Come conciliare l’ideale dell’uguaglianza ancora scritto nelle costituzioni dei paesi cosiddetti occidentali con l’influenza di gerarchie sociali implicite sempre più rigide? Il bispensiero dell'”ugualitarismo gerarchico”, nel quale l’uguaglianza del socialismo ideale conviveva con la gerarchia del socialismo reale, veniva associato da Yuri Levada all’homo sovieticus. Lo ritroviamo, ora, anche nei regimi post-democratici?
L’individualismo metodologico non usa, e dunque non espone alla critica, modelli di configurazioni sociali collettive, quali le classi e le relative gerarchie, perché, tutt’al più, rappresenta le disparità come esiti spontanei di combinazioni di azioni individuali e non come costruzioni politiche. E per l’ideologia del merito queste configurazioni sono tali da permettere ai singoli di collocarvisi a seconda della loro capacità: ci sono “ascensori sociali” – volere è potere – per salire ai piani alti. Ma questa metafora suggerisce che la struttura della società – a piani e dunque gerarchica – sia un dato fuori di ogni discussione.
Brunella Casalini, nell’articolo che offre alla revisione paritaria aperta,1 si occupa dei pochissimi che riescono a prendere l’ascensore. Oggi, in Francia, numerosi lavori letterari e sociologici affrontano il tema dell’attraversamento delle frontiere di classe. Chantal Jaquet, in particolare, chiama questi viaggiatori, in modo assiologicamente neutro, “transclasse”. Nella prospettiva della teoria della riproduzione sociale di Bourdieu, per la quale i presunti ascensori, a partire dalla scuola, instillano e replicano le gerarchie esistenti, i transclasse sono eccezioni. Eccezioni, però, di straordinario interesse sociologico e letterario, perché il loro rapporto con le determinanti non solo economiche, ma anche affettive, culturali e simboliche nella costruzione delle identità di classe e con i confini che riproducono e conservano la gerarchia sociale offre un punto di vista inaccessibile da quelli che rimangono fermi ai piani, alti o bassi che siano.
A che possono servire questi studi? Possono certo legittimare la gerarchia sociale invisibili all’individualismo metodologico: se qualcuno riesce a salire allora vale il “volete è potere” e non il “potere è volere”. Possono, inoltre, essere la base di rivendicazioni di identità, entro un coacervo di minoranze che si rappresentano tutte come discriminate e pretendono diritti – o, meglio, privilegi – particolari per sé. Possono, poi, essere il punto di partenza di una critica politica – socialista o democratica che sia – alla struttura a piani della società, che la metafora dell’ascensore opportunamente nasconde. Possono, infine, permettere una discussione auto-critica sulla costruzione dei modelli sociologici – alcuni dei quali fanno vedere solo gli individui, il merito e la spontaneità, e altri invece le classi, il potere e il determinismo: perché li creiamo? Chi li crea? Per conto di chi? Che cosa vogliono sapere? Che cosa vogliono giustificare e che cosa no? E infine, e soprattutto: come sono possibili?
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