifica. Il suo articolo merita la lettura perché aiuta a capire in che acqua nuotano gli accademici.

D.S. Allen è una studiosa nota e influente le cui tesi – secondo Capra –  sono interessanti ma non nuove.  Platone scrive per cambiare la vita di chi lo legge, tant’è vero che si trovano tracce della sua lingua in discorsi del IV secolo; non fa politica attiva, ma è una sorta di attivista culturale. Le fonti dell’autrice, che la inducono a dichiararsi originale, sono tutte recenti e di lingua inglese. Ella sembra ignorare, fra gli altri, autori antichi come Dicearco, e platonisti contemporanei come Gaiser e Cerri – il primo oscurato dall’associazione alla scuola di Tübingen, il secondo dall’italianità.  C’è, dunque, “un’insularità crescente negli studi platonici, specialmente fra gli studiosi di lingua inglese,  [per la quale] opere estremamente utili e valide sono ignorate solo perché non sono nella lingua o della scuola giusta”?

Mettendo per iscritto i suoi logoi, Platone, per così dire, condusse alla filosofia (proetrepsato) una quantità innumerevole di persone; d’altra parte, però, indusse qualcuno a far filosofia in modo superficiale (Dicearco, PHerc. 1021, Col. I 11-17, ed. Dorandi).

Platone, sociologo della comunicazione e retore filosofico, non era isolato. Perché gli umanisti di oggi si sentono tali, in un mondo la cui tecnologia è andata ben oltre le triremi e il manoscritto?

Come osserva Barbara Graziosi nel suo commento, la contesa non riguarda la completezza bibliografica – non si possono leggere tutti i libri – ma l’interpretazione platonica. Secondo Capra, vedere Platone come un “think-tank activist” e non come un politico della filosofia, che lavora per la filosofia e non per altri è parzialmente corretto ma superficiale. Questa superficialità si fonda a sua volta su una conoscenza superficiale, “insulare”, della letteratura secondaria. Chi scrive in inglese può permettersi di rappresentarsi come originale per un pubblico che non legge l’italiano o il tedesco o riduce gli autori all’etichetta della loro scuola.

La rete rende ancor più evidente che il mondo della cultura è infinito o indefinito, e che proprio in questo consiste la sua vitalità. Chi ne è consapevole evita di proclamarsi originale per non esporsi a facili confutazioni. È, d’altra parte, normale che idee simili si presentino negli ambiti più diversi e per le esigenze più svariate. Per esempio Mario Biagioli ha scritto, nel 2011, che solo F.Kawohl e M.Kretschmer, in un articolo del 2009, si sono resi conto dell’inconsistenza del concetto di proprietà intellettuale in Fichte, ignorando quanto avevo pubblicato nel 2010 e addirittura nel 2006.  Non c’è, in casi come questi, malafede: frequentiamo cerchie intellettuali che s’intersecano solo occasionalmente.  

Però, in un mondo accademico che si comporta ancora come se credesse nell’originalità romantica, può esserci un interesse inconfessato all’insularità.  Se, contro il cosmopolitismo dell’uso pubblico della ragione, si recinta la cerchia delle opinioni rilevanti, escludendo chi non parla le lingue giuste, non conosce le persone giuste, non pubblica nelle riviste giuste, diventa possibile rivendicare la propria originalità senza timore di essere contraddetti, perché si è trasformato un infinito al di là del senso in un finito che si attribuisce senso da sé:  il mondo delle idee non sta più in un luogo al di sopra del cielo ma nella piccola comunità umana a cui noi stessi apparteniamo. Questo è lo spirito dell’accademia dei morti viventi, che, in nome di una burocratica patente d’eccellenza, limita da sé la vita del pensiero: ubi solitudinem faciunt, novitatem appellant. Non è però quello di Platone, per il quale la ricerca non era fatta di etichette, ma – nel mondo al di sotto del cielo, in cui trascorriamo tutti noi – d’indigenza, di spossessamento e di confutazione, in un continuo cominciare da capo.

Danielle Allen, che pubblica ad accesso chiuso,  si dice solita iniziare ormai le sue ricerche esclusivamente da fonti on-line, quindi – secondo lei – prevalentemente in inglese. Non possiamo ridurre questa giustificazione a una scusa, senza prima chiederci quanti studiosi sanno essere consapevoli dell‘infrastruttura in cui circola la loro ricerca e se ne assumono la responsabilità.

 

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Don’t hate the aggregator. Become the aggregator

E pluribus unumIl 25 ottobre 2012 ho partecipato a una conferenza sull’Open Access con Jean-Claude Guédon, organizzata da SardegnaRicerche.

Le criticità degli oligopoli dell’editoria scientifica sono già evidenti, all’estero. In Italia però, complice una valutazione della ricerca costruita su database parziali, proprietari e opachi e su qualche conflitto d’interessi, l’accesso aperto è un fenomeno degno di nota ma minoritario.

Guédon ha sostenuto che consegnare il sigillo della scientificità a multinazionali come Thomson Reuters, che include nel suo database proprietario le riviste a suo arbitrio meritevoli, significa creare non solo oligopolio e oligarchia, ma anche colonialismo culturale. Quando i ricercatori dei paesi emergenti sottopongono i loro articoli a core journals mappati in una prospettiva anglo-americanocentrica, dedicano la loro intelligenza agli interessi dei ricchi, anziché ai propri.

Long TailSe accettiamo che il marchio della scientificità sia impresso dai journals, ma desideriamo una ricerca meno oligarchica, la distribuzione ottimale dell’impatto delle riviste dovrebbe essere una curva non solo lunga, ma anche il più possibile piatta. Senza posizioni preponderanti diventerebbe più difficile drenare risorse dal privato al pubblico e dal centro alla periferia, come è avvenuto nel sistema che ha condotto alla crisi del prezzo dei periodici

Applicare alla ricerca il modello della competizione – privilegiando la parte alta della curva – significa impoverirla, in una monocultura della conoscenza  concentrata su pochissimi interessi e pericolosamente priva di biodiversità.

La rete, rendendo facile la pubblicazione, può aiutarci a uscire dalla povertà. Internet, però, non è esente da posizioni dominanti: come ha mostrato Jaron Lanier, il ruolo giocato, nella pubblicazione scientifica, dalle multinazionali editoriali passa ad aggregatori come i motori di ricerca e le reti sociali proprietarie. In entrambi i casi qualcosa che nasce gratuito viene sfruttato per il proprio marketing e per il proprio profitto.

La pubblicazione ad accesso aperto usa le rete e il software libero per abbattere le barriere economiche che separano l’autore dal lettore. Le riviste ad accesso aperto  come il Bollettino telematico di filosofia politica sono solo un’attività collaterale alla ricerca: possono dunque essere gratuite per chi le legge e per chi ci scrive. Naturalmente, però, una rivista che diventasse mainstream, ricevendo centinaia di articoli al mese, non potrebbe più amministrarsi in modo artigianale: avrebbe bisogno di un’organizzazione più costosa, a spese del lettore, come nell’editoria tradizionale, o a spese dell’autore, come in Plos.

Essere piccoli, oscuri e poveri è il prezzo della libertà. Varrebbe la pena pagarlo, se.solo di libertà si trattasse.  Chi compie una simile scelta rischia, però, di rimanere vittima delle forme più ottuse di valutazione della ricerca e di vedersi rubare la scena da vecchi e nuovi signori delle nuvole. Ci troviamo, dunque, di fronte a un dilemma: o stare nella coda lunga della curva della distribuzione a legge di potenza o stare nella sua parte alta – o essere piccoli, artigianali, liberi, gratuiti e pluralisti, ma oscuri e facilmente sfruttabili, o diventare grossi, industriali e famosi, ma perdere se stessi.

Super-riviste

La soluzione di Guédon al dilemma che gli ho proposto s’ispira al modello delle super-riviste o mega-journals. Plos One, per esempio, pubblica qualsiasi testo scientificamente rigoroso che superi la revisione paritaria, senza nessun’altra considerazione editoriale. La rivista riesce a rispondere rapidamente agli autori e a offrire articoli con cadenza quotidiana,  grazie a un numero enorme di redattori accademici e a un flusso di lavoro automatizzato.

Se tutte le riviste incluse nel Doaj si federassero raggruppandosi in aree disciplinari ampie sotto testate unitarie anch’esse ad accesso aperto, otterremmo delle super-riviste in grado di pubblicare – completamente gratis – un volume enorme di articoli.  Il carattere federale permetterebbe a ciascuna testata federata di mantenere la propria struttura, il proprio comitato scientifico, i propri interessi e i propri tempi di lavoro, mentre le dimensioni della federazione condurrebbero a un volume di articoli e di citazioni troppo grande per essere ignorato. E pluribus, unum.

Naturalmente, perché il federalismo sia possibile, le riviste ad accesso aperto devono intendere la loro attività non in concorrenza, ma in cooperazione.  Si tratta di un passaggio difficile per chi applica alla scienza i modelli aziendalistici, ma facile per quanti sanno che una ricerca non ha successo quando vince il campionato della bibliometria, ma quando aiuta a comprendere meglio una porzione di mondo. La loro generosità, in ogni caso, sarà ricompensata dall’impatto della super-rivista, che ricadrà su ciascuna testata federata.

Questa rivoluzione culturale – un unico giardino aperto, cento fiori – avrebbe, per le scienze umane, un beneficio aggiuntivo: potrebbe aiutarle a superare la pluralità piccola e provinciale degli horti conclusi per aprirsi al pluralismo interconnesso teorizzato, per esempio, da Gregory Crane.

 

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Jaron Lanier, You are not a Gadget

Mechanic of Cloud and Guardian of Hills IIJaron Lanier è un programmatore e un musicista. Il suo testo (*) – tradotto anche in italiano – parla degli esiti della rivoluzione telematica, in una prospettiva critica e non contemplativa come la metafisica di alcuni filosofi professionisti, che s’ispirano alla digitalizzazione per ridurre la realtà a “documentalità” come condizione di possibilità dell’anima, o, all’opposto, a un’“infosfera” popolata d’inforgs.

Nel Fedro Platone, da utente del testo scritto, s’interroga molto più sul “come” che sul “che cosa”, riflettendo sulle possibilità e sui limiti della scrittura e dei media non interattivi in generale. Socrate non discute con un tecnico della comunicazione, com’è Fedro, per stabilire se l’anima ci sia o no – ne parla solo in un mito – ma per capire la relazione fra le tecnologie della parola e l’ambiente culturale che esse contribuiscono a creare. È sociologia della comunicazione? Certamente. Ma è anche filosofia come critica e prassi teorica, come riflessione che s’interroga sui suoi strumenti, anziché cristallizzarli in un’esposizione metafisica. Solo una lettura superficiale può rappresentare Platone come un mero detrattore della scrittura a favore dell’interiorità segreta di un’anima non documentabile.

1. Smanettando con la filosofia

Se adottiamo la prospettiva di Lanier le metafisiche che affrontano la digitalizzazione in modo contemplativo non sono soltanto oziose: sono pericolose.

Costruiamo estensioni per il vostro essere, come occhi e orecchi remoti (web-cam e telefoni cellulari) e memorie espanse (la massa di minuzie che si può cercare online). Esse diventano le strutture con cui vi connettete al mondo e agli altri. Queste strutture, a loro volta, possono cambiare il modo in cui concepite voi stessi e il mondo. Smanettiamo con la vostra filosofia manipolando direttamente la vostra esperienza cognitiva, non indirettamente, tramite l’argomentazione. Basta un minuscolo gruppo di ingegneri per creare una tecnologia in grado di dar forma, a incredibile velocità, a tutto il futuro dell’esperienza umana. Perciò sviluppatori e utenti dovrebbero fare le discussioni fondamentali sulla relazione umana con la tecnologia prima di progettare tali manipolazioni (You are not a Gadget, cap. I).

Il software non è un dato: è una costruzione, una visione del mondo, che incide su di noi – proprio come la poesia criticata da Platone nella Repubblica – al di qua del ragionamento. E, come la poesia, è soggetto ai vincoli della tradizione, o, più specificamente, del lock-in che “trasforma i pensieri in fatti“. Gli umanisti conoscono bene questo fenomeno: è la sedimentazione di idee, costumi e istituzioni che rende tanto potenti e costrittive la culture umane – è l’eticità di Hegel, la convenzione e la prescrizione di Burke, il sistema di tutele che rende così difficile uscire di minorità nello scritto sull’Illuminismo di Kant. Il medesimo fenomeno,  però, trasferito al software, rischia di trovarli disarmati e proni a una contemplazione servile dell’esistente, a meno che non appartengano alla particolarissima categoria dei digital humanists. Lanier suggerisce di essere scettici sugli strumenti che usiamo: ma lo scetticismo – per non ridursi a tecnofobia – richiede una conoscenza tecnica di cui non sempre i contemplativi si curano. Lo stesso concetto di digital humanities – quando viene distinto dalle scienze umane – presuppone che gli strumenti e le interfacce del conoscere siano oggetto di specializzazione molto esclusiva e non interesse di una scienza semplicemente umana.

 2. You are a gadget, indeed

Dal punto di vista applicativo, la differenza fra il sito di una rete sociale e il web come esisteva prima che le reti sociali venissero introdotte è questione di piccoli dettagli. Sul proprio sito web si poteva sempre creare una lista di link ai propri amici e spedire messaggi di posta elettronica a una cerchia per annunciare quanto ci stava a cuore. Tutto quello che offrono i servizi di reti sociali è un pungolo a usare il web in un modo particolare, secondo una filosofia particolare (You are not a Gadget, cap. III).

Quando Tim-Berners Lee inventò il web,  progettò, pensandolo per la comunità del Cern, un’architettura aperta e minimalista, che riuscì a guadagnare, solo perché si fondava su una buona idea, una partecipazione e una cooperazione spontanea. I media sociali proprietari mercificano questa spontaneità, incoraggiando le persone a creare presenze standardizzate in modo da poterle classificare più facilmente nei propri database. Chi accetta di sottomettersi ai modelli riduttivi dei media sociali – il loro confinamento della gente in bolle, con i cacciatori di relazioni su Facebook e i carrieristi su Linkedin – accetta di ridurre se stesso, di limitarsi secondo stereotipi pensati da altri, e per fini diversi – e spesso opposti – ai suoi. Il denaro, in rete, serve in primo luogo a pagare la pubblicità (You are not a Gadget, cap. IV): questo significa che l’interesse più forte e prevalente nella società digitale non è la socialità, o l’arte, o la scienza, ma la manipolazione.

Lanier interpreta  il test di Turing alla rovescia, suggerendo di pensarlo non come esame empirico di umanità  per la macchina. ma come test di meccanicità per l’essere umano. Lo supererebbe, in questa prospettiva, non la macchina che si comporta in modo “umano” bensì l’uomo che, avendo accettato la riduzione a gadget, si comporta in modo meccanico – cosa, questa, non infrequente nel mondo dei media sociali.

3. Noosfera: dalla quantità alla qualità?

I frammenti della fatica umana che hanno inondato l’internet sono percepiti da qualcuno come componenti di una mente ad alveare, o noosfera.  Si usano termini come questi per descrivere una cosa concepita come una nuova superintelligenza che sta emergendo globalmente sulla rete. Alcuni, come Larry Page, uno dei fondatori di Google, si aspettano che internet a un certo punto diventerà viva, mentre altri, come lo storico della scienza George Dyson, pensano che potrebbe già esserlo. Derivati popolari come “blogosfera”  sono divenuti luoghi comuni.

Un’idea di moda nei circoli tecnici è che la quantità non solo si trasforma in qualità quando raggiunge una misura estrema, ma che lo fa secondo principi che noi capiamo già. Alcuni dei miei colleghi pensano che un milione o forse un miliardo di insulti frammentari produrrà alla fine una sapienza superiore a quella di qualsiasi saggio ben ponderato, a condizione che sofisticati algoritmi statistici segreti ricombinino i frammenti. Io non sono d’accordo. Viene in mente un modo di dire dell’informatica dei primordi: garbage in, garbage out (You are not a Gadget, cap. III).

La rete può pensare al nostro posto, grazie alla mera massa dei dati, delle connessioni e della potenza di calcolo? Quando dobbiamo spiegare un fenomeno dobbiamo trattarlo come deterministico: questa è scienza. Credere, però, che dalla mole digitalizzata dei dati, delle spiegazioni, delle connessioni e delle confutazioni scaturisca una coscienza cosmica significa passare dalla scienza allo scientismo.

Tuttavia, vedere la coscienza come qualcosa di misterioso, che non può ridursi a illusione perché tale riflessione presuppone pur sempre la coscienza stessa, non è tanto infondato quanto sostenere che l’anima senza l’informazione è, a sua volta, nulla? Fra queste due visioni del mondo che si confrontano teoreticamente in uno scontro indecidibile c’è però una differenza pratica. Credere in un’informazione che torreggia su di noi induce a un atteggiamento contemplativo; credere nell’autonomia della ragione – e già Kant sapeva bene che non vi si può coerentemente accedere tramite un algoritmo, ma solo tramite una vocazione – induce a un atteggiamento critico. La noosfera, in questa prospettiva, è semplicemente il mondo della cultura, con tutte le sue strutture, le sue sedimentazioni, i suoi lock-in, i suoi dati chiusi o aperti, le sue reti semantiche e no, e i suoi pregiudizi: ipostatizzarla significa scegliere di trattarla come un dato anziché come un costrutto.

 4. Maoismo digitale

Il maoismo digitale non rifiuta ogni gerarchia. Ricompensa, invece, in maniera preponderante un’unica gerarchia prediletta, quella dei metadati digitali [digital metaness], nella quale un pastone [mashup] è più importante delle fonti che sono state ridotte in poltiglia. Un blog di blog è più celebrato di un mero blog. Se avete catturato una nicchia molto alta nell’aggregazione dell’espressione umana – per esempio nel modo in cui Google ha fatto con la ricerca –  riuscite a diventare potentissimi. Lo stesso vale per l’operatore di un hedge fund.  Nella nuvola, meta equivale a potere (You are not a Gadget, cap. IV)..

Metaforicamente: la Bibbia è un testo meraviglioso frutto della collaborazione fra generazioni e autori per lo più anonimi. Ma una cosa è apprezzarla come prodotto della sedimentazione culturale, finestra sull’umanità e – per chi è credente – espressione indiretta di Dio. Un’altra è trattarla, fanaticamente, come la parola diretta di Dio, consegnando, così, un potere grande e incontrollabile a chi svolge il ruolo dell’aggregatore che ordina, accoglie ed espunge contributi secondo il suo arbitrio (You are not a Gadget, cap. III). Questa seconda posizione – usare un prodotto collettivo come un oracolo, enfatizzare la massa e la sua eventuale violenza rispetto al singolo  – è ciò che Lanier chiama maoismo digitale.

5. Il valore del lavoro intellettuale

Un effetto della cosiddetta cultura libera è che potrebbe infine costringere chiunque vuole sopravvivere sulla base di un’attività intellettuale (diversa dal badare alla nuvola) a entrare in una qualche specie di fortezza giuridica o politica  – o diventare favoriti di un ricco mecenate – per essere protetti dalla rapacità della mente ad alveare. In realtà “libero” significa che artisti, musicisti, scrittori e registi saranno costretti ad ammantare se stessi in istituzioni indigeste (You are not a Gadget, cap. IV)..

Questa tesi non può essere ridotta a un attacco al Web 2.0:, perché tocca un problema più ampio: in che modo le società fanno i conti con la loro “anima”?  In che modo riconoscono il lavoro dell’intelligenza?

Prima della stampa l’attività dell’intelletto era un privilegio che compensava se stesso, ed era per lo più scontato che il suo prodotto fosse comune. Gli autori poveri di mezzi dovevano rassegnarsi a dipendere dal mecenatismo. L’invenzione della stampa non decretò la loro indipendenza, ma il potere di nuovi mediatori, gli editori, dapprima, più intensamente, con il regime del privilegio librario e poi, più moderatamente, con un copyright, che però divenne sempre più sbilanciato a favore dei distributori.  La pubblicazione scientifica mainstream, garantendo ricche rendite da oligopolio a pochi latifondisti del sapere che privatizzano quanto ricevono a titolo gratuito, è il caso limite di questa tendenza. La mente ad alveare non ha inventato nulla: il comunismo della conoscenza e il tentativo di sfruttarlo per trarne profitto o per manipolare le coscienze  accompagnano tutta la storia della cultura umana. Il Web 2.0 con i suoi signori delle nuvole e i suoi servi della gleba digitali che li omaggiano di pezzi stereotipati di se stessi ne sono solo la manifestazione più recente.

La soluzione di Lanier – ispirata al progetto Xanadu – si adegua al presupposto che un bene comune e gratuito sia privo di valore. Con queste premesse l’anima può riottenere la sua dignità solo diventando di nuovo privata e monetizzabile. Anche se i costi di transazione di un sistema centralizzato di micropagamenti che permettesse l’accesso ma non la copia risultassero superiori alle remunerazioni degli autori, l’efficienza del mercato dovrebbe essere sacrificata alla sua pedagogia. L’unica alternativa a questo capitalismo inefficiente sarebbe il socialismo, che però è soltanto – esorcisticamente? – evocato, sebbene la critica di Lanier al Web 2.0 sia tecnicamente consonante con quella di Dmytri Kleiner, telecomunista.

6. Oltre il lock-in?

Molto prima che venisse inventato il Web 2.0, il sistema della pubblicazione e della valutazione scientifica ha sperimentato un oligopolio basato sull’alienazione del lavoro intellettuale a favore di un’oligarchia di multinazionali dell’editoria scientifica.  Si era riusciti a far credere che il valore dei testi non dipendesse dai loro contenuti, bensì dalla loro distribuzione e aggregazione bibliometrica. Questo sistema è simile al Web 2.0 perché monetizza quanto offerto gratuitamente, a favore di pochissimi signori delle nuvole. I suoi testi, però, oltre ad essere recintati in bolle di dati proprietari e chiusi, sono accessibili solo  a caro prezzo.

Il movimento per l’accesso aperto ha reagito all’oligopolio  impegnandosi perché tutti possano leggere i testi senza pagare il pedaggio ai signori delle nuvole. Nello spirito di Lanier, avremmo potuto esigere che gli  autori e i revisori degli articoli scientifici fossero remunerati per il proprio lavoro in proporzione ai profitti degli editori. Ma non lo abbiamo fatto. Non lo abbiamo fatto perché non siamo prigionieri del lock-in che sembra incantare Lanier: per noi il valore dell’attività dell’intelletto non è monetario, né, in generale, la moneta è la misura ultima di tutti i valori. Esistono e sono esistite società libere da questo pregiudizio: gli stessi mecenati che, nella prima età moderna, finanziarono la rivoluzione scientifica vivevano in un mondo in cui era il denaro – e non l’attività dell’intelletto – a doversi giustificare, trasferendosi su valori ulteriori.

Chi sente la monetarizzazione del valore come un lock-in culturale si rende conto che il potere dei signori delle nuvole non riposa sulla svalutazione dell’attività dell’intelletto, ma sulla nostra incapacità ideologica di riaffermare il valore gratuito – la grazia – del nostro lavoro e di farlo riconoscere alla società con forme di remunerazione alternative al monopolio – dal crowdfunding, a una politica fiscale adeguata, alla promozione della cooperazione -, e sulla nostra difficoltà tecnica a esaminare criticamente gli strumenti che usiamo e la filosofia che incorporano.

Se vogliamo una repubblica del sapere senza recinzioni, ma popolata da cittadini e non da gadget, Lanier merita risposte che non si limitino a una difesa d’ufficio del Web 2.0. Da umanista, ne propongo alla discussione due, fra loro connesse:

1. Tecnicamente, occorre tornare dall’enfasi sull’user generated content all’user generated interface. I contenitori – dagli editori tradizionali ai media sociali proprietari – non sono indifferenti, soprattutto quando ci impongono una filosofia e una visione del mondo, che può andare dal culto del copyright alla riduzione a gadget. Questo significa – per gli umanisti e in generale per chi usa la rete per fare ricerca – prendere o riprendere in mano il codice, e chiedere agli sviluppatori che ci aiutino a uscire di minorità. Non possono esistere contenuti liberi se non sono liberi, preliminarmente, i loro contenitori.

2. Filosoficamente, occorre collegare la questione dell’uso pubblico della ragione a quella del grado di controllo che a ciascuno deve essere riconosciuto nel proprio rapporto col pubblico. La cultura, con le sue strutture. ma anche con i suoi pregiudizi, è oggetto di responsabilità – e irresponsabilità – collettiva. I media sociali proprietari – come i monopoli tradizionali basati sul copyright – non possono sostituire le comunità di conoscenza senza togliere al “tempo libero” della ricerca e della vita la sua libertà. Bisogna lavorare perché queste idee diventino tanto banali quanto da noi  lo è, almeno formalmente, il principio della libertà d’espressione

(*) Il libro, anche se si trova facilmente in rete,  è ad accesso chiuso; è stato tuttavia segnalato perché merita di essere aperto e discusso. I brani citati sono stati tradotti da me e non vengono dalla versione italiana commercializzata ad accesso altrettanto chiuso da un editore potente a cui non desidero fare pubblicità.

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Roberto Gatti, Il popolo tra realtà politica e finzione ideologica

E’ on-line sul nostro sito dedicato alla revisione paritaria aperta un articolo proposto da Roberto Gatti, dal titolo Il popolo tra realtà politica e finzione ideologica.

Il senso del nostro esperimento è spiegato qui. Le indicazioni per i commentatori sono consultabili a partire da questo indirizzo.

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L’università e le sue crisi: una riflessione storica

1. Universitas magistrorum et scholarium

UniversitasMentre molte ricette d’“eccellenza” per l’università si pretendono senza tempo, l’articolo di Jean-Luc De Meulemeester, economista, pubblicato recentemente su “Pyramides”, invita a pensare in una prospettiva storica ampia, disciplinarmente inconsueta.

Alle sue origini, nel Medioevo, l’università – come Universitas Magistrorum et Scholarium – era una corporazione dedicata all’insegnamento superiore (studium). Poteva organizzarsi come la Sorbona, con un legame lasco con la Chiesa e dei professori liberi di lasciare la cattedra o di astenersi dal lavoro che controllavano studenti giovani e poveri; oppure come Bologna, di origini laiche, con studenti più adulti e ricchi che governavano professori legati al loro posto. In ogni caso, sia che i docenti fossero stipendiati dalla Chiesa, come a Parigi, o dal Comune, come si finì per fare a Bologna, l’universitas non solo godeva della libertà dell’ambiente urbano, ma – dotata di un proprio sigillo – decideva sul reclutamento dei professori, aveva personalità giuridica e autonomia amministrativa e giurisdizionale interna. Così, in un mondo prevalentemente gerarchico, gli universitari riuscivano a far esperienza di relazioni orizzontali.

L’università medioevale produceva medici, teologi e giuristi. Era dunque professionalizzante, relativamente indipendente dai poteri politici ed ecclesiastici in virtù del suo diritto particolare, ma – in quanto monopolista dello studium – conservatrice e poco vocata alla ricerca. La ricerca era per lo più nascosta, o perché finanziata da privati per i loro interessi, o perché patrimonio di corporazione o perché – come nel caso dell’alchimia – proibita dalla Chiesa. A partire dal XV secolo l’affermazione dello Stato moderno, che mal tollerava i diritti particolari, spense l’autonomia dell’università, riducendola a centro di formazione professionale al suo servizio.

2. L’età moderna: la scienza aperta e la prima crisi dell’università

La scienza aperta basata sulla verifica e sulla discussione pubblica e finanziata senza scopo di lucro da mecenati privati o dallo stato s’impose prevalentemente fuori dalle università, tramite le accademie e le riviste. I finanziatori, dopo l’esplosione rinascimentale delle ricerca, non erano più in grado di valutare da sé che cosa fosse valido e che cosa no: le riviste e le accademie offrivano alla società – con la loro revisione paritaria e con la loro capacità di costruire una reputazione pubblica – criteri di giudizio più efficaci di quelli nascosti nel chiuso della ricerca segreta.

La fonte principale di De Meulemeester è il lavoro di Paul A. David, che esplora il nesso fra le strutture istituzionali e gli incentivi alla perseguimento della conoscenza pura. Quando la ricerca è proprietaria e segreta, ne traggono vantaggio solo alcuni; quando è libera e aperta, aumenta il patrimonio di conoscenza della società e la possibilità collettiva di applicarla in modo produttivo. Da un punto di vista funzionale, una ricerca pubblica aiuta a convalidare più rapidamente i risultati teorici, riduce i doppioni, facilita le indagini complementari e beneficia l’indagine altrui. Nella prima età moderna, in Europa, il passaggio alla scienza aperta appare in contrasto con la finzione dell’homo oeconomicus e del suo interesse a massimizzare l’utile proprio e a trascurare quello sociale: merita, dunque, di essere spiegato.

Questa transizione, storicamente eccezionale, è frutto di una convergenza della diffusione della stampa, della complessità del nuovo linguaggio matematico, della pluralità dei centri di potere religioso e civile con la pratica pre-capitalistica del mecenatismo, a fini utilitari o ornamentali. Quando il linguaggio del sapere diventa complesso, i mecenati desiderosi di selezionare beneficiati che diano loro prestigio traggono vantaggio da un sistema di validazione collettiva, e analogamente gli scienziati si costruiscono – grazie alle accademie e alle loro reti di conoscenze – una reputazione pubblica, che li rende interessanti per i potenziali finanziatori. Nella seconda metà del XVII secolo, quando le monarchie assolute vollero soppiantare i nobili nella competizione per il prestigio, dovettero solo istituzionalizzare l’esistente, che si era rivelato capace di progresso, sebbene d’élite, sia per la pubblicazione, sia per la cooptazione accademica.

 A essere generosi si potrebbe concludere che questo sia un esito sociale sub-ottimale (o forse sub-sub-ottimale) – che assicura a chi riesce a entrare l’efficienza dello scambio di informazione scientifica come bene di club, ma perde la possibilità delle esternalità positive ancora più grandi che sarebbero derivate da una approssimazione maggiore a un regime scientificamente meritocratico e universalmente aperto nel perseguimento della conoscenza. (P. A. David, The historical origins of “open science”, p. 68)

3. Dall’Illuminismo a Humboldt: l’universitas scientiarum

Nel XVIII secolo si aggiunse alla concorrenza delle accademie nel campo della ricerca quella delle nuove scuole speciali, ispirate dall’interesse illuministico per un sapere applicabile, nella formazione professionale: la crisi delle università, che proponevano uno studium ormai ripetitivo e obsoleto, trovò soluzione solo all’inizio dell’Ottocento, con la riforma di Wilhelm von Humboldt.

Dopo la sconfitta di Jena (1806) i riformatori prussiani si resero conto dell’importanza del capitale umano per il progresso economico e tecnologico di una nazione e immaginarono un sistema che favorisse innovazione e progresso tramite una democratizzazione dell’accesso all’insegnamento, un incremento dell’istruzione generale e una convergenza culturale di élites e classi produttive. Il loro progetto, sebbene depotenziato per la caduta di Napoleone, ebbe come frutto un’universitas scientiarum che riuniva in sé la funzione dello studium e quella della ricerca, s’ispirava alla scienza aperta e s’incentrava sulla filosofia come facoltà “federativa”: il finanziamento statale e il posto fisso offrivano ai professori una prospettiva disinteressata e un orizzonte di ricerca ampio. Il successo del modello tedesco nella ricerca innovativa – negli anni compresi tra il 1901 e il 1933 la Germania ottenne 13 premi Nobel per la chimica, 10 per la fisica – lo rese oggetto d’imitazione in tutto il mondo.

4. La crisi del modello humboldtiano

Il sistema humboldtiano ha due limiti:

  • la combinazione di didattica e ricerca è stata pensata per un’università d‘élite e non di massa;
  • la protezione dal mondo esterno tende a creare un ambiente conservatore e socialmente inerte – come mostra l’acquiescenza della maggioranza dei docenti italiani e tedeschi di fronte alla soppressione fascista e nazista della libertà della ricerca.

Con la crisi economica del 1973, il modello humboldtiano incontra le prime difficoltà, mentre il finanziamento pubblico si riduce e le condizioni di lavoro dei professori si deteriorano Margaret Thatcher apre la strada a un orientamento favorevole al taglio dei fondi, alla concorrenza fra atenei, alla valutazione amministrativa della ricerca, alla licenziabilità dei professori, al perseguimento di obiettivi stabiliti dal governo e al finanziamento secondo la performance. Questi disegni rappresentano se stessi come ispirati a ideologie neoliberiste ma comportano pesantissimi interventi dello stato, che impone ai ricercatori obiettivi fissati dall’esterno e una gerarchia di accountability anch’essa esterna alla comunità scientifica. Il professore universitario diventa un lavoratore dipendente come gli altri, entro un’organizzazione che imita i valori di quella aziendale: non più la scienza disinteressata e libera, ma al vertice il desiderio di potere e di denaro e alla base l’ubbidienza. Lo smantellamento dello stato giuridico dei docenti e della struttura relativamente orizzontale delle università è il segno più chiaro di questo mutamento. La rivoluzione scientifica europea è fiorita in un mondo lontano dall’aziendalismo e dal burocratismo della fine del secolo scorso: cambiare così profondamente le sue condizioni istituzionali incide sulla qualità e sulla motivazioni della ricerca, a meno di non voler credere che la “cittadella della scienza” non abbia niente a che vedere con la città su cui insiste.

5. Oltre

Mentre la rete rende possibile ampliare il collegio invisibile dell’uso pubblico della ragione, anche la scienza inventata nell’età moderna sta vivendo una crisi che – economicamente – si manifesta nella forma di un aumento spropositato dei prezzi delle riviste a causa delle rendite da oligopolio lucrate da una manciata di multinazionali dell’editoria scientifica. Superati i vincoli tecnologici ed economici dell’età della stampa, il carattere sub-ottimale delle soluzioni moderne è ormai divenuto evidente: quanto pochi secoli fa appariva “scienza aperta” è ora oligopolio e oligarchia, in perfetta armonia con lo spirito gerarchico e burocratico dell’università neoliberista. Non a caso, un’operazione autoritaria come la valutazione amministrativa della ricerca italiana cerca d’imporre una lista esclusiva di riviste come marchio d’eccellenza anche fra discipline – come le scienze umane e sociali – di struttura e tradizione pluralista. Proprio quando la cittadella della scienza ha donato al mondo una tecnologia di disseminazione in grado di superare le limitazioni elitarie, la città che le ha dato origine sembra temere sempre di più la libertà dell’uso pubblico della ragione.

Di fronte a una rivoluzione mediatica, con un potere statale impaurito e impoverito, non è né utile né saggio rifugiarsi nella nostalgia e nel suo equivalente istituzionale, l’accademia dei morti viventi, o in un monopolio dello studium anch’esso esposto a mutamenti profondi.

Il gran signore che finanziava le arti e le scienze per amore della propria reputazione appartiene a un passato pre-capitalistico, che poco ha che fare con gli oligarchi del mondo contemporaneo. E’ però entrata nella sfera pubblica una moltitudine di piccoli signori che potrebbero e possono non solo offrire forme di mecenatismo diffuso, privato o statale, ma anche partecipare e contribuire alla discussione, come citizen scientists.

La scienza del passato ha giustificato se stessa rispondendo a due questioni fondamentali:

  • quella del valore della ricerca “inutile”: la ricerca ha senso in se stessa o serve solo a fini economici immediati? Dobbiamo orientare le nostre vite e le nostre società secondo l’utile o possiamo permetterci il lusso della filosofia, naturale e no?
  • quella dell’insegnamento: è trasmissione di informazioni e addestramento, oppure costruzione comunitaria di conoscenza e dunque parte integrante della ricerca? Se scegliamo la prima opzione, lo studium può concentrarsi in corsi di massa on-line; se adottiamo la seconda no, o non esclusivamente.

La prima questione ha ricevuto risposta più volte, nell’antichità, nel Medioevo e nella modernità. Quando, nel secolo scorso, si è tentato di separare la ricerca dal problema del suo valore, ne è risultata la proletarizzazione economica e spirituale dei ricercatori e lo smantellamento del modello istituzionale e culturale che aveva reso possibile la rivoluzione scientifica.

La seconda si è illustrata nell’esperienza delle accademie, a partire da quella di Platone. Entrambi le risposte, però, sono state d’élite, e come tali è stato ed è facile estinguerle: dovrebbero diventare risposte di massa. Questa è la sfida che oggi studium e ricerca si trovano variamente ad affrontare: il loro spirito sopravviverà all’economia aziendale soltanto se verrà fatto comprendere alla società nel suo complesso. Per questo la pubblicazione ad accesso aperto e la sperimentazione di nuove forme di revisione paritaria sono cause meritevoli di essere perseguite, indipendentemente dal destino dell’istituzione:

Un intervento in un forum che nel 2004 “Nature” aveva dedicato all’open access affermava che alla società non interessa la letteratura di ricerca, bensì la disponibilità sul mercato dei suoi risultati e che sarebbe economicamente insostenibile addossare l’onere del pagamento per la pubblicazione altrimenti che al lettore. Senza addentrarsi in un dibattito a cui l’esperienza degli anni successivi ha offerto ulteriore materia, rimane però interessante mettere in luce i presupposti taciti di queste tesi, che si vogliono fondate sul punto di vista spassionato dalla “triste scienza”:

  • la scienza è una specie di scatola nera o di stabilimento industriale chiuso che sforna “prodotti”, e non un processo cognitivo e sociale: al pubblico interessa solo consumare quanto gli è messo sul piatto, e non certo capire perché la pietanza è così e non altrimenti;
  • la pubblicazione scientifica può sostenersi solo nella forma di un procedimento industriale su larga scala, che richiede editori ben addentrati nello spirito del capitalismo.

Nell’età della stampa la pubblicazione scientifica aveva bisogno di un’organizzazione industriale. Ne ha ancora bisogno, nell’età della rete, quando una rivista riceve una quantità di manoscritti tale da non poter più essere gestita come attività collaterale da parte di un gruppo di studiosi. Quando ci sono riviste mainstream – riviste, cioè, che si trovano nella parte alta della curva che rappresenta una distribuzione a legge di potenza. Privilegiare riviste di questo tipo è stato per molto tempo inevitabile, per i limiti tecnici ed economici della stampa e per le dimensioni dei budget e degli scaffali delle biblioteche. Ma i core journals sono davvero indispensabili perché possa darsi una scienza degna di questo nome?

Gli umanisti sono abituati al pluralismo delle scuole, adagiate nelle code lunghe delle distribuzioni a legge di potenza e ai processi lenti, dolorosi ed erratici con i quali un autore si trasforma in un classico: per loro è facile rispondere di no. Ma una risposta similmente negativa viene anche da chi si occupa con consapevolezza di comunicazione della scienza: il suo flusso, scriveva Pietro Greco nel 2005, ha gli strumenti per diventare più simile a quello della laguna di Venezia che a quello del Rio delle Amazzoni. Nel fiume l’acqua del sapere scende dall’alto verso il basso, dalle vette delle Ande all’oceano dell’ignoranza; in laguna circola illuministicamente allo stesso livello per una miriade di canali e canaletti, di isole e isolette, di ponti e ponticelli. Ci sono, certo, isole e ponti e canali più importanti, o più piccoli e periferici, ma questo groviglio, questa complicazione è la vita del sapere quando è libero, in una biodiversità capace di ospitare una moltitudine d’interessi e di modi di fare ricerca, compresi quelli che, secondo alcuni, non dovrebbero esistere affatto.

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Jean-Luc De Meulemeester (2012). Quels modèles d’université pour quel type de motivation des acteurs ? Une vue évolutionniste Pyramides (21)

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