Leggere Mary Wollstonecraft oggi. Note a partire da Carlotta Cossutta, “Avere potere su se stesse: politica e femminilità in Mary Wollstonecraft”

DOI

Mary Wollstonecraft by John Opie (c. 1797)

Questo testo è stato scritto in occasione dell’evento Libri di donne: presentazione di opere di filosofe a cura di SWIP Italia, 15 maggio 2023, discussants: Brunella Casalini (Università di Firenze) e Fiorenza Toccafondi (Università di Firenze), moderatrice: Vera Tripodi (Politecnico di Torino), nella forma di una presentazione online del volume di Carlotta Cossutta (Scuola Normale Superiore, Pisa), Avere potere su se stesse. Politica e femminilità in Mary Wollstonecraft, Pisa, ETS, 2021.

La prima lezione che possiamo apprendere da questo bel lavoro di Cossutta è che si può e si deve tornare a leggere Wollstonecraft non solo in una prospettiva di storia del pensiero e delle idee politiche, ma anche in una chiave filosofico-politica intesa come riflessione critica sul presente. Questa scelta interpretativa poggia su una mossa critica fondamentale che consiste nel mettere in discussione la ricostruzione del pensiero femminista come scandito dal succedersi di diverse ondate, ciascuna separata da una cesura dalle successive. Una lettura che condannerebbe il pensiero di Wollstonecraft a rimanere relegato alla fase del proto-femminismo.

Pur nella varietà delle imprese editoriali in cui si è imbarcata e nei mutamenti intervenuti tanto nella scelta del registro stilistico-comunicativo quanto del pubblico al quale rivolgersi, Wollstonecraft lavora con continuità intorno ad alcuni interrogativi che rinnova a se stessa nel tempo alla luce delle proprie variegate esperienze di vita e del confronto costante con autori e autrici contemporanei, un confronto che coltiva con passione anche attraverso intensi rapporti epistolari.

Centrali sono le domande su cos’è una donna, su quali sono le ragioni della sua oppressione, su come si diventa donna e su cosa potrebbe divenire una donna in mutate circostanze sociali, politiche ed economiche. Interrogativi ai quali risponde rifiutando una prospettiva essenzialista, che riconduca i difetti femminili, e la condizione di inferiorità sociale nella quale le donne del suo tempo si trovano, ad una presunta natura femminile. La femminilità è, per Wollstonecraft, una costruzione sociale: sia il corpo che la mente della donna sono plasmate socialmente. Cossutta propone in proposito un parallelo efficace tra la riflessione di Wollstonecraft e quella sviluppata da Iris Marion Young in Throwing like a girl. A Phenomenology of Feminine Body Comportment Motility and Spatiality, un articolo in cui l’analisi fenomenologica primo novecentesca viene corretta ricordando quale visione dello spazio emerga a partire dall’esperienza di uno specifico corpo, ovvero del corpo femminile, un corpo educato a sentirsi di troppo e fuori luogo, che deve quindi cercare di muoversi nel perimetro più stretto possibile, persino quando si tratta di lanciare una palla.

La realtà femminile viene scoperta, d’altra parte, molto presto da Wollstonecraft come plurale: non esiste la donna, ma le donne, nelle diverse condizioni economiche e sociali nelle quali la vita le ha gettate. Le donne dell’aristocrazia sono le figure femminili su cui maggiormente si appiglia la vena polemica di Wollstonecraft: il loro corpo e le loro menti rappresentano al massimo grado le distorsioni che sono capaci di produrre relazioni incentrate sul dominio quando si crea un rapporto di complicità tra le soggettività oppresse e l’oppressore. Costrette ad assumere un atteggiamento adulatorio verso i mariti da cui dipende la loro sorte, le donne dell’aristocrazia sfogano la loro frustrazione sulla servitù, sviluppando un atteggiamento di cinica freddezza.

Non solo la femminilità è trattata come un problema di costumi che condizionano le condotte, plasmando atteggiamenti e propensioni mentali, oltre che posture e corpi; altrettanto lo è la mascolinità – come mostra nella Vindication of the Rights of Woman l’attenzione dedicata all’esercito e agli effetti che le gerarchie producono anche nella soggettività maschile. Nell’articolare la propria visione della femminilità e della mascolinità intorno all’idea di un dominio che corrompe tanto chi lo esercita quanto chi vi è sottoposto, precludendo al primo l’accesso alla realtà e costringendo il secondo all’adozione di atteggiamenti adulatori e ipocriti, Wollstonecraft attinge ad una particolare tradizione politica: quella repubblicana. Una tradizione politica fondamentale anche per comprendere la sua interpretazione dei diritti, della libertà, della cittadinanza e della virtù; un’interpretazione contaminata dall’ispirazione repubblicana e, al tempo stesso, basata su una sua inevitabile riformulazione.

Un ulteriore elemento di continuità tra la prospettiva filosofico politica di Wollstonecraft e quella del femminismo contemporaneo – come osserva Cossutta – è dato proprio dal confronto con il canone maschile. Wollstonecraft, come altre autrici del suo tempo, non poteva evitare di misurarsi con gli strumenti concettuali offerti dal canone maschile egemonico; al tempo stesso, tuttavia, era costretta a usarli per altri fini o a reinventarli per creare una propria cassetta degli attrezzi e lo spazio teorico necessario a far emergere la prospettiva delle donne. Nella visione di Wollstonecraft è chiaro da subito che la questione femminile non può essere risolta semplicemente attraverso un’estensione dei diritti: farla entrare nell’ambito del dibattito teorico-politico ha implicazioni molto più ampie e radicali. Non basta appropriarsi del canone, bisogna trasformarlo creando le risorse per l’articolazione di una scrittura femminile. Non è sufficiente adottare la prospettiva teorico-politica repubblicana, è necessario ripensarla a cominciare dalla messa in discussione della distinzione pubblico/privato e da una ridefinizione della nozione stessa di virtù.

Nel corso del tempo, tuttavia, Wollstonecraft perde la fiducia che ancora aveva nelle sue prime opere, in particolare nelle due Vindication, di riuscire ad aprirsi un varco per partecipare al discorso maschile dei suoi affini repubblicani, di farsi in qualche modo accettare e accogliere. Negli ultimi lavori Wollstonecraft sembra voler ignorare la possibile reazione maschile per poter così lasciare veramente libera la propria immaginazione politica. Se l’autrice ha sempre strenuamente coltivato la libertà di pensare con la propria testa, questa libertà si dispiega completamente solo nel momento in cui decide di rivolgersi ad un pubblico prevalentemente femminile, anche scegliendo una scrittura che si allontana dal canone di un’argomentazione classicamente intesa come teoria. Il cambiamento in termini stilistici, la scelta della forma letteraria dell’epistola, in Letters Written during a short residence in Sweden, Norway and Denmark, e del romanzo, in Mary, a Fiction e in Maria, or the Wrongs of Woman, non segnano un ripiegamento verso una scrittura più intimista e meno polemica. In aperta critica al romanzo sentimentale borghese che anima la conversazione nella sfera pubblica letteraria settecentesca, i romanzi di Wollstonecraft intendono portare le donne e il discorso sulla questione femminile all’interno della sfera pubblica politica. La forma del romanzo configura, per la sua scrittura, la possibilità di dispiegare il suo pensiero su un terreno politico insieme polemico e costruttivo. Tutto ciò accade anche perché quel genere letterario le consente più facilmente di sentirsi “a casa”, tra donne, di rivolgersi a chi – ricorda Cossutta (p. 26) – è in grado non solo di comprendere ma anche di “sentire” quanto lei intende argomentare.

Non è difficile scorgere anche in questo aspetto del percorso di Wollstonecraft un elemento di continuità con la riflessione filosofico politica femminista contemporanea su cosa debba considerarsi legittimamente teoria politica e cosa non ne abbia dignità. Scrive Cossutta: “La messa in discussione della forma argomentativa, di che cosa possa essere ritenuta teoria politica e di come la si possa comunicare, è un’interrogazione che le teorie femministe continuano a porre e a porsi” (p. 27). Ed è un’interrogazione strettamente connessa ad un diverso modo di declinare la razionalità, che per Wollstonecraft, come per buona parte della filosofia femminista contemporanea, va di pari passo con la riconciliazione tra ragione, emozioni e passioni. Nelle Letters written during a short residence in Sweden, Norway and Denmark, Wollstonecraft osserva: “ragioniamo profondamente quando sentiamo con forza” (cit. a p. 29). La passione è una molla fondamentale per la riflessione; in particolare, nella prospettiva filosofico politica, lo è la passione per la giustizia sociale mossa dalla percezione delle ingiustizie – come suggerisce Iris Marion Young, che anche su questo sembra muoversi in perfetta sintonia con Wollstonecraft.

La prospettiva pedagogica che attraversa tutta l’opera di Wollstonecraft, che il suo discorso assuma o meno la forma del trattato pedagogico, come accade nei primissimi scritti, che si tratti di riflessioni sull’auto-formazione, sul ruolo e l’importanza della lettura, dell’ascolto e della possibilità di confrontarsi con persone che possono diventare interlocutori privilegiati, è senz’altro cruciale nella sua comprensione della necessità di riconoscere la natura politica dello spazio privato, delle relazioni familiari e più in generale delle relazioni sociali. Ciò è possibile anche perché non è in discussione tanto l’istruzione quanto l’educazione nel senso di una socializzazione che favorisca la formazione di un sé capace di pensare autonomamente. In altri termine, ciò cui dobbiamo prestare attenzione, per Wollstonecraft, è il modo in cui l’organizzazione e le forme delle relazioni sociali, a cominciare dalle relazioni primarie, si riflettono nello sviluppo delle capacità della persona – oggi, utilizzando il lessico di Sen e Nussbaum, diremmo delle capabilities.

Su tutti questi temi, l’autore con cui il confronto sarà più serrato è, senz’altro, Rousseau, di cui Wollstonecraft condivide sia l’idea che l’educazione ha il “compito di creare una società giusta” sia che essa debba “prestare attenzione anche alla felicità dei bambini educati” (cit. pp. 82-83). Con Rousseau, tuttavia, Wollstonecraft non può fare a meno di ingaggiare anche un’accesa battaglia polemica sul tema dell’educazione delle donne. Una polemica che, in ultima analisi, non è che il preludio a una critica complessiva dell’ideale di cittadino e di cittadinanza proposta da Rousseau, così come di quella tradizione delle sfere separate che egli più di ogni altro pensatore settecentesco ha contribuito a delineare. Il terreno della critica a Rousseau diventa così una sorta di palestra per denunciare l’errore di distinguere due tipi di educazione: quella maschile, volta alla creazione del cittadino e della virtù pubblica, e quella femminile, finalizzata alla creazione della madre e della virtù privata.

Educare alla cura di sé e dell’altro, al fine di evitarne la sofferenza, è l’essenza dell’educazione che dovrebbe emergere in una società giusta. Le donne dell’aristocrazia, educate a preoccuparsi dello sguardo maschile e del giudizio dell’opinione pubblica, sono incapaci di ascoltare i loro bisogni così come di prendersi cura dei loro figli. Gli uomini, d’altra parte, educati all’adulazione, cadono facilmente vittima dell’inganno femminile; la loro presunta autonomia poggia sull’incapacità di pensarsi in relazioni di reciprocità. Da questo punto di vista, la critica a Rousseau porta l’autrice a formulare sia una diversa nozione di autonomia, che si fonda sulla reciprocità relazionale, sul rispetto reciproco proprio delle relazioni amichevoli, sia su una diversa nozione di virtù valida sia per il privato che per il pubblico: la modestia.

Wollstonecraft, nella seconda Vindication, distingue modestia e umiltà: definisce la prima come una “sobrietà della mente che insegna all’uomo a non avere di se stesso una considerazione maggiore di quanto non dovrebbe” e l’umiltà come una sorta di “autodenigrazione”. La modestia, “l’abito più bello della virtù (the fairest garb of virtue)” e il “frutto sacro della sensibilità e della ragione (sacred offspring of sensibility and reason)”, è una virtù trascurata o relegata nella sfera privata femminile tanto nel modello repubblicano di Rousseau, incentrato sulla figura del cittadino in armi, la cui virtù è data dalla forza, quanto dal modello della repubblica commerciale che – come Wollstonecraft rimprovera a Imlay in una lettera – sembra mantenere “la mente” e le “passioni” “in un continuo stato di agitazione (p. 172).

La modestia è una virtù sfuggente, che sta tutta nel tentativo costante di raggiungere un equilibrio tra il non esaltarsi e il non denigrarsi. Sembra dotata del potere di far cadere in contraddizione chi dice di possederla: dire “Sono modesta” suona contraddittorio, se non ridicolo. È una virtù che sta agli altri semmai riconoscere, ma che in ogni caso non ha bisogno di andare in cerca di alcuna forma di riconoscimento. È una consapevolezza di sé che è giusta, per Wollstonecraft, nella misura in cui ci rende consapevoli delle nostre possibilità e dei nostri limiti. È fondata su un autogoverno che consiste nella capacità di mettersi in secondo piano, di decentrarsi, capacità indispensabile per raggiungere qualsiasi obiettivo, per essere utili agli altri. In fondo, sia la vanità che l’arroganza così come l’auto-denigrazione condividono il vizio di un’eccessiva concentrazione su di sé, di dare un’eccessiva importanza al proprio ego.

La modestia è quella virtù che consiste nel farsi né troppo grande né troppo piccolo rispetto agli altri, due vizi che – come suggerisce Vrinda Dalmiya in Caring to Know. Comparative Care Ethics, Feminist Epistemology, and the Mahābhārata (OUP 2016), una lettura che potrebbe essere utile per integrare la riflessione inaugurata qui da Cossutta a partire da Wollstonecraft – precludono l’accesso a quei beni epistemici che possono derivare dalla disposizione a correggere se stessi, ad aprirsi alle emozioni.

Come sottolinea Cossutta, Wollstonecraft sceglie di parlare di “modestia”, piuttosto che di “umiltà”, perché è il termine più spesso associato alle virtù femminili. L’associazione tra modestia e femminilità è ribadita a più riprese nel testo della seconda Vindication con il rimando alla nozione di pulizia: la pulizia della casa, dei comportamenti, della mente e del cuore. “Il riserbo personale e il sacro rispetto per la pulizia e la delicatezza nella vita domestica […] sono gli aggraziati pilastri della modestia” (The personal reserve, and sacred respect for cleanliness and delicacy in domestic life […] are the graceful pillars of modesty) – scrive Wollstonecraft. Il riserbo, la pulizia della casa sono attività di cura che presuppongono attenzione a sé, ma anche all’altro. Wollstonecraft associa la modestia anche all’utilità, all’altruismo e, non ultimo, al sentimento di umanità. Scrive:

“Fa che il cuore sia pulito, si espanda e senta tutto ciò che è umano, invece di essere ristretto da passioni egoistiche; e che la mente contempli spesso argomenti che esercitino la comprensione, senza riscaldare l’immaginazione, e la modestia darà il tocco finale al quadro” (Make the heart clean, let it expand and feel for all that is human, instead of being narrowed by selfish passions; and let the mind frequently contemplate subjects that exercise the understanding, without heating the imagination, and artless modesty will give the finishing touches to the picture).

La modestia diventa, nella seconda Vindication, la virtù centrale di “una repubblica ben ordinata anche nella sfera privata”. Una repubblica è “ben ordinata” grazie alla capacità di autogoverno dei suoi cittadini e delle sue cittadine. Una capacità di autolimitazione e controllo nella propria vita privata, che trasforma la relazione matrimoniale in una solida e duratura amicizia tra i coniugi, incentrata sulla stima reciproca. Wollstonecraft sicuramente non ritiene che la parzialità degli affetti familiari sia un impedimento all’allargamento dei sentimenti in una direzione patriottica e cosmopolitica. È piuttosto vero il contrario – osserva Cossutta: “L’idea di Wollstonecraft degli affetti familiari, al contrario, fa della famiglia il terreno fertile di una benevolenza repubblicana e universale” (p. 125). Leggi e istituzioni hanno, però, snaturato il senso delle relazioni familiari, trasformandole in relazioni di dominio e per le donne in una forma di schiavitù, attraverso un’estensione inappropriata del concetto di proprietà: la donna come lo schiavo è diventata una proprietà dell’uomo.

Il concetto di proprietà, così come è stato teorizzato dal diritto moderno, quindi deve essere oggetto di una disamina. Il tema – come mette in evidenza Cossutta – era già accennato nella prima Vindication, dove la schiavitù veniva considerata non una distorsione ma un male intrinseco della società mercantile. Ritorna con ancora più forza nel romanzo Maria, or the wrongs of woman, soprattutto attraverso la figura di Jemima, che consente a Wollstonecraft di ampliare la sua riflessione all’intreccio tra genere e classe. Jemima, infatti, è una donna di umilissime origini, costretta per un certo periodo della sua vita a prostituirsi per sopravvivere. Se nella seconda Vindication sul tema della prostituzione si può riscontrare una vena di moralismo, in Maria, or The Wrongs of Woman, Wollstonecraft sembra giunta ad una diversa e più profonda comprensione del peso delle condizioni materiali: Jemima è una donna che nel suo percorso ha incontrato ostacoli che avrebbero potuto annientarla, per superare i quali a nulla sarebbe servita la virtù della modestia. Jemima viene salvata dall’incontro con uomo abbiente e colto, inizialmente interessato solo al suo corpo, che nel tempo le offre la possibilità di costruirsi un’educazione sufficiente ad acquisire stima di sé, coraggio di essere se stessa e di sfidare la società. Solo mutate condizioni materiali danno a Jemima la possibilità di acquisire una voce, di far sentire la voce del margine. Attraverso Jemima, insomma, Wollstonecraft sembra correggere il tiro rispetto alla seconda Vindication e affermare che la ricchezza non ha solo la capacità di corrompere la virtù e distorcere le finalità dell’educazione. La ricchezza, quando diventa l’unico fondamento su cui poggia una società, può essere crudele e spietata nei suoi meccanismi e nella sua logica: senza una base materiale che fornisca sicurezza e un riparo, si è lasciati in balia della violenza, nelle sue molteplici forme; si rischia costantemente di venire annientati nella propria umanità.

La critica alla teoria della proprietà lockeana fondata sulla proprietà di sé incontra limiti evidenti se guardata con occhi femminili, con gli occhi di chi all’epoca, in quanto donna, sapeva di non poter essere proprietaria di sé, né del proprio corpo, soprattutto se non sposata e priva di ogni mezzo, come Jemima. Il cenno forse più esplicito a questa mancanza di proprietà sul proprio corpo da parte dei poveri si trova in una pagina di Maria, or The Wrongs of Woman, non citata da Cossutta, ma a cui le sue riflessioni hanno riportato la mia memoria. Si tratta della pagina in cui Jemima racconta che per un incidente alla gamba durante il lavoro pesante di lavandaia è costretta a recarsi in ospedale:

Non riesco a darvi un’idea adeguata della miseria di un ospedale; ogni cosa è lasciata alla cura di persone intente a guadagnare. Gli assistenti sembrano aver perso ogni sentimento di compassione nell’affannoso svolgimento delle loro mansioni; la morte è così familiare per loro che non si preoccupano di scongiurarla. Ogni cosa sembrava essere condotta per favorire i medici e i loro allievi, venuti a fare esperimenti sui poveri a beneficio dei ricchi. (I cannot give you an adequate idea of the wretchedness of an hospital; every thing is left to the care of people intent on gain. The attendants seem to have lost all feeling of compassion in the bustling discharge of their offices; death is so familiar to them, that they are not anxious to ward it off. Every thing appeared to be conducted for the accommodation of the medical men and their pupils, who came to make experiments on the poor, for the benefit of the rich).

Jemima si lascia qui andare a una riflessione su come l’ospedale fosse congegnato per sperimentare sul corpo dei poveri nuove cure nella speranza che un giorno possano curare i ricchi. Sappiamo bene, del resto, come soprattutto la ginecologia moderna sia nata dalla sperimentazione sui corpi delle malate che giungevano nei nosocomi in condizioni di indigenza. Una condizione che chiaramente mostra come, per la popolazione ridotta in povertà, neppure la proprietà di sé fosse realmente possibile. Da qui, la necessità, per Wollstonecraft, di riformare la società anche dal punto di vista economico, degli stili di vita, di consumo e di produzione, al fine di creare una maggiore uguaglianza materiale, per arrivare alla realizzazione di una società giusta. Continua a rimanere centrale la capacità di autogoverno, di essere padrone di sé, che implica la forza di stare fuori dalle leggi della società, se necessario, di essere “fuorilegge” – come Jemima e Maria si trovano ad essere per aver sfidato le norme sociali –, ma anche il sapere imporre dei limiti ai propri bisogni. Una virtù che si può esercitare, però, solo se la società garantisce una base materiale che consenta a tutti di soddisfare i bisogni essenziali.

Wollstonecraft cerca un’alternativa alla società mercantile. Come già aveva proposto nella Vindication of the Rights of Men, contro la visione economico-politica burkeana, in Mary, a Fiction torna all’immagine del cottage, della casa di campagna, dove è possibile condurre una vita frugale in armonia con sé stesse, con gli altri e con la natura. In Maria, or the Wrongs of Woman, questa piccola comunità eterotopica è una comunità di sole donne: di Maria, della figlia ritrovata di costei e di Jemima. “Nell’inaspettata famiglia di Maria e Jemima – commenta Cossutta – è […] possibile vedere un ideale politico, nutrito sia dalla teoria che dalle vite reali, in grado di sovvertire la disuguaglianza delle donne partendo non solo dall’istruzione, ma anche dalle condizioni materiali” (p. 150).

Senza voler, per forza, ritrovare in Wollstonecraft anticipazioni di tutto ciò che di interessante e importante offre la riflessione femminista contemporanea, senza farne “una sorta di talismano” (p. 210), non si può non concordare con Cossutta sulla possibilità di trovare stimoli tuttora validi per pensare il presente nel pensiero di quest’autrice settecentesca. Non ultimo anche per la sua critica agli effetti negativi prodotti sulla società e sulle soggettività da una fredda razionalità economica orientata ad una crescita fine a se stessa e cieca di fronte ai mali prodotti da crescenti disuguaglianze sociali.

Tags:

Accessi: 334

Brunella Casalini, La cura della vita, dei giovani e delle generazioni

chiocciola

“Non è segno di salute mentale essere ben adattati ad una società profondamente malata”.
Jiddu Krishnamurti

Il discorso dell’intervento della Presidente del Consiglio degli studenti Emma Ruzzon durante la cerimonia di inaugurazione dell’università di Padova sono sicura risuoni oggi nelle aule di tutti gli Atenei italiani. Con intelligenza la studentessa ha saputo raccogliere, e con coraggio pronunciare ad alta voce, di fronte alle autorità, parole che nelle università circolano da tempo, anche se spesso ai  suoi margini. La situazione creata dal COVID-19 negli ultimi tre anni ha fatto esplodere un malessere che era presente ormai da anni. Il malessere di tante/i non solo tra coloro che studiano, non solo tra i precari della ricerca, ma anche tra chi nell’università si trova nella posizione privilegiata di docente strutturata/o e persino tra chi lavora nell’amministrazione. Persino l’amministrazione universitaria, infatti, è stata spinta dal succedersi delle riforme a una costante corsa per il raggiungimento degli obiettivi necessari a raggiungere l’eccellenza entro un sistema competitivo, mentre il blocco del turnover – anche nel loro caso, come nel caso dei docenti e ricercatori – riduceva le risorse umane disponibili.

L’università contemporanea è espressione di una società che ha scelto, e continua a scegliere ogni giorno, una narrazione individualista che — come ha ricordato Ruzzon nel suo discorso — è fortemente incentrata sul merito e sulla responsabilizzazione individuale. Una società in cui persino per avere una vita dignitosa devi dimostrare di meritartelo, dove anche studiare è diventata una gara.

La combinazione del mito dell’individualismo, del mito del merito e di quello della misurazione della performance è stata potente nel rendere invisibili le condizioni strutturali che determinano vantaggi e svantaggi sociali. Ancor più potente è  stata nel mostrare come i vantaggi si cumulino e diventino privilegi e gli svantaggi si cumulino e diventino oppressione, laddove la struttura sociale sia congegnata per favorire la riproduzione di alcune vite, lasciandone prive di cura e attenzione altre. In altri termini, ha saputo non solo distogliere il nostro sguardo dalle disuguaglianze economiche e sociali crescenti che caratterizzano oggi il nostro paese, ma anche offrirne una legittimazione talmente efficace da divenire mentalità diffusa.

L’accesso all’università e ancor di più l’accesso ai dottorati e alla carriera accademica è tornato ad essere una questione di classe – come sottintendono le parole di Ruzzon. La nostra è tornata ad essere una società priva di mobilità sociale e rischia di avere un’università accessibile solo alla gioventù economicamente agiata; un’università, quindi, in cui la società nella sua diversità non sarà rappresentata e in cui il sapere non risponderà ai bisogni della società.

L’università ha sofferto e soffre di questo “incantesimo” dell’individualismo, del merito e della misurazione più di altre istituzioni. Sono molti gli esempi che potrebbero essere proposti per illustrare le distorsioni che il sistema attuale produce nella vita universitaria, distorsioni da molti altre/i da tempo denunciate senza ottenere ascolto. Voglio, però, rimanere qui a quella che dovrebbe essere la funzione prioritaria dell’università accanto a quella della ricerca, ovvero la funzione di una didattica che della ricerca si alimenta, che è volta a trasferirne i risultati e soprattutto dovrebbe trasmettere il valore dell’onestà intellettuale, la passione per lo studio, per l’approfondimento, la riflessione, il pensiero critico, il confronto e lo  scambio.

Questa trasmissione avviene solo nel momento in cui la/il docente riesce a creare in aula un clima accogliente, di ascolto e attenzione reciproca e a gettare le basi di una relazione di mutuo sostegno. Da questo punto di vista, la didattica – come ogni lavoro di cura – è un lavoro che consuma energie mentali non solo per l’impegno necessario a trasmettere contenuti, anche complessi, ma anche, e talvolta soprattutto, nel mantenere, curare e riparare la relazione con chi sta camminando sulla strada dell’apprendimento e della formazione. Un cammino che spesso procede oltre l’aula nel percorso per l’elaborazione della tesi, nel quale la relazione diventa più ricca e appagante, e l’attenzione, come la fiducia reciproca, deve essere ancora più grande. Tutto questo richiede tempo: ogni lavoro di cura richiede un tempo non misurabile e non quantificabile. Ogni lavoro di cura – e soprattutto l’insegnamento in ambito universitario – deve concedersi e deve concedere il tempo necessario ad ottenere l’obiettivo della fioritura di una vita individuale, fioritura che avviene solo nell’ascolto, nel camminare accanto, più che dinnanzi, a chi sta crescendo intellettualmente.

La/il docente oggi, però, oltre alla ricerca che nutre la sua didattica è chiamato a svolgere una molteplicità di altri ruoli: le missioni del docente universitario si moltiplicano entrando tra loro in tensione e creando talvolta conflitti che non possono essere risolti che attraverso decisioni individuali più o meno costose. L’impegno nella docenza entra così, per esempio, in conflitto con quello per la pubblicazione dei c.d. “prodotti della ricerca”, la loro collocazione in riviste o editori prestigiosi, o con il fundraising o ancora con la terza e ora anche la quarta missione. Non tutte queste attività premiano nello stesso modo nella carriera, e così talvolta la scelta viene fatta meramente sulla base dell’opportunità, anche in considerazione di ciò che offre maggiore visibilità.

La dimensione della relazione viene sacrificata, che si tratti del rapporto con chi studia con noi o delle/dei colleghi con cui lavoriamo. Rischia, però, di venir sacrificato anche lo studio. Ogni tanto capita di sentire qualche collega che stanco, a mo’ di battuta —ma di quelle battute che tutti sanno nascondono verità —, si lascia andare a dire che nell’università è ormai sempre più raro che un professore/una professoressa abbia tempo per studiare!

Lo studio richiede di dimenticarsi il tempo e di rallentare. Per tuffarsi nella lettura ci si deve concedere un tempo che si ribella ai ritmi di una vita di corsa, di una vita a ritmi sempre più accelerati. Leggere riflessivamente, con attenzione profonda – come ricorda Bernard Stiegler in Prendre soin: De la jeunesse et des générations (2008) –, è il modo attraverso il quale come esseri umani entriamo in contatto con l’altro oltre il tempo e lo spazio, manteniamo il filo del discorso ininterrotto tra le generazioni, costruiamo cultura. Nella lettura non siamo in gara con l’autore del libro che stiamo leggendo: il lettore collabora alla vita del libro e può, grazie al dono che l’altro gli ha fatto con la sua scrittura, far continuare oltre e altrove il viaggio delle idee. Le idee infatti non vivono nel mercato – come sostengono spesso coloro che vorrebbero trasformare ancora di più l’università in un’azienda. Le idee hanno bisogno di tempo per essere elaborate ed essere trasmesse. Avere tempo, d’altra parte, è possibile soltanto se si ha una stabilità sul piano economico, se non si vive in un precariato che costringe a correre e a sottostare al ricatto. Il precariato universitario è un modo per tentare di uccidere la libertà di ricerca, soprattutto di coloro che esprimono il punto di vista di saperi socialmente soggiogati e costretti ai margini. Le idee mainstream trovano, sì, sempre un mercato che è pronto ad accoglierle, perché più facili da vendere ai più.

La metafora della gara è una vecchia rappresentazione dell’individualismo. Parlando di ciò che distingue l’individualismo moderno dall’egoismo come passione umana universale, Tocqueville, nella De la démocratie en Amerique (1835-1840), utilizzava l’immagine della corsa: ogni individuo corre, voltando con ansia ogni tanto lo sguardo indietro per essere sicuro di non essere raggiunto e superato. Nel tentativo di arrivare primi, si perde di vista la dimensione della relazione, dei legami sociali: l’individuo moderno finisce così per avere relazioni stabili e intime solo con la cerchia sempre più ristretta dei familiari.

Andando oltre Tocqueville, e guardando all’oggi, potremmo dire che il costante sentirsi in gara costringe l’individuo ad un isolamento da cui diventa sempre più difficile uscire, che diventa difficile abbandonare anche quando affiora la consapevolezza che l’isolamento rende deboli, deprime le energie e fiacca la motivazione. (La gara stessa, in fondo, funziona solo finché riconosco gli avversari e il senso condiviso dell’impresa per cui insieme si compete e se ho la consapevolezza che si sta compiendo, anche nella competizione, un’impresa comune.) Come ricorda Arendt in The Origins of Totalitarianism (1951), proprio dell’isolamento tra gli individui si avvalgono i regimi autoritari per governare più facilmente la società civile, per tenerla meglio sotto controllo. Certo, l’isolamento non è ancora l’estraneazione, la perdita di sé e di mondo, su cui fanno leva i regimi totalitari, perché consente la solitudine e quindi il dialogo interiore. Quando, tuttavia, l’individuo isolato diventa dipendente da un mondo digitale che oggi promette attraverso i social un surrogato della vita reale, meno faticosamente raggiungibile e più generoso di like, il rischio dell’implosione del sé aumenta e con esso il rischio dell’implosione di ogni baluardo a difesa della libertà e delle istituzioni democratiche.

Queste considerazioni per dire grazie a Emma Ruzzon per averci restituito con parole lucide la fotografia del nostro paese, attraverso il ritratto delle nostre università. Grazie per averci ricordato che il malessere della gioventù è uno specchio del grado di gravità della malattia da cui è afflitta la nostra società. Non bastano punti di ascolto psicologico destinati a chi studia, né Comitati Unici di Garanzia per il benessere organizzativo, a risolvere il problema dell’università oggi. Dovremmo arrestare la corsa, fermarci a riflettere su cosa si è rotto socialmente e come lo si può riparare. Per l’università questo significa tornare a interrogarsi sul suo mandato, sul senso del suo stesso esistere.

Tags:

Accessi: 427

Brunella Casalini, Il femminismo e le sfide del neoliberismo

Logo If pressLa collana ad accesso aperto Methexis si è arricchita di un nuovo volume edito da IF Press, Il femminismo e le sfide del neoliberismo. Postfemminismo, sessismo, politiche della cura.

Siamo oggi testimoni  di una nuova vita culturale del femminismo. C’è tuttavia ben poco da rallegrarsi, e ciò per diverse ragioni.

Da un lato, infatti, il riemergere dei movimenti femministi è un segno tangibile delle violenze epistemiche, concrete e ordinarie che le donne ancora vivono quotidianamente; del peso che gli effetti delle politiche di austerità sortiscono soprattutto sulle loro vite; dell’anti-femminismo dichiarato e aggressivo che anima battaglie come quella contro la cosiddetta “ideologia gender”; della misoginia palese contenuta nei siti dedicati alla riscoperta e alla valorizzazione della “mascolinità” (in cui le femministe vengono eloquentemente definite feminazi); o del sessismo che, periodicamente, si scatena sui social network, soprattutto nei confronti delle esponenti della politica parlamentare e istituzionale.

Dall’altro lato, nel discorso politico contemporaneo si assiste alla diffusione di idee e posizioni in cui il femminismo si mescola e contamina con ordini discorsivi che lo trasformano in un’ombra di se stesso, nel suo “doppio inquietante” o, meglio, forse, nei suoi “doppi inquietanti”. Che si tratti del cosiddetto trickle down corporate feminism, di cui sono fautrici donne di successo come Sheryl Sandberg e Anne- Marie Slaughter; o che si tratti invece del post-femminismo, di un femminismo “complice”, come sostiene Nancy Fraser, o forse meglio “sposato” o “adottato” dal neoliberismo, come suggerisce invece Angela McRobbie, è certo che le idee e le teorie femministe sono chiamate a misurarsi con la complessità del presente. Non solo per resistere alle strumentalizzazioni o alle sfide del neoliberismo, ma anche per rispondere a una crisi economica, politica, sociale, ambientale che appare come il frutto avvelenato di una modernità costituitasi sulla rimozione della vulnerabilità e dell’interdipendenza sociale. E sulle quali paradigmaticamente continuano a insistere, e a persistere, le teorie femministe contemporanee, alle quali questo libro è dedicato.

Brunella Casalini, Il femminismo e le sfide del neoliberismo. Postfemminismo, sessismo, politiche della cura

Accessi: 1120

AboutGender

E’ nata una nuova rivista on-line: si chiama AboutGender, è diretta da Emanuela Abbatecola e potrebbe essere una conferma che c’è qualcosa di “femminista” nell’open access. Tre sue caratteristiche sono da rimarcare:

  •  la revisione paritaria nella forma che, negli usi attuali, tutela di più l’autore, ovvero quella del doppio cieco;
  •  il reclutamento di valutatori anche al di fuori della cerchia ristretta del comitato scientifico e di redazione, con la richiesta di collaborazioni aperte sulla base delle specifiche competenze scientifiche e dei particolari interessi di ricerca del potenziale valutatore;
  •  l’accesso aperto.

La rivista ha scelto convenzioni e pratiche la cui condivisione potrebbe migliorare la qualità della ricerca italiana nell’ambito delle scienze umane e sociali, e aumentarne la diffusione e l’impatto. Invece di stilare discutibili liste di riviste e di editori che rischiano di uccidere ogni sperimentazione nel settore delle pubblicazioni in rete, l’ANVUR e i vari Gev dovrebbero incoraggiate e premiare progetti scientifici come questo.

Tags:

Accessi: 404

L’accesso aperto è femminista

Katsushika Hokusai, Feminine WaveE’ possibile produrre un argomento femminista in favore dell’accesso aperto? In What is Feminist About Open Access?: A Relational Approach to Copyright in the Academy (“feminist@law” 1, 2011), Carys J. Craig, Joseh F. Turcotte e Rosemary Coombe sostengono che la critica del copyright promossa dal movimento per l’open access presenta numerosi punti di convergenza con la teoria del diritto e la filosofia politica femminista.

Il movimento per l’open access, in particolare, potrebbe trarre vantaggio dalla concezione relazionale dei diritti e dell’autonomia sulla quale da tempo lavorano le teoriche femministe (v., da ultimo, l’importante e imponente lavoro di Jennifer Nedelsky, Law’s Relations, Oxford University 2011, pp. 542). La teoria tradizionale del diritto d’autore è fondata sull’individualismo possessivo: essa incoraggia l’autore a concepire il proprio lavoro intellettuale alla stregua di una proprietà come le altre, che può dunque essere venduta e sfruttata come una merce e da cui è lecito trarre profitto. In questa visione, l’autore è concepito come un individuo isolato che pensa e scrive in una sorta di vuoto pneumatico rispetto alle idee prodotte da altri: è proprietario assoluto della sua opera in quanto essa è originale e unica. Questa visione dell’autore, secondo Craig, Turcotte e Coombe, è superata:  l’autore, inteso nel senso appena descritto, è “morto” e l’opera è piuttosto da considerarsi un “tessuto di citazioni” – come ha sostenuto Roland Barthes (cfr. ivi, p. 9).

L’autore, come il sé, può essere ormai pensato solo all’interno di una rete relazionale. L’individuo è autonomo – come sostengono le teoriche femministe contemporanee – solo se collocato in un sistema di interdipendenze che sostiene le sue capacità di agire e pensare autonomamente. Uno degli obiettivi dell’approccio relazionale femminista è, infatti, distinguere tra relazioni che minacciano l’autonomia e le relazioni che la salvaguardano e la incoraggiano. In questa visione, i diritti non servono più a proteggere e isolare l’individuo dall’invasione della collettività; sono piuttosto uno strumento fondamentale per strutturare le relazioni per avere  garanzie che impediscano la loro sempre possibile degenerazione in relazioni di potere e di dominio.

Il diritto d’autore, dunque, andrebbe riscritto e ripensato in senso relazionale alla luce delle potenzialità che Internet offre di stimolare i processi creativi aumentando lo spazio delle comunicazioni, delle informazioni, delle interazioni e degli scambi. La recinzione dei commons digitali è un ostacolo alla creatività e uno strumento di potere ed è, certamente, tanto più assurda e ingiustificabile quando i prodotti intellettuali presenti in rete ad accesso proprietario sono frutto di ricerche prodotte con finanziamenti pubblici e sono pubblicate su riviste il cui obiettivo principale dovrebbe essere la disseminazione della conoscenza in vista della crescita del bene comune.

Se le leggi sulla proprietà intellettuale sono state originariamente pensate per stimolare la produttività e incentivare gli autori, oggi esse sembrano soprattutto favorire il potere di grandi imperi editoriali, costruiti sullo sfruttamento di un mondo accademico che sembra ostinarsi a remare contro se stesso e, ancor di più, contro gli interessi della ricerca.

Più fiducioso circa la possibilità di un’appropriazione e declinazione in senso rivoluzionario delle tecnologie di origine patriarcale, il femminismo della c.d. terza ondata può puntare alla creazione di sinergie con il movimento per l’accesso aperto. Non sarà, tuttavia, facile neanche a questa nuova alleanza sconfiggere le strutture economiche e di potere che mantengono l’attuale sistema proprietario delle pubblicazioni. Certamente, non lo sarà nel panorama italiano dove gli studi di genere e la teoria femminista ancora faticano persino ad ottenere uno spazio disciplinare autonomo.

Tags:

Accessi: 526