Il crepuscolo delle idee

Segnalo questo dibattito non perché sia originale, ma perché non lo è per nulla: il suo tema è infatti quello, famosissimo, della critica alla scrittura contenuta nel mito platonico di Theuth, anche se non sempre chi discute ne è consapevole.

Secondo Neal Gabler (*) stiamo attualmente vivendo in un’età post-illuministica e “post-ideale”. Internet offre l’accesso a una quantità senza precedenti di informazione, che però non si trasforma in sapere, sia per la sua sovrabbondanza, sia il nostro imbarbarimento. Non ci sono più “grandi idee”: non abbiamo più visioni originali del mondo e teorie scientifiche in grado di catalizzare il dibattito al di là delle cerchie degli specialisti. Responsabili di questa situazione sono Internet in generale e i social media in particolare, che, sovraccaricandoci di informazione per lo più irrilevante, ci impediscono di riflettere.

Il Fedro di Platone non sosteneva nulla di diverso, quando trattava la scrittura – il primo strumento per conservare e diffondere il sapere che trascendeva le persone – come un mezzo che produceva soltanto un’illusione di cultura. L’informazione può trasformarsi in sapere esclusivamente tramite il ragionamento degli esseri umani entro comunità di conoscenza durevoli nel tempo.

Gabler riecheggia la pars destruens della tesi platonica senza citare il Fedro: le idee di Platone sono riuscite a crescere tanto da sparire dall’orizzonte semplicemente perché sono diventate esse stesse orizzonte. Chi pensa alle grandi idee come secrezioni di academic star al centro del dibattito pubblico non si avvede neppure di esservi dentro.

Secondo Megan Garber, Gabler ragiona nella prospettiva dei mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso: le grandi idee per lui sono idea ampiamente riconosciute, conosciute e accettate. In questo senso, sono figlie di media non frammentati Fatalmente, in un mondo in cui le idee nascono e si diffondono orizzontalmente e collettivamente tramite media frammentati, chi condivide la prospettiva di Gabler tenderà a pensare che non ci sono più grandi idee solo perché vede orizzonti ma non stelle. “Lungi dal vivere in un mondo post-ideale, stiamo creandone uno così saturo di idee che stiamo perdendo il bisogno di distinguerle, innanzi tutto, come tali.”

Si deve aggiungere che la nostalgia per la gerarchia degli editori e dei filtri induce a prospettive virtualmente fuorvianti. Mentre le idee di Platone si sono fatte orizzonte grazie a comunità di conoscenza consapevoli che hanno sfidato i confini e i millenni, i social network sono nelle mani di aziende private non necessariamente trasparenti e i cui interessi hanno poco a che fare con la ricerca della verità. Vederli come praterie in cui i barbari galoppano liberi può essere molto pericoloso.

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Andrea Capra, La tecnica di misurazione del Protagora

Si tratta di un articolo uscito nel 1997 presso gli “Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia”, pp. 273-327, ora liberamente disponibile perché depositato nell’archivio istituzionale dell’Università di Milano. Gli “Annali”, infatti, almeno nel momento in cui scrivo, risultano non accessibili in rete.  Questo è un danno grave per la disseminazione, la discussione e – in ultima analisi – l’effettiva valutazione dell’eccellenza della ricerca umanistica italiana, a cui  l’autoarchiviazione da parte degli autori e le politiche a favore dell’accesso aperto imposte da alcuni atenei possono  rimediare solo molto parzialmente.

Il Protagora ha sconcertato molti interpreti, perché sembra lasciare l’immagine di un Socrate edonista, che indulge ad argomenti francamente sofistici per avere la meglio sul suo interlocutore. L’articolo di Andrea Capra, riannodando i suoi temi attraverso operazioni di contestualizzazione sia interne al corpus platonico, sia esterne, mostra  che è possibile dargli un senso filosofico coerente.

Socrate ha di fronte un interlocutore che rifiuta esplicitamente il modello della techne perché pensa che il sapere etico-politico dipenda dall’opinione comune e sia di natura retorica.  Questo gli rende difficile usare la logica della definizione tassonomica, perché Protagora non ne riconosce neppure le premesse,  e gli impone un cambio di strategia.

  1. Socrate, alla maniera di Protagora, abbraccia l’opinione dei più con la tesi, dialetticamente depurata, dell’equazione fra bene e piacere.
  2. Mostra che anche chi crede che il bene sia uguale al piacere, per deliberare correttamente, ha bisogno di una tecnica di misura che soppesi i piaceri e i dolori esito di ciascuna azione.
  3. E conclude, contro Protagora, che la misura di tutte le cose non è l’uomo, bensì la scienza, perfino dal punto di vista ristretto di una morale coerentemente edonistica.

Il combinato disposto con il Gorgia mostrerà poi che questa tecnica della misura, che si occupa del benessere e della sopravvivenza fisica. è soltanto un’arte umile, e non può ambire alla formazione della perfezione umana di cui Protagora si professava maestro, Ma la tesi edonista, da sola, è già sufficiente a spezzare l’incanto della retorica prendendola, per così dire, in parola.

Questo ipertesto dedicato al Protagora perviene a una conclusione molto simile, valendosi però di un percorso  in parte diverso, perché più dipendente dal Menone e dal Fedro. Il fatto che per raggiungere una stessa meta si possano seguire itinerari differenti contribuisce a rendere verosimile l’ipotesi di una struttura ipertestuale del corpus platonico nel suo complesso.

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Maria Popova, In a new world of informational abundance, content curation is a new kind of authorship

Il testo, pubblicato presso il Nieman Journalism Lab, prende spunto dall’uso di Twitter come strumento per segnalare indirizzi. Questa tecnologia, come diceva Socrate nel Fedro a proposito del testo scritto, può apparire esposta al rischio di renderci smemorati e “sconnessi”, se non ne comprendiamo il senso. I nuovi mezzi di comunicazione si devono misurare non con la scarsità dell’informazione, ma con la sua sovrabbondanza: i segnalatori, orientando l’attenzione, svolgono un lavoro che – avrebbe detto Platone – ha più a che fare con l‘anamnesis che con l’hypomnesis: non si limitano a riportare informazioni, ma suggeriscono dei percorsi e dei nessi. Sono cercatori di conoscenza e battitori di piste.

Se si ammette il carattere ricognitivo e non meramente informativo del lavoro dei curatori, bisogna anche riconoscerli come una nuova specie di autori. La rappresentazione dell’autore come creatore di contenuti è tipica del mondo della stampa e della cosiddetta proprietà intellettuale; il curatore, che produce testi fisicamente aperti e interconnessi, è invece più simile a un mediatore, a un custode della sapienza della rete.

A sostegno di questa tesi segnalo in aggiunta, nella mia veste di curatrice, il recentissimo Post-artifact booking, di Kevin Kelly, che rappresenta il networked book come una collezione dinamica di link, frutto di un’attività di cura, anziché come un artefatto immutabile com’era nell’età della stampa e dei monopoli intellettuali. E mi piace ricordare che Kant, in un testo pochissimo compreso dai kantisti accademici, aveva già in mente questa visione quando trattava il libro come discorso e i curatori come autori. Non aveva bisogno di essere profetico: l’uso del testo come strumento per mettersi in rapporto col pubblico, e la sua moltiplicazione, reinterpretazione e diffusione grazie all’opera di curatori, era parte di quel processo rivoluzionario di disseminazione del sapere che prende il nome di Illuminismo.

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Andrea Capra, Platone e la storia. La fine di Protagora e lo statuto letterario dei dialoghi socratici

Secondo alcune fonti antiche il sofista Protagora, ormai anziano, fu accusato, come Socrate, di empietà e trovò la morte lasciando Atene, forse per sfuggire al processo o forse perché bandito dalla città. Contro questa tradizione sembra militare la testimonianza di Platone, secondo la quale, almeno in apparenza, Protagora, a differenza di altri intellettuali, non si imbatté mai in questo tipo di difficoltà. L’autore, però, osserva che Platone disponeva e padroneggiava degli strumenti letterari dell’antifrasi ironica e dell’allusione mitologica malevola, e poteva presupporre un pubblico in grado di raccogliere i suoi spunti perché ben informato dei fatti. Se leggiamo il testo platonico secondo questo registro, otteniamo una conferma – e non una smentita – della tradizione.

L’articolo, uscito su “Acme” (53:2, 2000, pp. 19-37), è disponibile ad accesso aperto e pieno presso l’archivio istituzionale dell’università di Milano. Il problema interpretativo che affronta può essere letto come una conseguenza di una caratteristica del testo scritto che lo stesso Platone aveva messo in luce nel Fedro: quella stessa rigidità e mancanza di interattività che gli consente di superare i limiti spaziali e temporali della comunicazione orale, può farlo sopravvivere senza il suo contesto, cioè senza la comunità di conoscenza nella quale e per la quale era stato composto. Quanto per gli ascoltatori di Platone era o un ovvio riferimento a un dato storico, o un’ironia altrettanto evidente, per noi è solo l’esito di una congettura filologica, che non può andare oltre la verosimiglianza, perché non possiamo più accedere alle conversazioni quotidiane dell’Atene di due millenni e mezzo fa.

Quanto più i testi sono slegati dai contesti, tanto più diventano rigidi, enigmatici, e sostanzialmente inutili. Chi pubblica ad accesso aperto offre il suo lavoro alla rete, cioè a una molteplicità di interazioni e legami (link), e quindi alla possibilità di far vivere il senso del suo testo più intensamente e più a lungo.

Ho voluto che la prima segnalazione del nuovo Btfp fosse quella di un articolo uscito e depositato altrove per rendere chiara la differenza fra una rivista tradizionale – anche ad accesso aperto, anche in rete – e questa nuova impresa. Un overlay journal non è una cassaforte, né una vetrina, ma uno spazio aperto di legami, di interazioni e di contesti che danno sensi ai testi.

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