Articoli e recensioni di Roberta Cavicchioli
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Si tratta di un articolo uscito nel 1997 presso gli “Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia”, pp. 273-327, ora liberamente disponibile perché depositato nell’archivio istituzionale dell’Università di Milano. Gli “Annali”, infatti, almeno nel momento in cui scrivo, risultano non accessibili in rete. Questo è un danno grave per la disseminazione, la discussione e – in ultima analisi – l’effettiva valutazione dell’eccellenza della ricerca umanistica italiana, a cui l’autoarchiviazione da parte degli autori e le politiche a favore dell’accesso aperto imposte da alcuni atenei possono rimediare solo molto parzialmente.
Il Protagora ha sconcertato molti interpreti, perché sembra lasciare l’immagine di un Socrate edonista, che indulge ad argomenti francamente sofistici per avere la meglio sul suo interlocutore. L’articolo di Andrea Capra, riannodando i suoi temi attraverso operazioni di contestualizzazione sia interne al corpus platonico, sia esterne, mostra che è possibile dargli un senso filosofico coerente.
Socrate ha di fronte un interlocutore che rifiuta esplicitamente il modello della techne perché pensa che il sapere etico-politico dipenda dall’opinione comune e sia di natura retorica. Questo gli rende difficile usare la logica della definizione tassonomica, perché Protagora non ne riconosce neppure le premesse, e gli impone un cambio di strategia.
Il combinato disposto con il Gorgia mostrerà poi che questa tecnica della misura, che si occupa del benessere e della sopravvivenza fisica. è soltanto un’arte umile, e non può ambire alla formazione della perfezione umana di cui Protagora si professava maestro, Ma la tesi edonista, da sola, è già sufficiente a spezzare l’incanto della retorica prendendola, per così dire, in parola.
Questo ipertesto dedicato al Protagora perviene a una conclusione molto simile, valendosi però di un percorso in parte diverso, perché più dipendente dal Menone e dal Fedro. Il fatto che per raggiungere una stessa meta si possano seguire itinerari differenti contribuisce a rendere verosimile l’ipotesi di una struttura ipertestuale del corpus platonico nel suo complesso.
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L’ipertesto dedicato al Protagora di Platone è stato finalmente concluso. Può essere consultato a partire da questo indirizzo.
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Il 27 luglio 2011 il senato accademico ha approvato il nuovo statuto dell’università di Pisa. Il suo testo è visibile a questo indirizzo.
Lo statuto recepisce il principio dell’accesso aperto all’articolo 4, comma 2, dedicato alla ricerca, e all’articolo 38, comma 1, dedicato alle biblioteche. A onore e merito della commissione statuto della mia università, posso testimoniare che l’intero processo di elaborazione, che nello spirito della legge Gelmini avrebbe dovuto essere oligarchico, è stato invece pubblico e trasparente.
L’accesso aperto è inoltre riconosciuto e promosso nell’articolo 10 del nuovo codice etico, dedicato alla rilevanza sociale della ricerca e alla libertà d’accesso alla letteratura scientifica. Eccolo qui:
1. L’Università di Pisa, in considerazione della rilevanza sociale della ricerca scientifica, ritiene che i risultati delle ricerche condotte debbano contribuire allo sviluppo e al benessere della comunità intera. Pertanto, i membri della comunità universitaria si impegnano a garantire la massima condivisione possibile dei risultati della ricerca svolta in ambito universitario e a non servirsene per fini privati.
2. L’Università di Pisa è impegnata nella promozione del paradigma dell’accesso aperto mediante pubblicazioni, comunicazioni, convegni, attività didattiche ed ogni altro mezzo ritenuto idoneo a tal fine.
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Un utente di nome Gregory Maxwell ha condiviso l’archivio storico anteriore al 1923 delle Philosophical Transactions of the Royal Society – la madre di tutte le riviste scientifiche – violando consapevolmente le condizioni d’uso di Jstor. La giustificazione del suo gesto, molto interessante, può essere letta in traduzione italiana qui.
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L’articolo di Alessandra La Rosa, depositato nell’Archivio Marini, ricostruisce il contributo del giurista Léon Duguit al dibattito che a cavallo tra XIX e XX secolo si sviluppò in Francia sul tema del rapporto tra società e stato. Il contesto storico è quello della terza repubblica, la questione di fondo il tentativo di legittimare il superamento del modello di statualità sancito dalla rivoluzione dell’89 e incentrato sull’asse duale stato-cittadino.
La Rosa mette in luce la tendenziale convergenza tra l’ideologia repubblicana – in particolare nella versione sostenuta da radicali e socialisti riformisti – e la corrente intellettuale riconducibile alla sociologia positivista, i cui influssi sul pensiero di Duguit sono evidenti. La prima puntava ad abbandonare la concezione dello stato liberale classico, in nome di un Etat collaboration votato a realizzare il principio del servizio pubblico attraverso l’estensione dei propri compiti: è a partire degli inizi del 900 che si intensificarono gli interventi relativi a istruzione, assistenza, previdenza, regolazione dei rapporti tra capitale e lavoro. La seconda fu fonte di categorie teoriche al servizio di una visione organica della società, alternativa tanto all’individualismo liberale quanto al pensiero marxista. Oltre a Durkheim, con la divisione del lavoro e l’idea funzionalista dell’interdipendenza sociale, La Rosa richiama il “pensiero solidarista” di figure come Bourgeois e Bouglé. La solidarité positivista, che permea anche le idee giuridiche di Duguit, individua nella dipendenza reciproca tra gli attori sociali un prius rispetto alla dimensione dell’autonomia individuale, anche se non è pacifico se i doveri impliciti nei vincoli relazionali corrispondano a imperativi morali da realizzare o piuttosto a trame funzionali che si sviluppano deterministicamente prescindendo dalle volontà dei singoli. Ad ogni modo, il solidarisme assurse a strumento ideologico delle terza repubblica, “voie moyenne” tra individualismo e collettivismo, ponte tra liberalismo e socialismo, architrave di un progetto politico volto ad armonizzare i conflitti, e non a caso inviso sia alla destra nazionalista sia alla sinistra più intransigente.
Il contributo specifico di Duguit si colloca nell’ambito della dottrina costituzionale e di diritto pubblico. Per demolire l’idea di stato moderno partorita dall’89, Duiguit aggredisce due pilastri: il contrattualismo di origine giusnaturalista e il concetto di sovranità. Entrambi, facce della stessa medaglia, rimanderebbero all’astrattezza metafisica della cultura illuministica, che assegna all’individuo presunte prerogative giuridiche sotto forma di diritti soggettivi e investe lo stato della titolarità del potere sovrano in modo esclusivo. Il grimaldello per rompere la polarità individuo-stato è il concetto di diritto oggettivo, che sposta il baricentro teorico nella società, trama originaria di rapporti e funzioni, al di fuori della quale gli individui non sarebbero nulla. Nell’accezione proposta da Duguit, il diritto oggettivo altro non è se non l’insieme di regole immanenti al corpo sociale, e corrisponde ai legami che in esso si determinano. Il modo in cui viene inteso il diritto oggettivo ha una duplice conseguenza. Per quanto riguarda i diritti individuali, attribuzione, esercizio e limiti non possono essere identificati a priori, ma devono soggiacere al criterio della solidarietà sociale. È significativo che Duguit parli di “libertà funzione”, per sottolinearne la dipendenza dagli obblighi di integrazione sociale, che dovrebbero orientare gli stessi contenuti delle leggi positive. Stesso discorso vale per il diritto di proprietà, che andrebbe subordinato al compimento di una determinata funzione sociale e rispondere al principio di solidarietà. Dal lato della sovranità statale, l’impostazione di Duguit implica che lo Stato, come scrive La Rosa, “nell’agire per la società può operare solo tenendo conto del presupposto del diritto sociale” (p. 23). Il pensiero di Duguit approda a lidi corporativi – di questo tema La Rosa si è occupata altrove – avanzando la proposta di trasformazione del Senato in Camera delle rappresentanze professionali. Si tratta dell’esito conseguente del suo “pluralismo giuridico”, che mira ad estendere sul piano istituzionale il peso di quei corpi intermedi – associazioni, sindacati – i quali proprio tra otto e novecento divennero nuovi protagonisti della vita sociale ed economica. Un esito che rinvia al più ampio dibattito, non solo francese, collegato al tentativo – i cui frutti saranno controversi – di individuare una possibile “terza via” tra capitalismo e comunismo.
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