Protesta dei ricercatori contro gli editori: politiche di prezzo insostenibili per la ricerca. Nel mirino Elsevier e Springer

Ricopio, per chi non segue il nostro servizio Twitter, la notizia uscita ieri su Ciber Newsletter, su PLEIADI e altrove.  I mostruosi margini di profitto delle multinazionali dell’editoria scientifica sono riportati qui.

Aggiornamento 2/2/2012:  la risposta di Springer è visibile qui; quella di Elsevier quiQui c’è un’analisi dei loro argomenti.

Aggiornamento 3/2/2012:  l’Economist si occupa della vicenda. In Italia, in rete, si aggiunge anche il Post.

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È in corso un’importante protesta del mondo accademico contro Elsevier, editore tra i più grandi al mondo, che sta trovando largo consenso su http://thecostofknowledge.com/.

La protesta è partita da Tim Gowers, matematico statunitense insignito della medaglia Fields nel 1998, che sul suo blog http://gowers.wordpress.com/ ha dichiarato che le politiche di Elsevier sono insostenibili per i ricercatori per le seguenti ragioni:

  1. l’editore chiede il pagamento di quote troppo elevate
  2. il modus operandi (o la collezione completa di titoli o niente) dell’editore non è sostenibile per le biblioteche, che si trovano ad offrire ai propri utenti titoli che spesso non sono di interesse
  3. l’editore sostiene iniziative politiche contrarie alla diffusione dell’accesso aperto, come il Research Works Act e i decreti contro la pirateria, facendosi promotori degli stessi. (Sul RWA leggete anche http://www.cibernewsletter.caspur.it/?=15205)

Anche in Francia, mentre è in corso il rinnovo del contratto Springer, i ricercatori esprimono il loro dissenso per le politiche di prezzo e i modelli economici offerti dall’editore: http://www-fourier.ujf-grenoble.fr/petitions/index.php?petition=3.

 

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L’accademia dei morti viventi, parte seconda: il fantasma dell’autore

[Segue da Parte prima: la revisione paritaria]

The Museum SyndicateLa peer to peer review della prima parte del testo di K. Fitzpatrick può funzionare solo se l’interesse principale del ricercatore è l‘avanzamento della comunità di conoscenza, prima che del suo proprio. Solo se l’autore si mette in discussione non tanto nella teoria, ma in primo luogo nella pratica.

L’architettura della rete favorisce la condivisione e l’interconnessione dell’informazione piuttosto che la proprietà individuale dei testi. La nuova tecnologia si è radicata, come a suo tempo la stampa, e ha provocato un dibattito, assai simile a quello della fine del XVIII secolo, sul senso e sulla metamorfosi della comunità intellettuale.

L’individualità dell’autore non è, di per sé, un esito necessario della stampa. Perfino la capostipite delle riviste scientifiche, le Philosophical Transactions of the Royal Society, nacque come una silloge compilata da un curatore, Henry Oldenburg. La stampa, in ogni caso, si prestava a costruire  una relazione isomorfica fra autore e libro. E ad essa si collegarono dei processi sociali che condussero alla nascita dell’autore, in una cultura che si orientava secondo l’ideale di un individuo autonomo, creatore e governatore di se stesso, proprietario. Lo scrittore, però,  non ha mai operato nel vuoto: è sempre stato parte di una conversazione più ampia, che ora la rete rende più estesa e più facile. Gli umanisti, in realtà, non temono la perdita della comunità, che continua in rete con altri mezzi, bensì quella dell’individualità.

Nella teoria, da Barthes in poi, l’autore pare defunto almeno dagli anni ’60 del secolo scorso: ridurre il testo al lavoro di un individuo, alle sue intenzioni e ai suoi interessi, significa chiudere il suo significato e negare la vita spirituale del lettore. Ma quanto è ormai quasi banale per noi come critici culturali, lo è anche per noi come scrittori? Se l’autore è felicemente deceduto, perché continuiamo a valutare le carriere accademiche sulla base del suo fantasma? Secondo Foucault, sebbene l’autore si riduca a una funzione del testo, rimane intatta la rete di potere che produce autorità. L’ipertestualità, che decentra l’autore, frammenta il testo e attiva il lettore, è stata salutata come una manifestazione digitale delle teorie post-strutturaliste: ma nei fatti restiamo a metà strada, né vivi né morti, in un mondo di media orrnai post-accademici – o. forse, accademici, ma nel senso più antico e più filosofico del termine.

Il blog, primo genere letterario digitale di successo, ha la possibilità di inserire commenti e link e di produrre nuove versioni di un post già reso pubblico – cosa sconcertante, in un mondo abituato a licenziare i libri per le stampe e a vedere nella loro immutabilità un segno di autorità.

Il testo licenziato per le stampe si presta a essere trattato come un prodotto, in una metafora fordista, che alla fine induce a contare le pubblicazioni o le citazioni in luogo di giudicarne la qualità. La scrittura non è più un processo di scoperta, esplorazione e comunicazione, ma un’accumulazione di prodotti, che possono essere computati solo quando sono finiti. Un blog, di contro, trascende la rigidità testuale, perché trova lettori solo se viene aggiornato, cioè cambia – in un presente continuo che prima della rete era possibile solo per il discorso orale. Questo tipo di scrittura – che è lo scrivere nell’anima del Fedro – sposta il nostro lavoro dal prodotto al processo, e dal singolo alla comunità.

Mentre la stampa rendeva i testi discreti e separati nel tempo e nello spazio, e dilazionava la loro interconnessione, la rete sfuma le frontiere dei testi, e mette in imbarazzo gli umanisti, abituati a un individualismo feroce sia nella produzione sia nella valutazione della ricerca, e conseguentemente terrorizzati dalla possibilità che le loro preziose idee vengano “rubate” prima che l’editore vi apponga un marchio di denominazione di origine controllata. In realtà, inserire il testo come oggetto in evoluzione entro una conversazione in rete gli offre una pubblicità che lo protegge dalla copia, e arricchisce il testo stesso, aprendolo alla vita, senza negare necessariamente il lavoro di chi lo ha scritto.

Ma come possono i nostri testi rimanere unici, discreti, originali, in un ambiente in cui perfino la lettura di una pagina web richiede un’operazione di copia? Il concetto di autore moderno riposa sul presupposto che il suo testo sia finito, compiuto, perfectum e originale, come so fosse stato partorito armato dalla sua mente. Tutto ciò che è preso da altri testi, se non è chiaramente delimitato, è un plagio. Ci sono però state epoche in cui la cultura progrediva per piccole addizioni, e si preferiva la compilazione e il commentario all’opera “originale”, insostenibile perché idiosincratica.  Quando le barriere si affievoliscono e i testi diventano aperti, come nel Medioevo, il valore aggiunto di un nuovo contributo si trasferisce nella creatività combinatoria dei curatori. Dobbiamo soltanto imparare di nuovo ad apprezzarlo e a ritrovarlo  nei libri tradizionali, traendo profitto dalla multimodalità offerta dalle tecnologie digitali.

Un simile spostamento mette in discussione anche la cosiddetta “proprietà” intellettuale.  La costituzione americana giustifica questo istituto come incentivo per la creatività degli autori; nel corso del XX secolo, però, è stata usata prevalentemente dalle aziende di mediazione editoriale, che oggi non possono più giustificare il loro ruolo con i costi di produzione dell’età della stampa. I ricercatori, in particolare, abituati ad essere compensati con posizioni accademiche, sono nella posizione più appropriata per capire che possono guadagnare di più liberando i loro testi che lasciandoli chiudere in recinti editoriali. La “proprietà” intellettuale – come mostra il successo delle licenze Creative Commons –  non è la condizione indispensabile per il riconoscimento del lavoro delle scrittore: gli umanisti avrebbero tutto l’interesse a trattare se stessi come un pubblico ricorsivo, che assume la responsabilità delle condizioni della sua propria sopravvivenza.

Dobbiamo pensare meno ai prodotti completi e più ai testi in elaborazione; meno all’autorità individuale e più alla collaborazione; meno all’originalità e più al remix; meno alla proprietà e più alla condivisione.”

[Continua: Parte terza. I testi]

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L’accademia dei morti viventi, parte prima: la revisione paritaria

Se il libro di Kathleen Fitzpatrick, Planned Obsolescence. Publishing, Technology and the Future of Academy,  fosse uscito in Italia, sarebbe stato ignorato. Pubblicato negli Stati Uniti, è stato recensito sul “New York Times”. La sua versione elettronica, offerta a una revisione paritaria aperta, è liberamente accessibile qui. Le sue tesi non sono originali per chi fa ricerca in rete.  Meritano, però, di essere riferite dettagliatamente per l’uso di chi avesse bisogno di argomentazioni esterovestite per riconoscere il loro interesse filosofico e politico.

Che, nel campo delle scienze umane, il modello economico della pubblicazione accademica tradizionale sia ormai insostenibile, è evidente almeno dall’inizio di questo secolo, quando lo scoppio della bolla speculativa del 2000 portò con sé pesanti tagli nei bilanci delle biblioteche. La monografia però, in quanto viatico per la cattedra, vaga per gli atenei come un morto vivente, mentre il suo sistema di produzione e disseminazione sta diventando obsoleto.  Oggi sarebbe più veloce ed economico mettere la proprie opere in rete, corredate, ex ante e ex post, dei pareri dei revisori:  ma come far riconoscere il valore scientifico e accademico delle pubblicazioni sul web in un ambiente conservatore e ossessionato dalla carriera?

The Museum SyndicateLa revisione paritaria (peer review) com’è condotta tradizionalmente, in un dialogo notturno fra redattori e revisori, esclude gli autori dalla conversazione e ostacola la circolazione delle idee. La rete non solo rende possibile spostare la revisione dopo la pubblicazione, ma, soprattutto, trasforma il giudizio in una peer-to-peer review. L’autore non è più un ‘individuo “originale” artificiosamente isolato dal contesto, ma un nodo di citazioni e di rielaborazioni: la ricerca può tornare a essere, come nei dialoghi platonicipartecipazione a uno scambio comunitario di idee. Se la rete si trasforma in un medium universale, gli studiosi che non sapranno trascendere se stessi, per restare incatenati in sistemi che li separano gli uni dagli altri, diventeranno  morti viventi, con i loro libri e la loro professione

1. Revisione paritaria

Investiti dalla disintermediazione e dalla partecipazione rese possibili dalla rete, i  concetti di autorità e di autorevolezza stanno cambiando . Gli studiosi, però, hanno resistito al mutamento, rimanendo per lo più alieni al nuovo spazio pubblico che si sta creando. Per un accademico analizzare le strutture del sistema che gli ha dato potere e prestigio può essere tanto sgradevole quanto accettare forme di revisione paritaria posteriori alla pubblicazione e pubbliche. Questo passo, tuttavia, sarà obbligato, perché rimanere chiusi nel proprio recinto significa condannarsi all’irrilevanza.

La storia della revisione paritaria, che trae le sue origine dalla prassi della Royal Society nella seconda metà del XVII secolo, è stata molto studiata per quanto riguarda le scienze naturali e sociali. Sebbene oggi sia intesa come un controllo di qualità scientifica, le sue radici affondano nell’assolutismo statale e nella censura, nella forma di un’autodisciplina imposta tramite le società di studiosi. Le sue stesse procedure, fondate sul controllo del direttore della rivista che decide se sottoporre un testo a peer review e sceglie i revisori, sono di natura assolutista.

L’ArXiv pratica, nei fatti, un’alternativa alla revisione paritaria tradizionale tramite un endorsement il cui scopo è verificare che i suoi contributori appartengano alla comunità scientifica. Nel 2006 “Nature” tentò un esperimento di revisione paritaria aperta e pubblica, parallela a quella privata e anonima, che si  affrettò a dichiarare fallito – anche perché i revisori erano ben poco incentivati a contribuire a un’impresa annunciata fin dall’inizio come irrilevante per l’effettiva valutazione dei testi.

La revisione paritaria aperta, successiva alla pubblicazione, è vista con sospetto perché non è anonima. Chi, però. l’ha praticata sul serio  può confermare che lo stesso timore della discussione pubblica produce – come sa chi si occupa di accesso aperto – un’autoselezione preliminare da parte degli autori.

I revisori anonimi, in virtù della loro posizione, hanno un potere senza responsabilità e senza interazione con gli autori;  questo dà libero gioco a pregiudizi sistematici, quando i nomi di questi ultimi sono loro noti. In gruppi disciplinari ristretti sono comunque facili da indovinare anche quando sono nascosti, e rimangono pur sempre noti al direttore della rivista, il cui potere è altrettanto irresponsabileMa può darsi giustizia  senza trasparenza?

Il “Bollettino telematico di filosofia politica“, a dire il vero, aveva reso l’anonimato completo, nascondendo l’autore dei contribuiti sottoposti alla rivista non solo ai revisori, ma anche alla redazione. Il programma che lo rendeva possibile, Hyperjournal, non ha però raggiunto la massa critica di utenti indispensabile per il successo di un progetto di software libero: evidentemente il problema dell’equità della peer review è scarsamente avvertito nel mondo accademico.

Anche se la revisione paritaria non serve alla discussione fra gli studiosi ed è un  controllo di qualità opinabile,  le è tuttavia riconosciuta una funzione di accreditamento.  Le università hanno dato in outsourcing agli editori la valutazione della ricerca, con effetti gravemente distorsivi.  I revisori possono essere condotti o a inflazionare i loro voti, o ad adottare criteri di selezione “di scuola”, mentre gli studiosi giovani  sono costretti a concentrare le loro ricerche sul “pubblicabile” piuttosto che sull’innovativo.

Internet ha separato la pubblicazione di un testo dalla sua qualità scientifica: ma la reazione più diffusa dell’accademia è stata quella di negare il valore alle pubblicazioni in rete, o di pretendere che imitassero il sistema tradizionale, in modo da non mettere a repentaglio le posizioni acquisite. Il principio  della revisione paritaria – che il proprio contributo sia valutato e criticato da pari competenti – non è però sbagliato. E’ sbagliato trasformare la revisione in un metodo per creare autorità e per escludere dalla discussione. Gli stessi revisori, se interessati alla ricerca e non al potere, sono costretti a sprecare una gran quantità di tempo per un lavoro privo di senso scientifico e destinato a rimanere sconosciuto. Perché non separare la pubblicazione dalla valutazione, aprendo i cancelli e lasciando che la revisione paritaria avvenga pubblicamente, ex post? Perché non usare il social software – come fa  Slashdot – e passare alla peer-to-peer review?

La peer-to-peer review altera il concetto di peer (pari): usato dapprima nel senso di “nobile”, nella scienza moderna designò il membro di una comunità del sapere e non più del sangue, per estendersi, in tempi recenti, a chiunque sia un nodo della rete. I pari nella loro ultima metamorfosi, anonimi, sfuggono al controllo accademico della reputazione: è tuttavia bizzarro che questa critica venga da ambienti che fondano la loro selezione della qualità su una revisione non facoltativamente, bensì’ obbligatoriamente anonima.  Un’esperienza di peer review aperta ha peraltro mostrato che i commenti discussi pubblicamente sono alla fine più affidabili delle esternazioni unilaterali e insindacabili di un paio di revisori anonimi. 

Slashdot, dopo aver sperimentato la dispendiosità e gli abusi di una moderazione affidata a individui,  ha adottato una automoderazione collettiva fondata sull’economia della reputazione. Un sistema simile, però, per non essere esposto a manipolazioni e abusi, o alla mera idiozia delle masse, deve seguire il modello del tribunale di Atene, raggiungendo una massa critica di utenti, offrendo incentivi ai revisori e contenendo rimedi contro lo spam, lo scambio di favori e altre forme di strumentalizzazione.

Nel mondo della stampa la pubblicazione passava per un marchio di qualità perché il testo pubblicato aveva dovuto essere selezionato ex ante. Oggi questo non è più necessario né tecnicamente né economicamente: rimangono però scarsi il tempo e l’attenzione. La necessità di un filtro umano – e l’inevitabilità di un’economia della reputazione – non è quindi abolita, bensì solo dislocata.

Quanto funziona bene  in Slashdot, funziona  piuttosto male  in Philica, un esperimento  di pubblicazione e di revisione paritaria aperta. In generale, però, in un”accademia che accredita gli studiosi sulla base dei loro successi individuali l’abitudine a “pensare insieme” e la convinzione che il guadagno più grande sia il progresso collettivo sono talmente rare da rendere infrequenti anche le comunità disciplinari ispirate a questi principi. Mediacommons, che pubblica l’opera della  Fitzpatrick, è il  progetto di una comunità aperta, i cui legami sono però anteriori alla rete, che costruisce la reputazione di un utente non solo sui suoi articoli, ma sulla sua capacità di scrivere revisioni valutate come costruttive dagli altri. Il suo scopo è premiare – anti-individualisticamente – chi collabora, senza limitarsi a inondare la scena delle secrezioni del suo lavoro solitario.

Mentre la revisione paritaria è binaria – un testo può essere solo accettato o rifiutato – e gli indici bibliometrici basati sul conteggio delle citazioni sono quantitativi, questo sistema è sfumato e qualitativo, e permette di valutare in che modo un autore è situato nel suo campo disciplinare, seguendo i suoi nessi e i suoi percorsi di discussione. Non possiamo giudicare il valore del lavoro di uno studioso senza confrontarci con il contenuto della sua ricerca e con il suo contributo alle comunità di conoscenza.

[continua]

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Archivio Marini: nuove acquisizioni

Brunella Casalini,  Rappresentazioni della femminilità, postfemminismo e sessismo. “Iride. Filosofia e discussione pubblica”, 62 (1), 2011, pp. 43-59

Nico De Federicis, Il secolarismo: una ‘tragedia’ nell’ethos moderno? “SiFP-Rivista della società italiana di filosofia politica”, 2011

Martina Fissi, L’economia della felicità: nota su “La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il PIL non basta più per valutare benessere e progresso sociale” di J.E. Stiglitz, A. Sen, J.P. Fitoussi, Prefazione di Nicolas Sarkozy, Etas, Milano 2010, pp. XLII+166, 2012.

Massimo Morigi, Aesthetica fascistica I. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del fascio. In: Encontros a sul, 20, 21 e 22 settembre 2007, Lisbona, 2007.

Id.,  Aesthetica fascistica II. Tradizionalismo e modernismo sotto l’ombra del fascio. In: IV Coloquio “ Tradição e modernidade no mundo iberamericano”, 1,2,3 de outubro de 2007, Coimbra.

Maria Chiara Pievatolo, Il pessimismo cosmopolitico di Danilo Zolo. “Iride. Filosofia e discussione pubblica” (63), 2011, pp. 457-461.

Antonio Tomaselli, Dalla ragione morale di Kant alla teoria dei sistemi sociali di Luhmann, 2012.

 

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Ricercatori di successo

Grazie a Rangle mi è lecito segnalare i risultati di una ricerca ad accesso semiaperto.

Secondo Daniele Fanelli, ricercatore dell’Institute for the Study of Science, Technology and Innovation (ISSTI) presso l’Università di Edinburgh, un modo per verificare l’obiettività con cui i risultati della ricerca vengono prodotti e proposti è quello di selezionare i lavori in cui l’obiettivo è la verifica di un’ipotesi e scoprire in quanti casi gli autori concludono che l’ipotesi si rivela corretta (o no). Proporre un’ipotesi ed indagarne la “bontà” è una pratica consolidata nel mondo della ricerca scientifica, lo fanno in maniera propria e spesso i matematici (non starò qua a discutere i problemi di Hilbert) ed è abbastanza comprensibile che la tendenza generale sia quella di pubblicare studi in cui l’ipotesi si dimostra fondata, comprensibile ma fino ad un certo punto perché la pubblicazione di risultati che non corrispondono alle aspettative è altrettanto cruciale per il progresso della conoscenza scientifica.

Il rischio è che “vi sia  un processo patologico che si insinua nel corpo della ricerca scientifica, una tendenza ad interpretare i risultati negativi come insuccessi e si eviti di proporli privilegiando la pubblicazione di lavori più utili ai fini della carriera e della ricerca di fondi.” Le ricerche di Fanelli usano un database privato e accessibile solo a pagamento, gli Essential Science Indicators di Thomson-Reuters, che comprende però le testate dove pubblicano – grazie a un marketing pervasivo e costante nel tempo – i ricercatori “di successo”. Ebbene:

la percentuale di articoli che riportano un risultato positivo cresce in media del 6% ogni anno, si parte con il 70.2% del 1990-91 e si arriva all’85.9% del 2007 con un picco dell’88.6% nel 2005; i risultati sono molto differenti per differenti discipline, sia per la frequenza media di risultati positivi che per la rapidità di crescita del fenomeno, le scienze fisiche (in particolare le scienze dello spazio) sono le più “virtuose”, le scienze sociali tendono a comunicare quasi solo casi “positivi” e lo stesso accade per le discipline “applicate” rispetto a quelle “pure”; gli autori che lavorano nei paesi asiatici (in particolare in Giappone) riportano risultati positivi più di quelli che lavorano negli Stati Uniti, a loro volta “più positivi” degli europei (in particolare di chi lavora nel Regno Unito).

Queste statistiche sembrano suggerire la progressiva prevalenza di un modello di ricerca individualistico-imprenditoriale che valorizza esclusivamente l’affermazione di sé e della propria idea sul mondo che si dovrebbe interrogare.

Un modello simile si ritrova, applicato alla retorica, nel Gorgia di Platone. La bussola del mondo antico era la politica e non l’economia: la funzione della retorica era dunque paragonabile a quella svolta oggi dal marketing, e cioè convincere la gente nei luoghi in cui è più utile per acquistare potere. La retorica si fondava sulla competitività: riuscire a ottenere ragione era essenziale; farsi confutare significava perdere la faccia; cercare di confutare qualcun altro equivaleva ad attaccarlo. 

Platone impose un’idea di scienza diversa. Nel Gorgia, Socrate interrompe la conversazione col sofista per chiedergli  se in generale pensa che la confutazione sia o no utile a liberarci dagli errori. Gorgia è costretto a una risposta obbligata: neppure il più competitivo dei ricercatori potrebbe mantenere il suo onore professionale dichiarando che in astratto dell’accuratezza scientifica non gli importa nulla perché gli interessa solo aver ragione anche quando ha torto.

Per riconoscere il valore dell’insuccesso dobbiamo intendere la ricerca non come competizione, bensì come collaborazione, secondo un interesse che supera quello strettamente personale. Chi confuta i miei argomenti “di ferro e diamante” fa un favore non solo alla scienza, ma anche a me come scienziato. I miei oppositori, anche se sostenessero tesi falsificate, sono indispensabili nel cammino della ricerca.

Il Socrate del Gorgia conduce sistematicamente i suoi interlocutori in situazioni che impongono loro di rispondere nel modo da lui desiderato, con un’abilità retorica paragonabile e superiore a quella dei sofisti. Fra il loro sapere e la scienza socratica c’è, in realtà, soltanto una differenza: il riconoscimento del valore della confutazione, del risultata negativo, dell’insuccesso. La ricerca non è l’arte di avere ragione: è un metodo per rendersi conto dei propri torti. Dimenticarsene significa esporre i sistemi di pubblicazione e di valutazione al rischio di selezionare ottimi retori, prima e piuttosto che ricercatori di valore. 

 ResearchBlogging.orgFanelli D (2010). “Positive” results increase down the Hierarchy of the Sciences. PloS one, 5 (4) PMID: 20383332

 

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Francesca Di Donato, Comunicare la cultura: il dibattito sulla repubblica delle lettere nell’Illuminismo tedesco

Depositato nell’archivio “Giuliano Marini”, l’articolo di Francesca Di Donato offre una prospettiva storica sul modo e sul grado di consapevolezza teorica  con  cui gli studiosi organizzano se stessi

L’espressione respublica literaria compare per la prima volta nel 1417 in una lettera scritta da Francesco Barbaro a Poggio Bracciolini. La repubblica delle lettere è  la comunità degli studiosi che, condividendo i medesimi interessi e la medesima occupazione, si scambiano notizie sulle proprie ricerche e scoperte, dapprima per via epistolare e poi tramite la stampa. Nella prima modernità, che vede la crisi della respublica Christiana, la comunità internazionale dei dotti si ispira a ideali di cosmopolitismo, pacifismo, libertà, uguaglianza e condivisione del metodo critico-razionale, dapprima inteso nella sua unità ispirata all’emancipazione umanistica dal giogo dell’autorità costituita, e successivamente bipartito a seconda che si parli di lettere o di scienze. In ogni caso, studioso non è semplicemente chi ama il sapere, ma chi ha la vocazione e la capacità di comunicarlo.

La respublica literaria nasce con una lingua comune, il latino, a cui successivamente subentrano le varie lingue nazionali, in un gioco delicato fra il rischio della frammentazione del discorso scientifico e la volontà di raggiungere pubblici più ampi. Anche la Germania, a partire dalla fine del Seicento, partecipa a questo sviluppo, favorito dal principio luterano dell’interpretazione dei testi tramite retta ragione e pubbliche confutazioni e da una fitta rete di periodici eruditi e di riviste politico-culturali. Per esempio Thomasius, vittima di una censura di stato, si difese tramite la teoria delle personae morali di Pufendorf: come il maestro di equitazione del re, pur essendo tenuto ad obbedirgli come suddito, deve trattarlo come qualsiasi altro allievo quando gli insegna ad andare a cavallo, così lo studioso può essere a un tempo suddito di uno stato, e, nella sua funzione, libero. 

Le trattazioni degli eruditi cominciano a distinguere due repubbliche: una prima (astratta) che coincide con la sfera della libertà di pensiero e di espressione; una seconda (storica), che include le istituzioni, le tradizioni, le regole e l’organizzazione di società dedite alla ricerca. Si crea una nuova attenzione nei confronti dell’influenza che i processi storici, sociali e politici possono avere sulla scienza, e su tale base l’universalità della repubblica delle lettere viene messa in discussione.

In questo quadro, il poeta Klopstock fa uscire, nel 1774,  Die deutsche Gelehrtenrepublik. La sua repubblica ha una struttura gerarchica, con degli anziani eletti da corporazioni, di cui cui fa parte chiunque abbia prodotto qualcosa di “più che mediocre” in una qualche scienza, e un popolo privo di influenza politica e sociale. I suoi princípi sono tre:

  1.  impegnarsi nella “ricerca, nella determinazione, nella scoperta, nell’invenzione, nella composizione e nell’animazione di più nuovi e più degni oggetti del pensiero e dei sensi
  2. condividere i più nuovi e più belli di tali oggetti con gli altri, comunicandoli attraverso gli scritti e tramite l’insegnamento
  3. promuovere le opere migliori, per contenuto e per forma, operando dunque una sorta di selezione delle migliori produzioni scientifiche e artistiche”

Dalla repubblica sono esclusi gli stranieri, chi non parla in tedesco e i filosofi, in quanto astratti ideatori di sistemi e autori di “scritti polemici”. Klopstock, che, sul piano pratico, condivide con illuministi come Lessing il progetto di emancipare gli studiosi dagli stampatori,

sa che la repubblica delle lettere è una costruzione storica e sociale, è a conoscenza del fatto che l’organizzazione culturale e intellettuale della repubblica ha prodotto controllo interno e censura, e anche che serve a dominare le menti degli illetterati. Gli piace soprattutto per questo: come progetto in chiave anti-illuministica e antifrancese. […] Il progetto del poeta si propone di regolare e controllare la critica nella comunità erudita, teoreticamente con l’esclusione della filosofia dalla repubblica, e praticamente fondando un’accademia che abbia il potere di filtrare il dibattito erudito al pubblico.

Da parte illuministica, il progetto fu criticato come oligarchico da Wieland; e analizzato sistematicamente da Moses Mendelssohn.  Costruire la respublica literaria entro lo stato nazionale e secondo il suo modello, anziché come cosmopolitica e indipendente, significa rendere anche gli studiosi dipendenti da poteri politici particolari. Gli scienziati, però, pur dovendo prescindere da ogni interesse personale, hanno il diritto e il dovere di essere in primo luogo partigiani della conoscenza, e non asettici burocrati. Né si possono escludere i filosofi dalla repubblica sulla base di una critica alla filosofia, perché la critica è parte dello sviluppo dell’attività filosofica stessa.  La barriera linguistica, infine, se può aver senso per la letteratura, non ce l’ha per la scienza: lo scienziato non cerca una “verità” nazionale, perché le sue teorie sono scientifiche solo se valgono per il mondo intero.

Questo articolo aiuta a capire perché, pochi anni dopo, Kant, sostenendo che chi fa uso pubblico della ragione in quanto studioso, appartiene alla società cosmopolitica, evita accuratamente di menzionare la repubblica delle lettere, e perché la sua teoria politica successiva, applicando il cosmopolitismo all’ordinamento degli stati, ribalta di fatto l’impostazione di Klopstock.  Se poi, oggi, le comunità di studiosi siano più simili a come le desiderava Klopstock o a come le sognavano gli illuministi, è questione che merita di essere offerta alla riflessione del lettore. 

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