Marco Calamari, La scomparsa della rete

Chi era in rete prima che fosse invasa dalle moltitudini – scrive Marco Calamari su “Punto Informatico” – temeva principalmente la sua occupazione “militare” da parte degli stati,  tramite una censura e un controllo capillare. Non è andata esattamente così.

L’”economia del dono“, per la sua eccellenza tecnica, ha retto alla pressione delle masse e del commercio elettronico. Poi, però,

l’apparizione di entità della Rete di dimensioni tali da renderle quasi onnipotenti, come Google, Twitter e Facebook, o di ibridi Mondo-Rete come Apple ed Amazon, ha segnato un altro punto di svolta, in questo caso totalmente negativo. Una frazione maggioritaria della popolazione della Rete, che rappresenta ormai una frazione consistente della popolazione mondiale, ha iniziato a riversare sé stessa nella Rete, ma ha purtroppo scelto la strada sbagliata. Invece di diffondere in Rete il meglio di sé stessi, cose accuratamente realizzate e curate, possibilmente intelligenti o geniali, e magari fare questo con una certa dose di umiltà, vi ha riversato la propria vita e le proprie relazioni, permettendo ai pesi massimi della Rete di esercitare silenziosamente il loro potere per accumulare ricchezze e istituire un tecnocontrollo pervasivo.

Se la connettività “sparisce” negli oggetti e diventa un orizzonte invisibile, anziché uno spazio di partecipazione che dipende dalle nostre competenze e dalle nostre scelte, anche i cittadini della rete tendono a scomparire a favore di “una vastissima maggioranza di plebei sazi di quotidiano e privi di domande ed aspirazioni, unicamente concentrati sulla promozione del proprio sé come brand personale.” Al di fuori della plebe rimangono due minoranze: “quella dei potenti”, di “coloro che sanno, decidono cosa fanno gli oggetti, li progettano, e li danno da realizzare ad una parte della plebe (oggi in oriente, ma domani chissà) che in condizioni di sfruttamento produce cose che non comprende e che probabilmente non può permettersi”, e “quella dei ribelli, dell’underground digitale” – “ribelli certo, geniali forse, ma ghettizzati e autoghettizzati.”

Mi sono trovata a usare una metafora simile – la degradazione dei ricercatori da cittadini della repubblica della scienza, a proletariato, a plebe – argomentando a favore di un principio elementare come quello della pubblicazione ad accesso aperto: se la ricerca si fonda sulla libertà dell’uso pubblico della ragione, non ha senso imporle artificialmente una discussione ad accesso riservato, dietro barriere economiche ormai tecnologicamente obsolete, a esclusivo vantaggio degli oligopoli dell’editoria scientifica. Eppure, nonostante l’impegno delle istituzioni, buona parte dei ricercatori continua a lavorare gratis per i latifondisti della conoscenza e a misurare se stessi su parametri di cui non hanno controllo – dagli indici bibliometrici a qualche altra più impalpabile rete di rapporti personali, proprio come le twitstar si misurano sul Klout. Come mai gli studiosi – lo notava Robert Darnton qualche giorno fa – non si rendono conto del danno che arrecano alla repubblica delle lettere?

La rete ha fatto uscire l’etica hacker dall’Accademia, ha offerto virtù e conoscenza a chi le cercava, ma non ci ha liberato dall‘idiozia di non avere altro orizzonte al di là del proprio naso e del proprio marchio personale – da una libertà dei moderni interamente chiusa nello spazio angusto dell’individualità. Ma perché uno strumento che era stato pensato per resistere all’apocalisse – per sopravvivere, senza un’autorità centrale, alla fine di ogni sistema di controllo – si può così facilmente usare per chiudere l’orizzonte del mondo?

La libertà dei moderni, che ci ha abituato a pensare allo stato come unico nemico, ci ha indotto ad affinare gli strumenti per proteggere i privati dallo stato. Quanto al problema della protezione dei privati dai privati, la nostra esperienza storica lo associa a un mondo prepolitico, e  lo vede risolto nell’istituzione dello stato. Ora, però, ci stiamo muovendo in un ambiente post-politico, in cui il potere dei privati sui privati e sugli stati riesce a essere tanto pervasivo quanto implicito, e in cui i più ancora non si rendono conto che le leggi del codice e dell’architettura sono tanto importanti quanto quelle del diritto.

Di proletarizzazione dei ricercatori aveva parlato Max Weber, nel secondo decennio del secolo scorso: il professore, inserito come dipendente in un sistema burocratico, è privato della proprietà del suo strumento di lavoro – la biblioteca – proprio come gli operai sono separati dai mezzi di produzione. Se vediamo la rete come una macchina per la conoscenza, soltanto un passo piccolissimo separa il ricercatore proletarizzato, al servizio di un sistema il cui senso è stabilito da una struttura aliena, dal plebeo inconsapevole che regala se stesso a Facebook perché altri ne traggano profitto.

Il testo in cui Weber menzionò questo tema, La scienza come professione, è più noto per la sua “difesa – spiegava Norberto Bobbio – della scienza disinteressata [che] va di pari passo con una concezione fondamentalmente irrazionalistica dell’universo etico“, per la quale lo scienziato deve custodire “l’unica e limitata cittadella della ragione dagli assalti della non-ragione che si esprime nei giudizi di valore”:

non saranno mai ricordate abbastanza le accorate, severe, e  quanto preveggenti!, parole che Weber pronunciò alla fine del 1918, al momento della sconfitta della Germania, nella conferenza alla Libera lega studentesca, sulla scienza come professione e come vocazione (Wissenschaft als Beruf), quando disse che nella scienza ha una sua personalità e una sua dignità soltanto colui che ‟serve puramente il proprio oggetto”, esaltò ‟l’intima dedizione al proprio compito”, e domandandosi perché il professore non debba dare consigli pratici intorno al modo di agire nella società, rispose: ‟Perché la cattedra non è per i profeti e per i demagoghi”

Che, però, il senso del sapere sia solo interno, a uso dei professori, entro un universo relativistico che ha rinunciato all’intellettualismo etico e all’orizzonte di una verità possibile,  non induce, all’esterno, a smettere di prendere decisioni, e di farlo secondo valori.  Difendere la cittadella della scienza in questi termini significa lasciare ad altri – al tecnocontrollo burocratico o capitalistico – la scelta di che cosa sia meritevole essere studiato. Togliere dalla cattedra i profeti e i demagoghi, per sostituirli con i proletari e i plebei, sulla cattedra e altrove, finché – con le parole di Weber –  “non sia stato consumato l’ultimo quintale di carbon fossile“, cioè fino al crollo del sistema e alla sua apocalisse.

Siamo di fronte a una questione non soltanto tecnica, ma culturale. Per smettere di essere idioti dovremmo imparare a sentirci a un tempo ingegneri e filosofi, e scienziati, profeti e demagoghi – dovremmo imparare a riflettere sul senso non specialistico di quanto facciamo e sul valore dell’uso pubblico della ragione e dei suoi strumenti. Soltanto vent’anni fa, prima della rete, non mi sarebbe venuto in mente di leggere un articolo scritto da un ingegnere su una rivista di informatica, né avrei pensato di spendere del tempo a segnalarlo e a commentarlo per dare a Cassandra una  possibilità in più. 

Tags:

Accessi: 774

Paola Galimberti, I dati sulla ricerca: un problema aperto

Appena uscito su Roars, l”articolo di Paola Galimberti tratta di una questione solo in apparenza burocratica e trascurabile per chi discetta di massimi sistemi: come facciamo a sapere che cosa producono i ricercatori che lavorano nell”università italiana? Come facciamo a sapere quanto e come si citano e vengono citati?

Questi dati sono reperibili da due categorie di fonti:

– enti pubblici, che usano sistemi di archiviazione diversi e non necessariamente interoperabili, e che non necessariamente rendono pubblico quanto possiedono;

– enti privati, quali Thomson-Reuters (Wos), che raccolgono e vendono dati sulla base dei loro interessi di mercato.

La valutazione della ricerca vorrebbe dipendere almeno in parte da indici bibliometrici, cioè da indicatori di popolarità della produzione di ciascun ricercatore da misurarsi con le citazioni ricevute in una platea predeterminata di testi. Il fatto che i dati che dovrebbe usare siano pubblici ma nascosti, o privati e nascosti, o pubblici ma non interoperabili,  parziali, e ottenibili – in tempi di crisi e di tagli – per lo più a pagamento mette seriamente a rischio l”attendibilità di questo esercizio.

Una politica coerente a favore della pubblicazione ad accesso aperto, perseguita dalle università, favorita dal ministero e condivisa da ricercatori che finalmente si rendessero conto che il modo stesso in cui disseminano i loro testi è parte dei massimi sistemi di cui si occupano avrebbe potuto rendere l”esercizio più facile, più economico, più trasparente e meno esposto al rischio di ridursi a un grado di appello del tribunale di Kafka.

Tags:

Accessi: 701

Accesso chiuso e mistificazione intellettuale: il caso di Diederik Stapel

Com’è possibile costruirsi una brillante carriera accademica sulla falsificazione dei dati sperimentali? La vicenda dello psicologo sociale olandese Diederik Stapel dà risposte istruttive. Ne parlo qui,  perché buona parte del materiale che ho dovuto usare viene da riviste ad accesso chiuso, fuori dalla competenza del  btfp.

Tags:

Accessi: 603

Diaspora

Il “Bollettino telematico di filosofia politica” sta sperimentando Diaspora, alternativa aperta a Facebook, al quale, volutamente, non ospitiamo link.  Diaspora è ancora alla versione Alpha, ma permette di discutere e condividere materiale selezionando le proprie cerchie, lascia il copyright dei dati agli utenti e, soprattutto, è un sistema distribuito e non centralizzato.

Chi vuole seguirci su Diaspora può usare questo indirizzo: https://diasp.eu/people/19515.

Tags:

Accessi: 391

Dmytri Kleiner, Manifesto telecomunista

Liberamente scaricabile presso telekommunisten.net, The Telekommunist Manifesto è un tentativo di riformulare il Manifesto del partito comunista  per l’età della rete.

Chi lavora in rete – ha sostenuto Kevin Kelly – adotta modi di produzione sociali e paritari, al di là dello stato e del mercato, che sembrano approssimarsi al socialismo. Dmytri Kleiner, sviluppatore e attivista, trasforma quest’intuizione diffusa in un programma politico ed economico complessivo.

Il sistema capitalistico corrisponde a un’architettura di rete di tipo client-server, il telecomunismo di Klein a un modello peer-to-peer, da estendere dal mondo delle macchine a quello degli uomini.  Nel primo caso ci sono gerarchie, privilegi e recinti, nel secondo auto-organizzazione e uguaglianza.

Internet è una rete aperta, decentralizzata e distribuita. Non è un giardino murato. Ben prima che si parlasse di Web, Usenet offriva una rete paritaria di server, senza un’amministrazione centrale, su cui gli utenti pubblicavano e  discutevano i propri contenuti, filtrando localmente la visualizzazione di quelli altrui. La novità del  Web 2.0 non è dunque l’user generated content, ma una condivisione sottoposta a forme di controllo centralizzato da parte di aziende private.

I sistemi peer to peer, proprio perché distribuiti, sono più efficienti di quelli centralizzati: mentre You Tube o Facebook richiedono enormi data center e grandi quantità di banda, a un nodo in una rete p2p basta un computer e una connessione internet commerciale. Sono più longevi, perché la loro sopravvivenza dipende esclusivamente dalla persistenza dell’interesse di chi vi partecipa, sono più resistenti alla censura, perché diffondono i loro contenuti in un modo simile a quello in cui l’antichità lasciava circolare i suoi manoscritti, e garantiscono maggiore privacy perché privi di un database centrale di utenti.

Il valore di servizi come Facebook non sta né nel loro software, né nei loro server, ma nei contenuti che vi caricano, gratuitamente, gli utenti: deriva dunque dalla recinzione e dalla privatizzazione di oggetti prodotti in comune, in modo da  controllarli e sfruttarli unilateralmente.

Secondo Klein, l’economia materiale ridurrà ai propri termini quella immateriale finché il modo di lavorare sperimentato in rete rimarrà confinato alla rete.  Il software libero, con la licenza GPL, usa il copyright – che pur affonda la sue radici nella censura  e nello sfruttamento  – per garantire che quanto è prodotto con mezzi di produzione comuni rimanga comune. I mezzi di produzione di uno scrittore di programmi, immateriali, sono altri programmi altrettanto immateriali, e facilmente collettivizzabili, perché non rivaliSi può fare lo stesso con mezzi di produzione materiali e rivali? 

Kleiner propone un sistema plurale di cooperative – le comuni di ventura – che acquistano e posseggono i mezzi di produzione affittandoli ai soci, coprono le spese tramite obbligazioni, e ridistribuiscono gli utili a tutti i propri membri, i quali sono ammessi alla società solo se offrono un contributo non patrimoniale, ma lavorativo. L’amministrazione comune di ciascuna cooperativa si limita alla gestione delle obbligazioni e degli affitti.

A dispetto dei suoi toni, il progetto del Manifesto è riformista: le comuni di ventura, a meno che non decidano di federarsi, stanno sul mercato come qualsiasi altra azienda basata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione, con un’unica, rilevante differenza: al loro interno non ospitano rapporti di lavoro subordinato.

In questa prospettiva, secondo Kleiner, le licenze Creative Commons sono “revisioniste” perché non rendono veramente comuni le opere dell’ingegno, ma si limitano a offrire ai produttori, indipendentemente dal loro modo di  organizzare il lavoro, una serie di recinti modulati in base alle loro esigenze. Il suo Manifesto è dunque soggetto a una nuova licenza, il copyfarleft – copyleft estremo che prevede una richiesta di remunerazione esclusivamente per gli usi commerciali da parte di aziende che sfruttano il lavoro subordinato.

Le licenze Creative Commons, però, non solo sono di più facile applicazione rispetto al copyfarleft, ma proprio per la loro gradualità e modularità, aiutano gli autori a emanciparsi dagli oligopolisti del copyright e a prendere coscienza della natura comunitaria degli oggetti culturali. In questo senso offrono una piattaforma il cui sviluppo spetta agli utenti, piuttosto che un  prodotto da prendere o lasciare.  Lo stesso Kleiner, per quanto parli il linguaggio del socialismo del XIX secolo, propone un progetto riformista e modulare, che potrebbe addirittura apparire come uno sviluppo del primo comma dell‘articolo 45 della costituzione italiana. Riprodurre, in questo contesto, il conflitto fra massimalismo e riformismo rischia  di ridursi a un‘inutile ripetizione della storia.

Stiamo vivendo una gravissima crisi economica strutturale, dovuta al fatto che intere società – capitalistiche e gerarchiche – hanno perso il senso della responsabilità e del rischio. Per i molti abituati a lavorare sotto padrone e a pagare le conseguenze di decisioni a cui non hanno partecipato, il telecomunismo potrebbe essere un esperimento allo stesso tempo liberatorio e responsabilizzante.

Tags:

Accessi: 1000

Clay Shirky, Internet e il collegio invisibile

Come Internet sta cambiando il nostro modo di pensare?

Fra le 172 risposte presentate da Edge, Clay Shirky ne propone una particolarmente interessante per i ricercatori di professione.

Internet, scrive Shirky, ha aumentato straordinariamente la capacità espressiva dell’umanità. Ma che una risorsa divenga abbondante, da scarsa che era, è una sfortuna, almeno per chi su quella scarsità fondava il suo potere economico e sociale. Nel 1500 bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi da vivere: nei secoli successivi l’alfabetizzazione, proprio mentre diventava sempre più importante per la società, perse gradualmente il suo valore professionale. Qualcosa di simile accade ora per la capacità editoriale; mentre nel XX secolo rivolgersi al pubblico era un privilegio che dava influenza, denaro e prestigio, oggi lo può fare chiunque sia in rete.

Il primo esito evidente è un mondo de-professionalizzato, in cui sono in crisi tutti i modelli consolidati di valutazione della qualità. Questo è solamente un male, agli occhi dei più conservatori. Attraverso le rivoluzioni mediatiche dell’ultimo millennio il libro, nato come pezzo unico e opera d’arte, diventa prodotto industriale di massa, per finire come qualcosa che può comporre chiunque sappia usare un computer e collegarsi in rete.

Una società in cui chiunque abbia accesso alla sfera pubblica e in cui la partecipazione amatoriale – per dilettantismo, per amore – di massa sia qualcosa di scontato, può essere imprevedibilmente diversa dal mondo gerarchico di produttori attivi e consumatori passivi a cui erano abituate le generazioni precedenti. Quando venne inventata la stampa a caratteri mobili, fu usata dapprima al servizio della religione costituita, riproducendo Bibbie e indulgenze: nessuno avrebbe immaginato che nel giro di pochi decenni sarebbe stata determinante per il successo della Riforma di Lutero.

L’esperienza delle rivoluzioni mediatiche del passato può però darci una prospettiva su qualche futuro possibile.

Nella prima metà del Seicento, non c’era, in principio, una gran differenza fra chimici e alchimisti: entrambi indagavano sui misteri della materia in laboratori di storte e alambicchi. La cerchia attorno a Robert Boyle.- il cosiddetto invisible college che fu il germe della Royal Society — abbracciò il principio di credere solo a quanto dimostrato e di sottoporre i suoi membri a reciproco esame. Questo principio li indusse alla pubblicità, alla chiarificazione e alla condivisione dei risultati e delle procedure: gli alchimisti, che lavoravano da soli, mantenevano il segreto e tramandavano il loro sapere da maestro ad allievo o lo divulgavano in modo oscuro, furono soppiantati nel giro di un paio di decenni. Gli adepti del collegio invisibile divennero scienziati non semplicemente perché usavano la stampa, ma perché la usavano per sostenere e diffondere una cultura di comunicazione, trasparenza e discussione libera.

La rete può essere un invisible college sia nel senso di una scuola media invisibile – un luogo di divulgazione, narcisismo ossessivo e socializzazione vuota – sia in quello di un”università invisibile in cui si fa ricerca, si condividono risultati e ci si sottopone a un libero esame reciproco al di là dalle gerarchie delle accademie visibili. Sta a noi, conclude Shirky, decidere quale delle due opzioni sarà prevalente.

Kant, scrivendo di filosofia della storia, osservava che non è difficile fare previsioni sul futuro se il profeta ha il potere di influenzare i fatti con le sue parole e le sue azioni. Umberto Eco, che, pur non disdegnando di approfittare del lavoro gratuito altrui su Wikipedia, pubblica ad accesso chiuso perché crede nell’insostituibilità dei filtri dell’editoria e dell’accademia, contribuisce col suo comportamento a creare il tipo di Internet che critica – la scuola media invisibile. I fisici delle alte energie, che mettono immediatamente a disposizione di tutti anche i loro risultati più controversi e li discutono in pubblico contribuiscono alla rete come università invisibile. Per Eco la fisica è una disciplina talmente esoterica da aver paradigmaticamente bisogno di un sistema di pubblicazione altrettanto esoterico: l’esperienza dei fisici, però, dimostra che perfino questo esempio non è del tutto appropriato.

In questo momento, ci sono collegi invisibili che riescono a riproporsi con successo nel passaggio dal mondo esclusivo della stampa a quello più aperto della rete, e altri – specialmente nel settore delle scienze umane – che non ci provano nemmeno, o lo fanno con esasperante lentezza. Una simile scelta però, se vogliamo prendere sul serio l’analogia proposta da Shirky, non è priva di conseguenze: chi, nel corso di una rivoluzione mediatica “democratizzante”, si comporta come gli alchimisti si espone al rischio di fare la loro fine.

ResearchBlogging.orgThe OPERA Collaboraton: (2011). Measurement of the neutrino velocity with the OPERA detector in the CNGS beam Arxiv arXiv: 1109.4897v1

David, P. (2008). The Historical Origins of ‘Open Science’: An Essay on Patronage, Reputation and Common Agency Contracting in the Scientific Revolution Capitalism and Society, 3 (2) DOI: 10.2202/1932-0213.1040

Tags:

Accessi: 1085