Italia: le occasioni perdute della scienza aperta

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L'occasione L’articolo che Paola Galimberti offre alla revisione paritaria aperta parla di occasioni perdute, vale a dire di alluvioni di parole a cui raramente sono seguiti fatti.

A parole ci sono stati molti impegni declaratori, alcuni dei quali precoci come l’adesione del 2004 alla dichiarazione di Berlino sotto il patrocinio della Crui, altri tardi e parziali, come l’anomala legge del 2013 sull’accesso aperto e un piano nazionale per la scienza aperta privo di finanziamenti e infrastrutture di sostegno.

Quando poi si sono avuti strumenti come gli archivi IRIS, sono mancate politiche istituzionali e di formazione sistematiche e coerenti. In più la valutazione di stato della ricerca  dal 2012 impone un sistema basato sul publish or perish e sulla collocazione editoriale – sistema  che la firma di COARA da parte dell’ANVUR non ha, nella sostanza, cambiato.

È possibile render pubblica la scienza in modo non commerciale con il Diamond Open Access. Iniziative di questo tipo fioriscono anche in Italia, ma dal basso, grazie al volontariato di docenti, istituzioni e university press: in alto pochissimi, a differenza che all’estero, si sognano di sostenerle e valorizzarle. L’unico accesso aperto promosso dall’alto è quello costosissimo dei cosiddetti accordi trasformativi, la cui natura conservativa è ormai ampiamente dimostrata.

Paola Galimberti conclude, ancorché provvisoriamente, che

La pratica della scienza aperta richiede tempo e competenze specifiche, scelte consapevoli e supporto adeguato. Se i ricercatori non riescono a vedere il vantaggio di questa gestione onerosa (ad esempio in termini di riconoscimento), se le istituzioni non mettono loro a disposizione competenze e strumenti, è difficile che ci si applichino e vi aderiscano.

Nel nostro Paese le molte premesse per uno sviluppo normalizzato della scienza aperta ci sono state e ci sono ancora. Si tratta solo di implementarle in maniera consapevole, e il National chapter di COARA potrebbe forse essere un primo passo.

Dopo vent’anni, però, dovremmo chiederci se la questione della scienza aperta italiana sia riducibile a  un problema amministrativo che istituzioni e funzionari più consapevoli e illuminati saprebbero risolvere, e considerare l’ipotesi che il suo seme non abbia attecchito semplicemente perché fin dall’inizio è stato piantato solo un simulacro di pietra da esibire in eventi cerimoniali e declaratori. Come mai l’unico accesso aperto normalizzato è quello, programmaticmente conservatore, di contratti “trasformativi” solo in senso ironico? Come mai istituzioni che per la scienza aperta non sono andate molto oltre le dichiarazioni hanno invece collaborato con zelo a una riforma del sistema che ha condotto a una compressione selettiva e cumulativa degli atenei italiani, a una crescente e insopportabile precarizzazione e gerarchizzazione dei ruoli accademici e a una valutazione di stato centralizzata e ferocemente bibliometrica – a dispetto dell’articolo 33 della costituzione?

La presenza di iniziative che nascono dal basso, da pochi studiosi e istituzioni, mostra che, perfino sotto una valutazione di stato pervasiva e autoritaria, chi è strutturato nell’università italiana e vuole fare scienza aperta la fa, pur su scala artigianale e rinunciando a ciò che normalmente passa per potere e prestigio. Galileo Galilei seppe cogliere l’occasione che la stampa gli offriva per pubblicare il suo Sidereus Nuncius senza bisogno, e anzi contro, il Sant’Uffizio. E già alla fine dell’ultimo decennio del secolo scorso il World Wide Web, il software libero e le licenze Creative Commons offrivano l’occasione di aprire la scienza a chi avesse voluto fare uso pubblico della ragione: e ci fu chi fu capace di coglierla, senza bisogno di corsi di formazione ad hoc.

La via amministrativa alla scienza aperta con le sue dichiarazioni, pianificazioni, incentivazioni e monitoraggi sembra una scorciatoia inevitabile in un’università burocratizzata come quella, prima che neoliberale, moderna. E lo è: ma porta da tutt’altra parte. Gli amministratori suddividono arbitrariamente la ricerca in elementi discreti: “prodotti”, dati, pubblicazioni, sedi editoriali, impatti calcolabili in termini di citazioni su riviste o anche su media sociali. E a questi elementi associano castighi e premi, necessariamente rivolti a “masse uniformi e obbligate”. La scienza (aperta), invece, è difficile da tradurre in adempimenti, perché, avendo a che fare con problemi ancora non del tutto risolti, non solo è metodo e processo, bensì metodo e processo esposti essi stessi alla discussione. La comunità scientifica, quando l’interesse è quello della scienza, può permettersi di essere anarchica. Al matematico russo Grigori Perelman, per far riconoscere un avanzamento di grande importanza,  bastò l’ArXiv e una comunità scientifica attenta.

Wilhelm von Humboldt, in un frammento incompiuto e per molti decenni abbandonato in un archivio, si era chiesto come fosse possibile inserire l’anarchia dei problemi ancora non del tutto risolti negli istituti di studi superiori, e aveva disegnato un progetto minimalista, isolato e fragile in un mondo che, dopo la Restaurazione, sarebbe divenuto molto diverso da quello immaginato dai riformatori prussiani. Le strutture italiane attuali, altrimenti impiegatizie, riposano su un sistema iperburocratizzato di premi e castighi, che difficilmente può ospitare gli spazi negativi della discussione della scienza (aperta) – anche se la relativa retorica rimane utile per una patina di legittimazione in continuità col passato. Perché mai convertirsi davvero alla scienza (aperta)? Perché mai tentare un simile salto nel vuoto? Perché allevare ricercatori amministrativamente e spiritualmente liberi dalle catene bibliometriche e dalla valutazione di stato, e dunque in grado di rifiutarsi di privatizzare il loro lavoro in brevetti, o di asservire perfino la ricerca di base a scopi commerciali1 o militari?

Come l’Occasione di Machiavelli, anche i ricercatori italiani tengono il piè sopra una rota: ma la loro non è la ruota del kairos bensì quella in cui certi piccoli animali domestici vengono fatti esercitare da chi li ha messi in gabbia: non porta da nessuna parte ma conforta, trasferendo ad altri il compito di stabilire il senso di tutto il loro girare.

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Paola Galimberti, I dati sulla ricerca: un problema aperto

Appena uscito su Roars, l”articolo di Paola Galimberti tratta di una questione solo in apparenza burocratica e trascurabile per chi discetta di massimi sistemi: come facciamo a sapere che cosa producono i ricercatori che lavorano nell”università italiana? Come facciamo a sapere quanto e come si citano e vengono citati?

Questi dati sono reperibili da due categorie di fonti:

– enti pubblici, che usano sistemi di archiviazione diversi e non necessariamente interoperabili, e che non necessariamente rendono pubblico quanto possiedono;

– enti privati, quali Thomson-Reuters (Wos), che raccolgono e vendono dati sulla base dei loro interessi di mercato.

La valutazione della ricerca vorrebbe dipendere almeno in parte da indici bibliometrici, cioè da indicatori di popolarità della produzione di ciascun ricercatore da misurarsi con le citazioni ricevute in una platea predeterminata di testi. Il fatto che i dati che dovrebbe usare siano pubblici ma nascosti, o privati e nascosti, o pubblici ma non interoperabili,  parziali, e ottenibili – in tempi di crisi e di tagli – per lo più a pagamento mette seriamente a rischio l”attendibilità di questo esercizio.

Una politica coerente a favore della pubblicazione ad accesso aperto, perseguita dalle università, favorita dal ministero e condivisa da ricercatori che finalmente si rendessero conto che il modo stesso in cui disseminano i loro testi è parte dei massimi sistemi di cui si occupano avrebbe potuto rendere l”esercizio più facile, più economico, più trasparente e meno esposto al rischio di ridursi a un grado di appello del tribunale di Kafka.

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