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ResearchGate e Academia.edu non sono archivi ad accesso aperto

L’Office of Scholarly Communication dell’University of California ha sentito la necessità di pubblicare un articolo – A social networking site is not an open access repository – per spiegare ai docenti locali le differenze fra un sito di social networking e un archivio ad accesso aperto. Anche in Italia un numero non irrilevante di studiosi sembra assimilare media sociali proprietari specializzati come ResearchGate e Academia.edu agli archivi aperti istituzionali o disciplinari.  Questo errore tassonomico  può avere conseguenze gravi sia per la conservazione a lungo termine dei loro testi, sia per la possibilità di usarli come oggetti di ricerca.

Academia.edu e Research.Gate sono media sociali proprietari, gestiti da aziende private con fini di lucro. Offrono ai ricercatori la possibilità di caricare dei testi e di connettersi a colleghi con interessi affini: sono, in altre parole, una specie di Facebook per accademici – esposti, dunque, a critiche simili a quelle che si è attirato Facebook.

Gli archivi ad accesso aperto istituzionali o disciplinari sono invece normalmente gestiti o da biblioteche universitarie come servizio d’ateneo, o da consorzi di enti di ricerca. La loro proprietà, dunque, è tipicamente pubblica.

I bibliotecari californiani riassumono le differenze fra gli archivi ad accesso aperto e  le piattaforme sociali proprietarie in un efficace quadro sinottico, riadattato qui sotto per il lettore italiano:

Quadro sinottico

  1. Le piattaforme proprietarie non sono né aperte, né interoperabili: i loro utenti non hanno il permesso di esportare i propri dati e riusarli altrove, né, a maggior ragione, l’hanno le biblioteche. Chi vuole esportare in un altro archivio un suo articolo già caricato su una di queste piattaforme deve ridepositarlo a mano; chi vuole scaricare un testo da Academia.edu deve registrarsi come utente e fare il login. Gli archivi aperti, di contro, offrono dati e metadati aperti e riusabili, per esempio tramite il protocollo OAI-PMH.
  2. Gli archivi istituzionali assicurano una conservazione a lungo termine perché appartengono a istituzioni – le università – antiche e durevoli e sono amministrati da bibliotecari specializzati. Le piattaforme proprietarie appartengono ad aziende private, che domani possono fallire o convertirsi in qualcos’altro – tanto è vero che nei loro termini di servizio c’è scritto che possono interromperlo in qualsiasi momento.
  3. Affidare i propri documenti a piattaforme proprietarie è come scrivere nell’acqua. Il loro fine è il lucro: se l’investimento iniziale non risultasse redditizio scomparirebbero così come sono apparse.
  4. Come Facebook, le piattaforme proprietarie tendono a impadronirsi dei dati e dei contatti personali dei ricercatori, per incoraggiarli, anche aggressivamente, ad attirare amici e colleghi, e tendono a tormentarli con molti messaggi e-mail, in qualche caso al limite dello spam. Chi frequenta i media sociali proprietari va in cerca di connessioni: ma ci sono ricercatori che si sono convinti che i vantaggi materiali di queste piattaforme non compensino i danni morali che creano e c’è anche chi sta tentando di offrire a questa esigenza una risposta che non produca forme di feudalesimo digitale.
  5. Clausole poco note: solo a titolo di esempio, chi è consapevole  che depositando i propri testi in Academia.edu la autorizza a produrre opere da essi derivate?

L’articolo originale, molto più ricco di dettagli, merita di essere letto nella sua interezza – così come le considerazioni di Paola Galimberti su Roars. Come scrive Kathleen Fitzpatrick in  Academia, Not Edu, dobbiamo renderci conto che questi siti – esattamente come Facebook – non hanno lo scopo primario di facilitare la comunicazione fra studiosi, bensì quello di monetizzarla a proprio vantaggio. Usarli con la speranza  che offrano una pubblicità in grado di superare i tradizionali oligopoli editoriali – che traggono anch’essi diversamente profitto dalle nostre comunicazioni – rischierebbe di farci cadere in un’altra, più pervasiva concentrazione. Abbiamo più che mai bisogno di un‘infrastruttura di ricerca che connetta noi stessi e i nostri dati senza consegnarci alla servitù di interessi privati vecchi e nuovi.

Nel 2013 Evgeny Morozov immaginava uno scenario nel quale un’altra, ancorché un po’ più aperta, piattaforma proprietaria – Google Scholar – venisse chiusa perché poco redditizia e chiedeva:

Perché non ci stiamo preparando a questa eventualità costruendo una robusta infrastruttura pubblica? Non suona ridicolo che l’Europa sia in grado di realizzare un progetto come il CERN ma sembri incapace di produrre un servizio on-line per registrare e seguire gli articoli sul CERN?

DOI

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A pledge to be open: l’impegno pubblico di Erin McKiernan

open access logo Ecco una traduzione del Pledge to be open di Erin McKiernan, nella sua versione semplificata. Avevamo già pubblicato qualcosa di simile, ma più lungo e didattico: questo testo, nella sua brevità, è molto più incisivo e si presta bene a un uso interdisciplinare.

L’ultimo punto del giuramento merita di essere commentato: in questo momento un ricercatore non può limitarsi a fare il suo lavoro e a licenziarlo per la “pubblicazione”, ma deve anche esprimersi con franchezza a favore dell’accesso aperto. Infatti, nella neolingua dell’università-azienda, la “pubblicazione” ha ormai ben poco a che vedere con la pubblicità, e molto invece con la carriera, o con la sopravvivenza, in un sistema pervasivo di controllo burocratico. Chi pubblica per fare uso pubblico della ragione, cioè per parlare con la società dei cittadini del mondo, ha il dovere di chiarire gli equivoci: il filosofo, naturale e no, rende i suoi testi accessibili perché parla all’umanità; l'”addetto alla ricerca” – come spregiativamente viene chiamato nei documenti ministeriali – “pubblica” in primo luogo per i burocrati che lo valutano, cioè non pubblica affatto. Chi è filosofo, naturale o no, deve far notare la differenza.

Mi impegno a:

  1. prestare la mia opera come redattore o come revisore solo per riviste ad accesso aperto
  2. pubblicare solo in riviste ad accesso aperto
  3. condividere in modo aperto i miei manoscritti di lavoro
  4. condividere in modo aperto il mio codice, quando possibile
  5. condividere in modo aperto i miei appunti, quando possibile
  6. chiedere alle associazioni professionali e scientifiche di cui faccio parte di sostenere l’accesso aperto
  7. parlare con franchezza a favore dell’accesso aperto.
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Franco Palazzi, Eichmann e noi – una rilettura di Hannah Arendt sul ‘giudizio’

Uno studioso davvero giovane, Franco Palazzi, ha depositato il suo articolo nell’archivio Marini, mettendolo a disposizione di tutti, qui. Per quanto il suo testo sia solo una fase di un work in progress che ancora lascia molte questioni aperte, riteniamo che meriti di essere segnalato, in modo da facilitarne la conoscenza e la discussione.   È infatti ancora raro, in un mondo in cui lo spirito competitivo prevale programmaticamente sull’interesse della ricerca, che dei giovani scelgano di pubblicare il proprio lavoro allo scopo di renderlo pubblico e non per altri, meno etimologici, motivi.

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Dopo le riviste: il futuro dell’accesso aperto

nordic logoIl numero d’esordio della rivista Nordic Perspectives on Open Science ospita un dialogo sulla scienza aperta nelle discipline umanistiche fra Jean-Claude Guédon e Thomas Wiben Jensen.

  1. Secondo The Open Access Citation Advantage Service di SPARC Europe la maggioranza degli studi finora condotti indica che la pubblicazione ad accesso aperto  produce un vantaggio non irrilevante per quanto concerne il numero di citazioni.  L’accesso aperto, dunque, dovrebbe essere molto appetibile per ricercatori che i sistemi di valutazione stanno trasformando in massimizzatori – razionali? – di citazioni: ma la percentuale di pubblicazioni scientifiche ad accesso aperto sembra essere al di sotto del 50%. Come mai, specie in campo umanistico,  questo tipo di pubblicazione è ancora percepito come l’alternativa oscura, piuttosto che come la strada maestra?
  2. Molte riviste di scienze umane, pur avendo un numero di abbonati “di nicchia” che deve essere soccorso dal finanziamento pubblico, non passano all’accesso aperto perché temono di sparire. Come mai questa convinzione è così diffusa?

Secondo Guédon, per rispondere a queste domande dobbiamo smettere di costringere la discussione nella prospettiva dell’emulazione, nel mondo della rete, di forme elaborate nel mondo della stampa quali le riviste e gli articoli.

La comunicazione scientifica a stampa si basa su riviste e articoli: dobbiamo fare nello stesso modo anche in rete?

Prima dell’invenzione della stampa il sistema degli scriptoria elaborava manoscritti che erano opere d’alto artigianato, pensate per un’élite di committenti e vocate alla conservazione di testi per loro natura rari e costosi. La stampa non si limitò a rimpiazzare l’artigianato d‘élite con la produzione di massa e a proporre un sistema nuovo e incognito rispetto all’antico e alla sua reputazione, ma inventò nuovi oggetti testuali e trasformò i valori culturali e le relazioni interpersonali. Quando la copia è difficile, la cultura deve preoccuparsi in primo luogo della conservazione: quando invece la riproduzione, meccanizzata, diventa più facile, si può permettere di perseguire e valorizzare il nuovo.

Anche oggi la rivoluzione digitale sta producendo oggetti inusitati: mega-journal,  piattaforme come Research Ideas & Outcomes che seguono l’intero processo della ricerca dal principio alla fine, e addirittura sistemi, come Wikipedia, che funzionano a dispetto dell’idea romantica di autore.

Anche se – osserva Jensen –  la rete sta trasformando la conoscenza e il pensiero in processi sempre più socialmente distribuiti e condivisi, la discussione scientifica ha bisogno di elementi stabili: interlocutori identificabili e affidabili – cioè autori – e teorie riconosciute da cui prendere le mosse – cioè articoli pubblicati in riviste -. Possiamo ben riconoscere – risponde Guédon – il valore di una forma di revisione paritaria come passaporto d’ingresso alla conversazione della scienza, e possiamo ben usare identificatori come l’ORCID per le persone e il DOI per i testi; ci dobbiamo, però, chiedere, se tutto ciò debba necessariamente ridursi nel letto di Procruste dell’articolo.

Lo sviluppo del software libero: un modello per le riviste del futuro?

I progetti di sviluppo di software libero producono codice intersoggettivamente controllabile grazie al contributo di numerosi volontari, su piattaforme che rendono possibile il versioning, il riconoscimento della paternità, la discussione e l’archiviazione. Questi progetti, a differenza delle riviste scientifiche tradizionali, non sono genericamente disciplinari, bensì ispirati da uno scopo specifico che un gruppo fluido di persone si trova ad avere in comune. Anche per questo – per creare e conservare il gruppo e per offrire all’intrapresa la velocità che la rete rende possibile – hanno bisogno dell’accesso aperto strutturalmente e non accessoriamente. Non è questione di comunicazione: è questione di scienza. Le “riviste” del futuro, se si emancipassero dai vincoli dell’età della stampa, potrebbero essere qualcosa di simile.

Let us envision a platform – i.e. a website – with certain rules about accountability and identification which are actually close to those used in running a journal. Let us add further a starting set of problems that roughly correspond to the kinds of topics that the “journal” has been encompassing in the last few years of its existence (e.g. 5–7 years). In short, we have something that starts looking like an “electronic journal”, to use this familiar, yet fuzzy, term.

Ci sarebbero, però, delle differenze: la stampa ci ha abituato a produrre testi lunghi e in sé conchiusi, come piccole astronavi concepite per sopravvivere negli spazi vuoti di una conversazione che la stampa con i suoi filtri anteriori alla pubblicazione rendeva lenta e costellata di lunghissimi intervalli di silenzio.  Il nuovo sistema, di contro, richiederebbe interventi brevi e disposti ad arricchirsi non più in virtù della loro autosufficienza, ma della loro connessione: chi non ha più nulla da guadagnare dalla carriera accademica potrebbe perfino cominciare a sperimentarlo – anche perché è molto meno nuovo di quanto sembri.

Quando Socrate, nel Protagora,  si alza per abbandonare la discussione dopo che il suo interlocutore ha rifiutato la brachilogia,  sta facendo una battaglia di retroguardia a favore di una conversazione scientifica che l’affermarsi della scrittura andava cristallizzando nella macrologia e nell’alienazione del testo, e della quale resta enigmatica e inadeguata traccia nei dialoghi platonici. Ma i Socrate del futuro,  congedandosi dalla stampa, combatteranno all’avanguardia,  perché avranno finalmente dalla loro parte una scrittura divenuta fluida e immediatamente interattiva grazie alle possibilità offerte dalla rivoluzione digitale.

It may be a surprise to discover that the very notion of “journal” may act as a form of blockage, but this is the case if the journal is taken as a proxy of the Great Conversation. The same would have been true, at the end of the Middle Ages, if scriptoria had been taken as a proxy of the copy-function.

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Uscire di minorità: una proposta radicale di Björn Brembs

Björn Brembs,  in un articolo importante,  si chiede se i ricercatori possano davvero considerarsi soltanto vittime dell’attuale malattia della comunicazione scientifica – la privatizzazione dei suoi archivi e del suo sistema di valutazione – o se non ci sia anche il concorso di colpa di una loro condizione di minorità divenuta seconda natura. Per guarire, suggerisce una soluzione tanto semplice quanto radicale: se ne può leggere un resoconto dettagliato sul sito dell’Aisa, qui.

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Andrea Passoni, Giustizia come equità e socialismo liberale

Sebbene John Rawls sia uno dei filosofi più studiati e commentati del secolo scorso, alcuni aspetti del suo pensiero sono rimasti ai margini dell’attenzione accademica. È il caso, per esempio, della sua discussione in tema di “socialismo liberale”, regime che, insieme alla “democrazia proprietaria”, rappresenta per il filosofo americano quell’architettura istituzionale in grado di incarnare nel modo migliore lo spirito della sua giustizia come equità. Anche se questa mancanza può essere giustificata dallo scarso spazio riservato da Rawls stesso a tali questioni, un approfondimento in materia è fondamentale per dare pieno significato al concetto, tanto caro all’autore, di “utopia realistica”.

L’articolo di Andrea Passoni, Giustizia come equità e socialismo liberale, appena pubblicato nell’archivio “Giuliano Marini”,  discute l’idea rawlsiana di socialismo liberale, allo scopo di  dimostrare che può almeno parzialmente riempirsi di significato tramite la promozione e lo sviluppo di un’economia di mercato di tipo cooperativo.

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