Come può comportarsi un ricercatore che desidera diffondere l’accesso aperto non solo a parole, ma anche nei fatti? Avevo provato a rispondere, limitatamente all’arte della citazione. Mi hanno allora chiesto una guida che abbracciasse tutta l’attività di ricerca. Danah Boyd ha già prodotto qualcosa di simile: ecco un adattamento del suo lavoro per l’uso degli studiosi italiani.
1. Professori ordinari o ricercatori assunti stabilmente nell’industria: pubblicate solo in riviste ad accesso aperto. Non avete concorsi da superare. Usate il vostro privilegio per fondare riviste ad accesso aperto, libere dal vecchio modello economico. Aiutatele a costruirsi una reputazione. Fatevi una home page e metteteci i vostri articoli ad accesso aperto. Sarete citati molto di più, specialmente dagli studiosi più giovani che fanno ricerca su Google prima che in biblioteca. E se volete contribuire a cambiare il sistema per le generazioni future, non eludete le regole mettendo on-line testi ad accesso chiuso di cui avete ceduto i diritti.
2. Associazioni disciplinari: aiutate le riviste ad accesso aperto a guadagnare attrattiva. Incoraggiate i vostri membri a pubblicare su riviste ad accesso aperto; bandite dei premi per i migliori articoli ad accesso aperto e chiedete ai vostri soci che in tutti i giudizi sugli studiosi più giovani riconoscano loro il merito di aver pubblicato ad accesso aperto, anche in sedi non convenzionali. E smettete di raccontare che le scelte degli editori che pubblicano le vostre riviste e gli atti dei vostri congressi non vi riguardano. I loro profitti dipendono da voi, e voi a vostra volta usate il prestigio dell’editore come criterio di valutazione della ricerca, per costruirci e distruggerci carriere: tornate a bordo, per favore!
3. Commissioni di concorso: riconoscete le sedi di pubblicazione alternative e aiutate le università a seguirvi. Gli studiosi giovani non possono permettersi di pubblicare in luoghi alternativi finché voi non ne riconoscete il valore. Promuovete questo processo e inducete le vostre facoltà a fare lo stesso. La meta è quella indicata da Lessig: i testi ad accesso chiuso non contribuiscono all’uso pubblico della ragione e non possono essere considerati titoli scientifici validi.
4. Giovani studiosi trasgressivi: pubblicate solo in riviste ad accesso aperto per protesta, specialmente se la vostra disciplina è nuova. Vi può costare una carriera o una cattedra – che in ogni caso non vi daranno – ma è la cosa giusta da fare. Se siete studiosi interdisciplinari o di un ambito di studi nuovo, non disponete di riviste “autorevoli”: dovete trovare il modo per difendervi. Potete approfittare dell’occasione per rendere autorevoli proprio le riviste ad accesso aperto.
5. Giovani studiosi più conservatori: fate uscire quel che vi serve per vincere il concorso e, dopo aver preso servizio, smettete immediatamente di pubblicare in sedi ad accesso chiuso. Il vostro comportamento è comprensibile: ma lo diventa molto meno se persistete anche quando non vi serve.
5a. Se pubblicate su riviste ad accesso chiuso, controllate le politiche dei loro editori su Sherpa / Romeo e selezionate quelle che permettono l’auto-archiviazione di una versione del vostro manoscritto su un archivio aperto (via verde). Evitate la via rossa all’accesso aperto, sia nella sua versione predatoria, sia in quella in apparenza più rispettabile, ma analogamente rapace. E prima di cedere i vostri diritti, chiedete consiglio al vostro bibliotecario. Probabilmente è in grado di darvi un parere competente o di indirizzarvi da chi lo saprà fare.
6. Tutti gli studiosi: leggete riviste ad accesso aperto e citatele. Il numero di citazioni migliora la reputazione di una rivista. Se non potete fare a meno di citare testi ad accesso chiuso in opere ad accesso aperto, adottate accorgimenti per non aumentarne unilateralmente l’impatto. E citate vivi invece che morti: il giovane studioso di Sassari che sta estendendo un argomento di Weber ha bisogno di essere citato più di lui. Le citazioni hanno una politica: le vostre scelte sono un voto per il futuro.
7. Tutti gli studiosi: cominciate a fare da revisori per riviste ad accesso aperto. Contribuite a farle prendere sul serio. Curatene dei numeri per migliorare la loro qualità. E lasciate perdere le riviste ad accesso chiuso, in modo che facciano fatica a trovare revisori di qualità.
8. Biblioteche: abbonatevi a riviste ad accesso aperto e includetele nel vostro catalogo. Vi costa un po’ di lavoro in più, ma aiuta gli studiosi e aiuterà anche voi quando comincerete a liberarvi dalla dipendenza dalle riviste più care con una terapia a scalare.
9. Università: sostenete le facoltà nella creazione di riviste ad accesso aperto. Usate la vostra autorevolezza per promuovere vostre riviste ad accesso aperto. Se ci riuscirete, miglioreranno anche la vostra reputazione.
10. Editori accademici: svegliatevi o levatevi di mezzo. State ostacolando gli studiosi e la ricerca scientifica, rendendola inaccessibile. Trovatevi un nuovo modello d’impresa: anche se ora ricavate profitti, i ricercatori vi abbandoneranno nel giro di un paio di generazioni.
11. Enti finanziatori: pretendete che i ricercatori da voi finanziati pubblichino in riviste ad accesso aperto o depositino i preprint in archivi disciplinari. Oppure finanziate direttamente le riviste per farle passare all’accesso aperto.
12. Prima di dire che non ci sono riviste ad accesso aperto nella vostra disciplina, guardate http://www.doaj.org/. E non dimenticatevi degli archivi (http://archives.eprints.org/ http://www.opendoar.org/).
12b. Archiviate tutto sempre!
E’ uscita un’altra “distribuzione” del codice di Danah Boyd, qui. E c’è un’interessante discussione in corso sulla mailing list Openaccess di Wikimedia.
Fra la versione provocatoria di Rangle e la mia c’è un punto di divergenza importante, che riguarda la sesta regola. Per me non è necessario citare risorse ad accesso aperto semplicemente perché tali, indipendentemente dalla loro qualità, per contrapporre una lobby a un’altra.
Chi pubblica ad accesso aperto fa uso pubblico della ragione, perché si offre virtualmente alla discussione di tutti e non solo all’élite di chi può pagare. Questo merito gli va riconosciuto tutte le volte che è scientificamente possibile citando, a parità di contenuto, la risorsa ad accesso aperto a preferenza di quella ad accesso chiuso. Se, però, è indispensabile citare un testo ad accesso chiuso, lo si può e lo si deve fare, ma di seconda mano, tramite una risorsa ad accesso aperto che lo espone. In questo modo si rispettano le regole del gioco e si insegna all’autore del testo ad accesso chiuso che il suo intervento, fatto per una conventicola, diventa rilevante solo se un curatore si prende la briga, e il merito, di renderlo pubblico. Una teoria scientifica – dura o morbida che sia – senza apertura a una discussione virtualmente universale manca di un requisito fondamentale e si riduce a lavoro di un privato che cerca di fare carriera in un’istituzione particolare.
Non bisogna dare l’impressione che quanto esce ad accesso aperto sia di cattiva qualità. Per questo nelle citazioni è bene essere più realisti del re. Quello che si deve imporre non è la lobby dell’open access, ma l’idea che una discussione possa essere scientifica solo se avviene in un luogo aperto e pubblico.
La regola 12b mi è stata suggerita da Elena Giglia. I comandamenti per l’accesso aperto sono dunque quattordici e non dodici. Però dodici è un numero apostolico, e mi piace troppo.
Sono d’accordo su tutto. Però la regola 6,che prescrive di citare i vivi e non i morti, è una barbarie intollerabile: tra un po’ si dirà di smettere di citare chi è andato in pensione… Il punto non è citare chi ha bisogno di essere citato, ma chi lo merita. Altrimenti qui di scientifico non resta proprio più niente.
Quando ho letto il testo di Danah Boyd ho avuto questa reazione anch’io. Poi, però, ho considerato un altro aspetto: è difficile che, almeno nelle scienze umane, le teorie siano così “originali” da scaturire armate dalla testa degli autori. Di solito sono riscoperte e riconnessioni di materiale già esistente: una celebre osservazione di Whitehead tratta addirittura l’intera tradizione filosofica occidentale come una collezione di note a Platone. In questo senso citare le riscoperte dei vivi – presentandole, naturalmente, come riscoperte e non come scoperte – significa riconoscere il loro merito di curatori o battitori di piste nella foresta secolare della cultura.
Non so se questo fosse lo spirito di Danah Boyd, che probabilmente è più pragmatica di me. E’ stato però il mio quando, adattando il suo scritto, ho lasciato intatto il sesto comandamento.