Emanuele Pinelli, Charles Lemonnier dall’ordine cosmico all’ordine europeo

Se abbiamo parlato con chiarezza, il lettore avrà capito che il principio sul quale si fonda la creazione degli Stati Uniti d’Europa, ossia l’istituzione giuridica di una federazione di popoli, è lo stesso principio della Repubblica, il quale non è altro che il principio stesso della morale. Quindi non possiamo, nelle nostre case e nelle nostre scuole, dare una buona educazione ai nostri figli senza che gli insegniamo, implicitamente, gli Stati Uniti d’Europa. Non possiamo essere giusti verso i nostri operai, verso i nostri capi, verso i nostri padroni, verso i nostri servi, senza che facciamo germogliare gli Stati Uniti d’Europa.

Chi studia Kant conosce il pacifista e pioniere del federalismo europeo Charles Lemonnier (1806-1891) anche per la sua interpretazione del controverso secondo articolo definitivo della Pace perpetua, di cui è stato presentatore e traduttore. L’articolo di Emanuele Pinelli, reso disponibile dall’archivio Giuliano Marini, esplora le radici filosofiche del suo ideale di Europa, molto diverso, ormai, dall’Europa di cui oggi facciamo esperienza.

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Platone: Ippia minore

tetradrakmaton Una nuova guida ipertestuale alla lettura dell’Ippia minore di Platone, composta per gli studenti dell’università di Pisa, è ora a disposizione di tutti qui.

Il dialogo, solo in apparenza enigmatico, porta alle estreme conseguenze, per l’uso di chi pretende che la formazione superiore sia soltanto “professionalizzante”, gli esiti di un ideale  di eccellenza costruito esclusivamente sul modello della tecnica.

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RFC: Brunella Casalini, Care e riproduzione sociale. Il rimosso della politica e dell’economia

Brunella Casalini ha depositato sull’archivio Marini l’articolo Care e riproduzione sociale. Il rimosso della politica e dell’economia, destinato ad essere incluso in una raccolta di saggi ancora in fieri.  Sarà grata a chi troverà il tempo di leggerlo e, soprattutto, di criticarlo e commentarlo approfittando dello spazio dedicato qui sotto.

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ResearchGate e Academia.edu non sono archivi ad accesso aperto

L’Office of Scholarly Communication dell’University of California ha sentito la necessità di pubblicare un articolo – A social networking site is not an open access repository – per spiegare ai docenti locali le differenze fra un sito di social networking e un archivio ad accesso aperto. Anche in Italia un numero non irrilevante di studiosi sembra assimilare media sociali proprietari specializzati come ResearchGate e Academia.edu agli archivi aperti istituzionali o disciplinari.  Questo errore tassonomico  può avere conseguenze gravi sia per la conservazione a lungo termine dei loro testi, sia per la possibilità di usarli come oggetti di ricerca.

Academia.edu e Research.Gate sono media sociali proprietari, gestiti da aziende private con fini di lucro. Offrono ai ricercatori la possibilità di caricare dei testi e di connettersi a colleghi con interessi affini: sono, in altre parole, una specie di Facebook per accademici – esposti, dunque, a critiche simili a quelle che si è attirato Facebook.

Gli archivi ad accesso aperto istituzionali o disciplinari sono invece normalmente gestiti o da biblioteche universitarie come servizio d’ateneo, o da consorzi di enti di ricerca. La loro proprietà, dunque, è tipicamente pubblica.

I bibliotecari californiani riassumono le differenze fra gli archivi ad accesso aperto e  le piattaforme sociali proprietarie in un efficace quadro sinottico, riadattato qui sotto per il lettore italiano:

Quadro sinottico

  1. Le piattaforme proprietarie non sono né aperte, né interoperabili: i loro utenti non hanno il permesso di esportare i propri dati e riusarli altrove, né, a maggior ragione, l’hanno le biblioteche. Chi vuole esportare in un altro archivio un suo articolo già caricato su una di queste piattaforme deve ridepositarlo a mano; chi vuole scaricare un testo da Academia.edu deve registrarsi come utente e fare il login. Gli archivi aperti, di contro, offrono dati e metadati aperti e riusabili, per esempio tramite il protocollo OAI-PMH.
  2. Gli archivi istituzionali assicurano una conservazione a lungo termine perché appartengono a istituzioni – le università – antiche e durevoli e sono amministrati da bibliotecari specializzati. Le piattaforme proprietarie appartengono ad aziende private, che domani possono fallire o convertirsi in qualcos’altro – tanto è vero che nei loro termini di servizio c’è scritto che possono interromperlo in qualsiasi momento.
  3. Affidare i propri documenti a piattaforme proprietarie è come scrivere nell’acqua. Il loro fine è il lucro: se l’investimento iniziale non risultasse redditizio scomparirebbero così come sono apparse.
  4. Come Facebook, le piattaforme proprietarie tendono a impadronirsi dei dati e dei contatti personali dei ricercatori, per incoraggiarli, anche aggressivamente, ad attirare amici e colleghi, e tendono a tormentarli con molti messaggi e-mail, in qualche caso al limite dello spam. Chi frequenta i media sociali proprietari va in cerca di connessioni: ma ci sono ricercatori che si sono convinti che i vantaggi materiali di queste piattaforme non compensino i danni morali che creano e c’è anche chi sta tentando di offrire a questa esigenza una risposta che non produca forme di feudalesimo digitale.
  5. Clausole poco note: solo a titolo di esempio, chi è consapevole  che depositando i propri testi in Academia.edu la autorizza a produrre opere da essi derivate?

L’articolo originale, molto più ricco di dettagli, merita di essere letto nella sua interezza – così come le considerazioni di Paola Galimberti su Roars. Come scrive Kathleen Fitzpatrick in  Academia, Not Edu, dobbiamo renderci conto che questi siti – esattamente come Facebook – non hanno lo scopo primario di facilitare la comunicazione fra studiosi, bensì quello di monetizzarla a proprio vantaggio. Usarli con la speranza  che offrano una pubblicità in grado di superare i tradizionali oligopoli editoriali – che traggono anch’essi diversamente profitto dalle nostre comunicazioni – rischierebbe di farci cadere in un’altra, più pervasiva concentrazione. Abbiamo più che mai bisogno di un‘infrastruttura di ricerca che connetta noi stessi e i nostri dati senza consegnarci alla servitù di interessi privati vecchi e nuovi.

Nel 2013 Evgeny Morozov immaginava uno scenario nel quale un’altra, ancorché un po’ più aperta, piattaforma proprietaria – Google Scholar – venisse chiusa perché poco redditizia e chiedeva:

Perché non ci stiamo preparando a questa eventualità costruendo una robusta infrastruttura pubblica? Non suona ridicolo che l’Europa sia in grado di realizzare un progetto come il CERN ma sembri incapace di produrre un servizio on-line per registrare e seguire gli articoli sul CERN?

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Roberto Gatti, Da Machiavelli a Rousseau: profili di filosofia politica

Copertina volume MethexisCominciamo il 2016 con un nuovo volume della nostra collana ad accesso aperto Methexis, Da Machiavelli a Rousseau: profili di filosofia politica, da oggi liberamente disponibile presso l’archivio Marini.

Si tratta di un testo che  – nello spirito di Pierre Hadot ma, ancor prima, di Nicola Abbagnano – rifiuta di studiare la filosofia come un succedersi di «dottrine» o di «momenti ideali», preferendo interpretarla come esperienza di «uomini solidalmente legati dalla comune ricerca» in un rapporto «di libera interdipendenza». Il confronto con i classici della modernità serve, qui, a qualcosa di più serio di produrre dottrine e costruire carriere: «misurarsi – al cospetto di regimi democratici in cui domina la silente prepotenza degli apparati o l’accattivante chiacchiera del demagogo di turno –  col problema del rapporto tra parola, verità e democrazia».

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A pledge to be open: l’impegno pubblico di Erin McKiernan

open access logo Ecco una traduzione del Pledge to be open di Erin McKiernan, nella sua versione semplificata. Avevamo già pubblicato qualcosa di simile, ma più lungo e didattico: questo testo, nella sua brevità, è molto più incisivo e si presta bene a un uso interdisciplinare.

L’ultimo punto del giuramento merita di essere commentato: in questo momento un ricercatore non può limitarsi a fare il suo lavoro e a licenziarlo per la “pubblicazione”, ma deve anche esprimersi con franchezza a favore dell’accesso aperto. Infatti, nella neolingua dell’università-azienda, la “pubblicazione” ha ormai ben poco a che vedere con la pubblicità, e molto invece con la carriera, o con la sopravvivenza, in un sistema pervasivo di controllo burocratico. Chi pubblica per fare uso pubblico della ragione, cioè per parlare con la società dei cittadini del mondo, ha il dovere di chiarire gli equivoci: il filosofo, naturale e no, rende i suoi testi accessibili perché parla all’umanità; l'”addetto alla ricerca” – come spregiativamente viene chiamato nei documenti ministeriali – “pubblica” in primo luogo per i burocrati che lo valutano, cioè non pubblica affatto. Chi è filosofo, naturale o no, deve far notare la differenza.

Mi impegno a:

  1. prestare la mia opera come redattore o come revisore solo per riviste ad accesso aperto
  2. pubblicare solo in riviste ad accesso aperto
  3. condividere in modo aperto i miei manoscritti di lavoro
  4. condividere in modo aperto il mio codice, quando possibile
  5. condividere in modo aperto i miei appunti, quando possibile
  6. chiedere alle associazioni professionali e scientifiche di cui faccio parte di sostenere l’accesso aperto
  7. parlare con franchezza a favore dell’accesso aperto.
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