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Clay Shirky, Internet e il collegio invisibile

Come Internet sta cambiando il nostro modo di pensare?

Fra le 172 risposte presentate da Edge, Clay Shirky ne propone una particolarmente interessante per i ricercatori di professione.

Internet, scrive Shirky, ha aumentato straordinariamente la capacità espressiva dell’umanità. Ma che una risorsa divenga abbondante, da scarsa che era, è una sfortuna, almeno per chi su quella scarsità fondava il suo potere economico e sociale. Nel 1500 bastava saper leggere e scrivere per guadagnarsi da vivere: nei secoli successivi l’alfabetizzazione, proprio mentre diventava sempre più importante per la società, perse gradualmente il suo valore professionale. Qualcosa di simile accade ora per la capacità editoriale; mentre nel XX secolo rivolgersi al pubblico era un privilegio che dava influenza, denaro e prestigio, oggi lo può fare chiunque sia in rete.

Il primo esito evidente è un mondo de-professionalizzato, in cui sono in crisi tutti i modelli consolidati di valutazione della qualità. Questo è solamente un male, agli occhi dei più conservatori. Attraverso le rivoluzioni mediatiche dell’ultimo millennio il libro, nato come pezzo unico e opera d’arte, diventa prodotto industriale di massa, per finire come qualcosa che può comporre chiunque sappia usare un computer e collegarsi in rete.

Una società in cui chiunque abbia accesso alla sfera pubblica e in cui la partecipazione amatoriale – per dilettantismo, per amore – di massa sia qualcosa di scontato, può essere imprevedibilmente diversa dal mondo gerarchico di produttori attivi e consumatori passivi a cui erano abituate le generazioni precedenti. Quando venne inventata la stampa a caratteri mobili, fu usata dapprima al servizio della religione costituita, riproducendo Bibbie e indulgenze: nessuno avrebbe immaginato che nel giro di pochi decenni sarebbe stata determinante per il successo della Riforma di Lutero.

L’esperienza delle rivoluzioni mediatiche del passato può però darci una prospettiva su qualche futuro possibile.

Nella prima metà del Seicento, non c’era, in principio, una gran differenza fra chimici e alchimisti: entrambi indagavano sui misteri della materia in laboratori di storte e alambicchi. La cerchia attorno a Robert Boyle.- il cosiddetto invisible college che fu il germe della Royal Society — abbracciò il principio di credere solo a quanto dimostrato e di sottoporre i suoi membri a reciproco esame. Questo principio li indusse alla pubblicità, alla chiarificazione e alla condivisione dei risultati e delle procedure: gli alchimisti, che lavoravano da soli, mantenevano il segreto e tramandavano il loro sapere da maestro ad allievo o lo divulgavano in modo oscuro, furono soppiantati nel giro di un paio di decenni. Gli adepti del collegio invisibile divennero scienziati non semplicemente perché usavano la stampa, ma perché la usavano per sostenere e diffondere una cultura di comunicazione, trasparenza e discussione libera.

La rete può essere un invisible college sia nel senso di una scuola media invisibile – un luogo di divulgazione, narcisismo ossessivo e socializzazione vuota – sia in quello di un”università invisibile in cui si fa ricerca, si condividono risultati e ci si sottopone a un libero esame reciproco al di là dalle gerarchie delle accademie visibili. Sta a noi, conclude Shirky, decidere quale delle due opzioni sarà prevalente.

Kant, scrivendo di filosofia della storia, osservava che non è difficile fare previsioni sul futuro se il profeta ha il potere di influenzare i fatti con le sue parole e le sue azioni. Umberto Eco, che, pur non disdegnando di approfittare del lavoro gratuito altrui su Wikipedia, pubblica ad accesso chiuso perché crede nell’insostituibilità dei filtri dell’editoria e dell’accademia, contribuisce col suo comportamento a creare il tipo di Internet che critica – la scuola media invisibile. I fisici delle alte energie, che mettono immediatamente a disposizione di tutti anche i loro risultati più controversi e li discutono in pubblico contribuiscono alla rete come università invisibile. Per Eco la fisica è una disciplina talmente esoterica da aver paradigmaticamente bisogno di un sistema di pubblicazione altrettanto esoterico: l’esperienza dei fisici, però, dimostra che perfino questo esempio non è del tutto appropriato.

In questo momento, ci sono collegi invisibili che riescono a riproporsi con successo nel passaggio dal mondo esclusivo della stampa a quello più aperto della rete, e altri – specialmente nel settore delle scienze umane – che non ci provano nemmeno, o lo fanno con esasperante lentezza. Una simile scelta però, se vogliamo prendere sul serio l’analogia proposta da Shirky, non è priva di conseguenze: chi, nel corso di una rivoluzione mediatica “democratizzante”, si comporta come gli alchimisti si espone al rischio di fare la loro fine.

ResearchBlogging.orgThe OPERA Collaboraton: (2011). Measurement of the neutrino velocity with the OPERA detector in the CNGS beam Arxiv arXiv: 1109.4897v1

David, P. (2008). The Historical Origins of ‘Open Science’: An Essay on Patronage, Reputation and Common Agency Contracting in the Scientific Revolution Capitalism and Society, 3 (2) DOI: 10.2202/1932-0213.1040

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Che cos’è la filosofia

Ecco una risposta che arriva dagli antipodi, tramite il blog di John Wilkins:

filosofia è quello che si fa quando i fatti non assicurano una soluzione.

Wilkins usa tutta la ricchezza di riferimenti che ci si può aspettare da una disciplina con una bibliografia millenaria. Ma la finezza della definizione sta nel suo carattere elementare: se chiedo come funziona un motore a combustione interna, uno scienziato risponderà con una spiegazione basata sulle leggi e sui fatti della natura. Se chiedo, però, che cosa vuol dire “spiegazione” e che cosa s’intende per fatti della natura, faccio filosofia. Cioè propongo domande che non hanno risposte, o ne hanno troppe, o hanno conseguenze talmente impopolari che pochi sono disposti a svilupparle fino in fondo.

In questo senso la filosofia è prima delle scienze, e alla loro origine, perché la fa chiunque compia ragionamenti sui ragionamenti, e anche dopo le scienze, perché continua a porre domande anche quando gli scienziati hanno offerto le loro risposte disciplinari.  E in questo senso il sapere della filosofia o è interdisciplinare e diffuso – nelle piazze e nella rete – oppure non è.

Filosofici non sono i testi accademici ad accesso chiuso che non escono dai dipartimenti di filosofia. Filosofici sono i collegamenti o link che ci fanno andare da un nodo all’altro, a cercare inutilmente un senso al tutto. Filosofica è la ricerca che trascende la regola acquisita.  Filosofico è il giudizio dei morti.

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Il crepuscolo delle idee

Segnalo questo dibattito non perché sia originale, ma perché non lo è per nulla: il suo tema è infatti quello, famosissimo, della critica alla scrittura contenuta nel mito platonico di Theuth, anche se non sempre chi discute ne è consapevole.

Secondo Neal Gabler (*) stiamo attualmente vivendo in un’età post-illuministica e “post-ideale”. Internet offre l’accesso a una quantità senza precedenti di informazione, che però non si trasforma in sapere, sia per la sua sovrabbondanza, sia il nostro imbarbarimento. Non ci sono più “grandi idee”: non abbiamo più visioni originali del mondo e teorie scientifiche in grado di catalizzare il dibattito al di là delle cerchie degli specialisti. Responsabili di questa situazione sono Internet in generale e i social media in particolare, che, sovraccaricandoci di informazione per lo più irrilevante, ci impediscono di riflettere.

Il Fedro di Platone non sosteneva nulla di diverso, quando trattava la scrittura – il primo strumento per conservare e diffondere il sapere che trascendeva le persone – come un mezzo che produceva soltanto un’illusione di cultura. L’informazione può trasformarsi in sapere esclusivamente tramite il ragionamento degli esseri umani entro comunità di conoscenza durevoli nel tempo.

Gabler riecheggia la pars destruens della tesi platonica senza citare il Fedro: le idee di Platone sono riuscite a crescere tanto da sparire dall’orizzonte semplicemente perché sono diventate esse stesse orizzonte. Chi pensa alle grandi idee come secrezioni di academic star al centro del dibattito pubblico non si avvede neppure di esservi dentro.

Secondo Megan Garber, Gabler ragiona nella prospettiva dei mezzi di comunicazione di massa del secolo scorso: le grandi idee per lui sono idea ampiamente riconosciute, conosciute e accettate. In questo senso, sono figlie di media non frammentati Fatalmente, in un mondo in cui le idee nascono e si diffondono orizzontalmente e collettivamente tramite media frammentati, chi condivide la prospettiva di Gabler tenderà a pensare che non ci sono più grandi idee solo perché vede orizzonti ma non stelle. “Lungi dal vivere in un mondo post-ideale, stiamo creandone uno così saturo di idee che stiamo perdendo il bisogno di distinguerle, innanzi tutto, come tali.”

Si deve aggiungere che la nostalgia per la gerarchia degli editori e dei filtri induce a prospettive virtualmente fuorvianti. Mentre le idee di Platone si sono fatte orizzonte grazie a comunità di conoscenza consapevoli che hanno sfidato i confini e i millenni, i social network sono nelle mani di aziende private non necessariamente trasparenti e i cui interessi hanno poco a che fare con la ricerca della verità. Vederli come praterie in cui i barbari galoppano liberi può essere molto pericoloso.

(*) Url alternativo: qui.

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Articoli e recensioni di Roberta Cavicchioli

CAVICCHIOLI, R., CAVAZZINI, A. Il sistema corporativo come forma politica. Profilo storico e metodologico e studio del contesto italiano in G. COFRANCESCO, F. BORASI, Il sistema corporativo come forma politica. Profilo storico e metodologico e studio del contesto italiano. Diritto e diritti a geometria variabile, Giappichelli, Torino, 2010, pp. 184-199.
CAVICCHIOLI, R (2011) Nietzsche e l’enigma dell’identità, la più difficile delle scoperte. Il corpo lente, il corpo testo. Magma- International Magazine- Portale Analisi Qualitativa, v.9 (1/2011). ISSN 1721-9809
CAVICCHIOLI, R. (2010) Dalla governamentalità alla biosocialità biopolitica e comune. Mimesis, «La rose de personne». La singularité du générique – Biopolitique et communisme, 1 (5/2010).
Si tratta di testi già pubblicati altrove, depositati nell’archivio Marini.
Chi fosse interessato a seguire l’archivio senza la nostra mediazione può usare i feed Atom o RSS presenti in home page.
 
 

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Andrea Capra, La tecnica di misurazione del Protagora

Si tratta di un articolo uscito nel 1997 presso gli “Annali della Scuola normale superiore di Pisa. Classe di lettere e filosofia”, pp. 273-327, ora liberamente disponibile perché depositato nell’archivio istituzionale dell’Università di Milano. Gli “Annali”, infatti, almeno nel momento in cui scrivo, risultano non accessibili in rete.  Questo è un danno grave per la disseminazione, la discussione e – in ultima analisi – l’effettiva valutazione dell’eccellenza della ricerca umanistica italiana, a cui  l’autoarchiviazione da parte degli autori e le politiche a favore dell’accesso aperto imposte da alcuni atenei possono  rimediare solo molto parzialmente.

Il Protagora ha sconcertato molti interpreti, perché sembra lasciare l’immagine di un Socrate edonista, che indulge ad argomenti francamente sofistici per avere la meglio sul suo interlocutore. L’articolo di Andrea Capra, riannodando i suoi temi attraverso operazioni di contestualizzazione sia interne al corpus platonico, sia esterne, mostra  che è possibile dargli un senso filosofico coerente.

Socrate ha di fronte un interlocutore che rifiuta esplicitamente il modello della techne perché pensa che il sapere etico-politico dipenda dall’opinione comune e sia di natura retorica.  Questo gli rende difficile usare la logica della definizione tassonomica, perché Protagora non ne riconosce neppure le premesse,  e gli impone un cambio di strategia.

  1. Socrate, alla maniera di Protagora, abbraccia l’opinione dei più con la tesi, dialetticamente depurata, dell’equazione fra bene e piacere.
  2. Mostra che anche chi crede che il bene sia uguale al piacere, per deliberare correttamente, ha bisogno di una tecnica di misura che soppesi i piaceri e i dolori esito di ciascuna azione.
  3. E conclude, contro Protagora, che la misura di tutte le cose non è l’uomo, bensì la scienza, perfino dal punto di vista ristretto di una morale coerentemente edonistica.

Il combinato disposto con il Gorgia mostrerà poi che questa tecnica della misura, che si occupa del benessere e della sopravvivenza fisica. è soltanto un’arte umile, e non può ambire alla formazione della perfezione umana di cui Protagora si professava maestro, Ma la tesi edonista, da sola, è già sufficiente a spezzare l’incanto della retorica prendendola, per così dire, in parola.

Questo ipertesto dedicato al Protagora perviene a una conclusione molto simile, valendosi però di un percorso  in parte diverso, perché più dipendente dal Menone e dal Fedro. Il fatto che per raggiungere una stessa meta si possano seguire itinerari differenti contribuisce a rendere verosimile l’ipotesi di una struttura ipertestuale del corpus platonico nel suo complesso.

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Alessandra La Rosa, La solidarietà come impresa pratica e teorica nella Francia della Terza Repubblica. L’apporto di Léon Duguit

L’articolo di Alessandra La Rosa, depositato nell’Archivio Marini, ricostruisce il contributo del giurista Léon Duguit al dibattito che a cavallo tra XIX e XX secolo si sviluppò in Francia sul tema del rapporto tra società e stato. Il contesto storico è quello della terza repubblica, la questione di fondo il tentativo di legittimare il superamento del modello di statualità sancito dalla rivoluzione dell’89 e incentrato sull’asse duale stato-cittadino.

La Rosa mette in luce la tendenziale convergenza tra l’ideologia repubblicana – in particolare nella versione sostenuta da radicali e socialisti riformisti – e la corrente intellettuale riconducibile alla sociologia positivista, i cui influssi sul pensiero di Duguit sono evidenti. La prima puntava ad abbandonare la concezione dello stato liberale classico, in nome di un Etat collaboration votato a realizzare il principio del servizio pubblico attraverso l’estensione dei propri compiti: è a partire degli inizi del 900 che si intensificarono gli interventi relativi a istruzione, assistenza, previdenza, regolazione dei rapporti tra capitale e lavoro. La seconda fu fonte di categorie teoriche al servizio di una visione organica della società, alternativa tanto all’individualismo liberale quanto al pensiero marxista. Oltre a Durkheim, con la divisione del lavoro e l’idea funzionalista dell’interdipendenza sociale, La Rosa richiama il “pensiero solidarista” di figure come Bourgeois e Bouglé. La solidarité positivista, che permea anche le idee giuridiche di Duguit, individua nella dipendenza reciproca tra gli attori sociali un prius rispetto alla dimensione dell’autonomia individuale, anche se non è pacifico se i doveri impliciti nei vincoli relazionali corrispondano a imperativi morali da realizzare o piuttosto a trame funzionali che si sviluppano deterministicamente prescindendo dalle volontà dei singoli. Ad ogni modo, il solidarisme assurse a strumento ideologico delle terza repubblica, “voie moyenne” tra individualismo e collettivismo, ponte tra liberalismo e socialismo, architrave di un progetto politico volto ad armonizzare i conflitti, e non a caso inviso sia alla destra nazionalista sia alla sinistra più intransigente.

Il contributo specifico di Duguit si colloca nell’ambito della dottrina costituzionale e di diritto pubblico. Per demolire l’idea di stato moderno partorita dall’89, Duiguit aggredisce due pilastri: il contrattualismo di origine giusnaturalista e il concetto di sovranità. Entrambi, facce della stessa medaglia, rimanderebbero all’astrattezza metafisica della cultura illuministica, che assegna all’individuo presunte prerogative giuridiche sotto forma di diritti soggettivi e investe lo stato della titolarità del potere sovrano in modo esclusivo. Il grimaldello per rompere la polarità individuo-stato è il concetto di diritto oggettivo, che sposta il baricentro teorico nella società, trama originaria di rapporti e funzioni, al di fuori della quale gli individui non sarebbero nulla. Nell’accezione proposta da Duguit, il diritto oggettivo altro non è se non l’insieme di regole immanenti al corpo sociale, e corrisponde ai legami che in esso si determinano. Il modo in cui viene inteso il diritto oggettivo ha una duplice conseguenza. Per quanto riguarda i diritti individuali, attribuzione, esercizio e limiti non possono essere identificati a priori, ma devono soggiacere al criterio della solidarietà sociale. È significativo che Duguit parli di “libertà funzione”, per sottolinearne la dipendenza dagli obblighi di integrazione sociale, che dovrebbero orientare gli stessi contenuti delle leggi positive. Stesso discorso vale per il diritto di proprietà, che andrebbe subordinato al compimento di una determinata funzione sociale e rispondere al principio di solidarietà. Dal lato della sovranità statale, l’impostazione di Duguit implica che lo Stato, come scrive La Rosa, “nell’agire per la società può operare solo tenendo conto del presupposto del diritto sociale” (p. 23). Il pensiero di Duguit approda a lidi corporativi – di questo tema La Rosa si è occupata altrove – avanzando la proposta di trasformazione del Senato in Camera delle rappresentanze professionali. Si tratta dell’esito conseguente del suo “pluralismo giuridico”, che mira ad estendere sul piano istituzionale il peso di quei corpi intermedi – associazioni, sindacati – i quali proprio tra otto e novecento divennero nuovi protagonisti della vita sociale ed economica. Un esito che rinvia al più ampio dibattito, non solo francese, collegato al tentativo – i cui frutti saranno controversi – di individuare una possibile “terza via” tra capitalismo e comunismo.

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