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Una diffusa tradizione antitotalitaria novecentesca ha insegnato a trattare le pretese politiche della filosofia con molta diffidenza. La vita teoretica, si dice, è per sua natura monologica e totalizzante; è dunque inevitabile che, quando pretende di farsi politica, produca strutture di potere monocratiche e manipolatorie, ispirate ad una ingegneria sociale autoritaria. Questa linea di pensiero, che si giustifica sulla base delle catastrofi politiche del secolo scorso, ha indotto almeno una porzione della filosofia politica a chiedere asilo alla sociologia, all'economia, al diritto, se non, in una pericolosa confusione, alla militanza politica diretta. La forza di questa tradizione, tuttavia, si fonda anche su un presupposto implicito non del tutto giustificabile, a meno di non far riferimento a una forma di filosofia della storia, e cioè che la società riesca a comprendersi e indirizzarsi «spontaneamente» nel modo migliore; che non vi sia, cioè, al di fuori della pretesa di potere dei filosofi - e degli stati governati da filosofi -, nessuna altra forma di potere da legittimare ed, eventualmente, da temere. Così, lo spettro del totalitarismo scoraggia dal riproporre la questione, pur importante e urgente, del senso politico della vita teoretica: è significativo che lo stesso problema dei padroni del discorso sia stato sollevato da persone lontane dallo studio professionale della filosofia.
Simili timori sembrano alimentati dal modo in cui il filosofo totalitario novecentesco più coerente e compiuto, il fascista Giovanni Gentile, passa dalla vita teoretica alla vita politica nella sua trattazione del concetto di individuo in Genesi e struttura della società. Gentile rifiuta di ridurre, atomisticamente, gli individui a particolarità: l'individuo è uno e indivisibile non in quanto può essere visto come un particolare di un complesso più ampio, arbitrariamente scomponibile, ma in quanto è l'Intero, non oggetto ma soggetto dell'esperienza. Il suo carattere di intero e di indivisibile non può dipendere dal suo essere una particolarità, ma solo dal suo essere la totalità e quindi dal suo essere pensiero comunitario in atto. 60
Il giudizio che via via accompagna e collauda le sue parole, è un giudizio che egli pronuncia non per suo conto particolare, ma in qualità di uomo, ossia con una attività giudicatrice che è comune e propria di tutti gli uomini: un attività universale che è la ragione comune agli uomini e agli dei, ai vivi e agli stessi morti (con i quali egli può conversare senza sospettare che il suo linguaggio riesca ad essi incomprensibile) e perfino ai nascituri. I quali udranno un giorno la sua parola, e intenderanno. 61
Chi ha fatto esperienza della vita teoretica - anche da scettico - può ritrovarsi nelle parole di Gentile: per quanto le singole teorie siano soggette al tempo, alle mode e ai paradigmi, si intendono come teorie e non come soluzioni limitate e provvisorie solo in quanto si presuppongono idealmente in relazione con una comunità di conoscenza universale che abbraccia virtualmente tutti i soggetti conoscenti, umani e no. Ma da questa universalità segue necessariamente il totalitarismo politico? Per Gentile, si può derivare, dal carattere universale e comunitario dell'io, la verità della massima vox populi vox dei.
C'è dunque una vox populi che è ratio cognoscendi della verità (e di ogni valore); ed è il ciceroniano consensus gentium; segno, non argomento della verità. E c'è una vox populi che è piuttosto ratio essendi della verità. Questa seconda è l'essenziale, e la sola che possa veramente ascoltarsi come norma della vita dell'individuo: voce di un popolo ideale immanente all'individuo [...] Nel nostro sicuro affermare è il popolo, cioè Dio, che afferma. Cioè nessun individuo può sentire altrimenti, nonostante tutti gli errori ond'è comparsa la storia delle umane asserzioni: ma nessuno penserà mai, nell'atto di pensare qualche cosa, che si possa pensare che il suo non sia il pensiero vero: quello che tutti prima o poi accetteranno perché pensato bensì da lui, ma da lui fedele interprete di tutti. Così l'Italiano che si senta tale parlerà per gli Italiani, e l'uomo per gli uomini, e il figlio per i figli, e il combattente per i combattenti, ecc. ecc.: ciascuno per tutti. 62
All'universalità della ragione Gentile connette il fatto che uno possa parlare per tutti, e che il parlare per tutti di uno sia politico e religioso a un tempo. L'ambito dei «tutti» per i quali uno parla è variabile: se l'attività del pensiero aveva come riferimento tutti gli esseri ragionevoli, umani e no, ora vengono introdotte promiscuamente delle categorie minori: italiani, figli, combattenti. Gli stessi caratteri di universalità attribuiti all'attività giudicatrice sembrano essere estesi a questi gruppi minori. Dobbiamo dunque credere che la voce di Dio si manifesti con la stessa forza e autorità nella comunione ideale degli esseri razionali, in una comunità nazionale - anche ristretta come quella italiana - e in una associazione di combattenti? Gentile, in accordo con le sue posizioni attualistiche, ha fatto cadere l'uno nell'altro termini diversi: la vita teoretica, la vita religiosa, la politica e vari altri raggruppamenti, nella loro concretezza storica. È questa indistinzione che lo rende un pensatore totalitario. Ma per affermare che una vita teoretica riferita idealmente ad una comunione universale conduce al totalitarismo, bisogna dimostrare che l'indistinzione gentiliana è l'esito inevitabile di ogni riferimento ad una comunione universale. Se invece è possibile fare delle distinzioni, Gentile ci pone l'onere di provare che sono ben fondate, e non spurie o pretestuose.
Per affrontare questo compito, leggeremo in combinato disposto due testi, l'Apologia di Socrate e lo scritto kantiano sull'illuminismo, che presentano a loro volta un confronto fra la vita teoretica e la comunità politica; nel primo testo Socrate si difende dall'accusa di empietà, in un processo politico - come erano normalmente politici tutti i processi di una democrazia diretta; nel secondo testo Kant chiede la libertà per l'uso pubblico della ragione. I due testi sono separati da più di due millenni, ma, se prendiamo sul serio le tesi di Pierre Hadot, condividono lo stesso spirito: la filosofia non è solo dottrina, ma scaturisce dall'interesse pratico a comprendere se stessi in una prospettiva più ampia della propria particolarità.
Nell'imperativo categorico «Agisci unicamente secondo la massima che fa sì che tu possa volere che la legge della ragione diventi anche legge universale» l'io realizza e supera se stesso universalizzandosi. L'imperativo deve essere incondizionato, vale a dire non fondarsi su alcun interesse particolare, ma al contrario determinare l'individuo a non agire che nella prospettiva dell'universale. Ritroviamo qui uno dei temi fondamentali del modo di vita proprio della filosofia antica. 63
In Zum ewigen Frieden (1795) Kant propone due princìpi trascendentali del diritto pubblico, uno negativo e l'altro positivo: quello negativo recita che «tutte le azioni che si riferiscono al diritto di altri uomini, la cui massima non è compatibile con la pubblicità sono ingiuste» 64 ; quello positivo che «tutte le massime che hanno bisogno della pubblicità per non venir meno al loro scopo concordano insieme con la politica e col diritto» 65 . Kant ha cura di precisare che la sua idea di pubblicità non si identifica col semplice dire qualcosa in pubblico: in situazioni di disparità di potere, il dominante può permettersi di annunciare tutto quello che vuole senza trarne nessuna conseguenza negativa. La sfera pubblica dell'agire comunicativo, sociologicamente constatata, e la pubblicità dei princìpi trascendentali del diritto pubblico non sono la stessa cosa: la pubblicità può fungere da pietra di paragone del diritto solo se viene intesa non come un fatto, ma come un modello di comunione ideale di conoscenza e discussione i cui protagonisti sono ugualmente indipendenti e autonomi.16 66 Oggi con pubblicità si intende principalmente la propaganda economica: ma Kant ha in mente qualcosa di molto diverso dalla pubblicità propria dei media tipici del XX secolo, intrinsecamente autoritari nella struttura stessa del loro dispositivo comunicativo.
Nel suo progetto filosofico del 1795 Kant parla della pubblicità solo come criterio di valutazione politica. Ma lo spazio pubblico kantiano ha una dimensione molto più ampia: nella Risposta alla domanda: che cos è l'Illuminismo? (1784) la pubblicità non viene sviluppata come criterio di orientamento politico, bensì in contrapposizione alla politica. Fra l'uno e l'altro scritto c'è la Rivoluzione francese, che però non induce Kant a risolvere l'uso pubblico della ragione nella pubblicità come criterio politico, né, tanto meno, nella sfera pubblica empirica, come risulta dai privilegi e dai divieti del potere politico. In un testo bizzarro, l'articolo segreto per la pace perpetua, inserito come secondo supplemento del suo progetto, Kant chiede che gli stati lascino parlare i filosofi sulle condizioni di possibilità della pubblica pace. L'articolo è giustificato come segreto sulla base del fine di non ledere la maestà dei sovrani. Questo segreto, però, non viene rivelato soltanto ai regnanti; è squadernato su una pagina a stampa - sul medium, cioè, che nel XVIII secolo offriva la massima pubblicità possibile. Kant non sta chiedendo la libertà di parlare: se la sta prendendo.
Che i re filosofeggino o i filosofi divengano re non c'è da aspettarselo, e neppure da desiderarlo, perché il possesso del potere corrompe inevitabilmente il libero esercizio della ragione. Che però re e popoli regali (che sono signori di sé stessi secondo leggi di uguaglianza) non facciano scomparire o ammutolire la classe dei filosofi, ma la facciano parlare pubblicamente, è ad entrambi indispensabile per la chiarificazione del loro compito e, dato che questa classe è per sua natura incapace di rivolta e unioni in club, la calunnia di fare propaganda non la riguarda. 67
Questa, per Kant, è la politicità della vita teoretica: non impegnarsi direttamente nelle fazioni politiche, cosa che condannerebbe a rimaner legati ad una opinione per mestiere, ma prendersi la parola, che venga data o no. Anche per questo motivo, il confronto fra l'Illuminismo e l'Apologia 68 promette di essere fruttuoso.
All'inizio della sua autodifesa, Socrate si dice abituato a fare discorsi nel cuore dell'agorà (17c); la sua lexis, il suo modo di esprimersi, è tuttavia diverso da quello dell'oratoria (17c-d) tipica dei luoghi istituzionali del dibattito politico. Socrate ricorda inoltre che le accuse che vengono discusse formalmente nel processo sono già state fatte, informalmente, in altre sedi:
In ogni caso, Ateniesi, è giusto che mi difenda innanzitutto dalle prime accuse false e dai primi accusatori, e poi dalle accuse e dagli accusatori successivi. Infatti, molti miei accusatori sono venuti da voi in passato senza dire nulla di vero, e raccontano il falso su di me già da molti anni. Io ho più paura di loro che di quelli che stanno attorno ad Anito, per quanto siano anch essi terribili. Ma gli antichi accusatori sono più temibili, cittadini, perché vi hanno indotto a creder loro prendendovi sotto controllo da bambini, e mi hanno accusato di più, senza nessuna verità, dicendo: C'è un certo Socrate, uomo sapiente, che strologa su quello che sta per aria e investiga su quello che sta sottoterra, e che fa del discorso più debole il più forte Questi, che diffusero su di me una fama simile, sono i miei accusatori terribili, cittadini ateniesi, perché il loro uditorio ritiene che chi fa simili ricerche non creda negli dei. Inoltre, questi accusatori sono molti e mi accusano già da molto tempo; per di più, hanno parlato con voi a quell'età in cui si è più fiduciosi, quando alcuni di voi erano ragazzi e altri bambini, e mi hanno portato in giudizio in contumacia, senza nessuno che mi difendesse. Ma la cosa più assurda è che non si sappiano né si dicano i loro nomi, a meno che a qualcuno non capiti di essere un poeta comico. Quelli che vi hanno persuaso, attaccandomi con l'invidia e la calunnia - e quelli che, una volta persuasi essi stessi, hanno persuaso altri - sono tutti avversari intrattabili: infatti non è possibile far comparire qui nessuno di loro per confutarlo, ma sono costretto a difendermi semplicemente come se stessi combattendo con l'ombra, e a controinterrogare senza nessuno a rispondere (18a-d) 69
Socrate allude alla commedia di Aristofane contro di lui 70 usando il linguaggio della procedura processuale: la deformazione della sua immagine da parte di una potenza mediaticamente preponderante è l'esito di un procedimento pubblico che non è sottoposto alle regole procedurali e al contraddittorio di un processo, ma che può ugualmente concludersi con condanne irrevocabili. Aristofane e Socrate, tuttavia, hanno scelto di parlare negli spazi pubblici della cultura e non in quelli delle istituzioni governate da regole formalizzate: Socrate sembra usare un argomento fuorviante quando, con parole accuratamente scelte, cerca di far passare la sua sconfitta in una battaglia culturale come una sconfitta in un processo viziato da ingiustizie procedurali. È vero che l'efficacia e la portata comunicativa del teatro è di gran lunga superiore a quella del colloquio faccia a faccia usato da Socrate: ma la scelta di questo medium impari è stata sua.
Una simile critica, tuttavia, disconosce il fatto che la battaglia culturale perduta da Socrate non finisce nel mondo della cultura, ma conduce direttamente in tribunale. Nella democrazia diretta ateniese questioni politiche e questioni culturali sono una cosa sola; il teatro stesso - che Aristofane sapeva usare con tanta intelligenza - era quello che oggi chiameremmo un teatro di stato. 71 È dunque inevitabile che argomenti culturali, religiosi, politici e giuridici vengano mescolati: vox populi vox Dei. Quando Socrate suggerisce che il suo processo sia già stato celebrato, ma senza garanzie, presuppone, appunto, questa commistione.
Contro una simile commistione argomenta Kant, 72 distinguendo fra un uso vincolato o privato della ragione e un uso pubblico, non vincolato. L'uso pubblico della ragione è quello che ciascuno fa come studioso davanti al pubblico dei lettori, e non può essere ristretto, se si vuole promuovere il rischiaramento. L'uso privato della ragione è quello che ciascuno può fare in un certo impiego o funzione civile a lui affidato: solo in questo caso, dal momento che per certe operazioni compiute nell'interesse del corpo comune occorre una certa meccanicità, la restrizione è giustificata. Kant propone alcune esempi di uso privato, e dunque ristretto, della ragione: quello del contribuente che paga le imposte, quello del militare che esegue gli ordini, quello dell'ecclesiastico che insegna la dottrina della sua chiesa. 73 La presenza delle chiese mostra che gli enti che possono imporre un uso privato della ragione non sono necessariamente statali: pertanto, non sarebbe contraddittorio aggiungere all'elenco le organizzazioni economiche private, che per funzionare richiedono la stessa meccanicità. Se è così, la ricerca e la comunicazione scientifica non devono essere sottratte solo alla censura statale ed ecclesiastica, ma anche alla censura economica: i non-disclosure agreement, o la limitazione della circolazione di testi e codice in nome di diritti d'autore e brevetti, in quanto incidono sulla discussione scientifica, non possono essere giustificati come vincoli imposti dall'uso privato della ragione. 74 La ricerca scientifica, in quanto richiede, per suo natura, una prassi non meccanica, non dovrebbe essere sottoposta a vincoli politici, religiosi o aziendali.
Se Kant avesse dovuto difendere Socrate, avrebbe detto che, in quanto questi faceva un uso pubblico della ragione, non avrebbe dovuto essere sottoposto a processo: la conoscenza non è riducibile ad una funzione entro una gerarchia politica, ecclesiastica o aziendale. Ma Socrate non si difende sulla base di una distinzione di tipo kantiano, 75 o meglio si vale di questa distinzione per suggerire un genere diverso di comunità politica.
Dimmi ancora, Meleto, per Zeus, è meglio vivere fra cittadini buoni o cattivi? Rispondi, amico, non ti sto chiedendo nulla di difficile! I cattivi non fanno forse del male a chi gli sta sempre vicino, mentre i buoni del bene? -
- Senza dubbio. -
- C'è dunque qualcuno che voglia essere danneggiato dalle persone con cui sta assieme, piuttosto che trarne vantaggio? Rispondi, mio caro amico: anche la legge te lo impone. C'è qualcuno che vuole essere danneggiato? -
- No di certo. -
- Su, allora: mi porti qui in tribunale in quanto corrompo i giovani e li rendo più cattivi volontariamente o involontariamente? -
- Volontariamente. -
E allora, Meleto? Alla tua età sei tanto più sapiente di me alla mia, da aver riconosciuto che i cattivi fanno sempre del male a chi sta loro più vicino, mentre i buoni del bene. Io, invece, sarei stato tanto ignorante da non rendermi conto che se rendessi malvagio chi sta con me, rischierei di ricevere del male da lui: tu dici che farei una simile cattiva azione volontariamente? Meleto, io non ci credo, e penso che non ci creda nessun altro. Piuttosto, o non corrompo i giovani, o, se li corrompo, lo faccio senza volerlo, e dunque tu menti in entrambi i casi. Se li corrompo involontariamente, non è d'uso fare causa per simili errori, bensì prendere da parte chi sbaglia, per spiegargli perché e ammonirlo. È chiaro, infatti, che una volta resomi conto dell'errore, smetterò di fare ciò che in ogni caso compio involontariamente. Ma tu hai evitato di stare con me e di darmi insegnamento e non ne hai avuto voglia, e mi porti qui in tribunale, dove si usa condurre chi ha bisogno di essere punito ma non chi ha bisogno di imparare. (25c-26a)
Anche in tribunale, Socrate si vale della sua maniera, l'élenchos, cioè la confutazione delle tesi affermate dall'interlocutore. Questa scelta non è molto felice, ai fini della sua difesa: in un processo politico dimostrare che le accuse sono contraddittorie non prova, di per sé, l'innocenza dell'accusato - ancor più se la dimostrazione viene condotta con un metodo che, fuori dal tribunale, è stato tante volte usato per indebolire le certezze tradizionali. Socrate si sta comportando esattamente nel modo che i suoi accusatori stigmatizzavano, come se il suo scopo non fosse difendersi, bensì sfidare la comunità politica in nome della comunità filosofica. Infatti, questa confutazione si conclude in modo tale da mettere in discussione la polis in quanto comunità politica coercitiva.
Socrate afferma che, se corrompe i giovani, non è possibile che lo faccia volontariamente: corrompere le persone significa renderle malvagie, e dunque esporsi al rischio di venirne danneggiati. Tutt'al più, una simile azione può essere compiuta involontariamente, per ignoranza, e perciò non può essere sanzionata penalmente. La sanzione penale ha senso solo per le azioni volontarie, ma non serve a render consapevole chi sbaglia involontariamente delle ragioni del suo errore.
L'argomento di Socrate è un corollario della sua equiparazione della virtù a conoscenza: chi sbaglia lo fa senza consapevolezza, e dunque senza una vera intenzione di sbagliare - se per intenzione intendiamo una scelta consapevole della ragion pratica nella pienezza delle sue facoltà. Non ha senso punirlo, quando si dovrebbe piuttosto discutere con lui, per renderlo avvertito del suo errore. Questa tesi impone di escludere dalla portata del diritto penale i cosiddetti «reati d'opinione», ma - coerentemente applicata - rende problematico il diritto penale nel suo complesso. Se chi sbaglia lo fa per difetto di razionalità pratica, cioè di consapevolezza, che senso ha la punizione in generale? Non serve per emendare il colpevole, col quale sarebbe più indicato un serio confronto elenchico. Protagora, nel dialogo omonimo (324b), suggerisce che la punizione serva per dissuadere il colpevole e gli altri dal ricadere nel comportamento sanzionato. Ma se è vero che si sbaglia solo per ignoranza, come si può pretendere che la punizione possa avere una effettiva funzione informativa? Dissuadere non significa persuadere soprattutto se la dissuasione è compiuta tramite una minaccia e l'irrogazione di una sanzione, e non con una argomentazione.
Si potrebbe sfuggire al paradosso ricorrendo ad un argomento kantiano: la comunità politica richiede una certa meccanicità e dunque il ruolo della sanzione non è persuasivo, ma solo dissuasivo e funzionale: l'élenchos contro Meleto si applica esclusivamente all'uso pubblico della ragione, e non al suo uso privato. Ma Socrate si vale di un altra distinzione: la sua accettazione del processo e del verdetto mostra che egli condivide con i suoi accusatori l'idea che la comunità politica sia anche una comunità di cultura e di conoscenza. Una simile idea, se presa sul serio, dovrebbe imporre alla comunità politica di governarsi senza coercizione, valendosi esclusivamente degli strumenti dell'uso pubblico della ragione. In questo senso la comunità che Socrate ha in mente è totale, perché comprende cultura, politica, morale, scienza e religione, ma non totalitaria, perché riduce la politica all'uso pubblico della ragione e non viceversa.
Perché - tenetelo ben presente, cittadini ateniesi - se in passato mi fossi messo ad occuparmi di affari politici, sarei morto da un pezzo e non sarei stato utile né a voi né a me stesso. E non prendetevela con me, che dico la verità: non c'è nessuno che si possa salvare, se si oppone autenticamente a voi o a un altra maggioranza, impedendo che in città avvengano molte ingiustizie e illegittimità, ed è anzi necessario che chi combatte per il giusto, se deve sopravvivere anche solo per un po', rimanga un privato e non si dedichi alla vita pubblica. (31d-32a)
Queste frasi, prese isolatamente, potrebbero far pensare che Socrate sia un individualista, interessato solo a filosofeggiare in privato; ma il fatto, contestuale, che Socrate affronti il processo e la morte, e che colga l'occasione, con la sua autodifesa, per attaccare la tirannide della maggioranza e il diritto penale, lo dimostra portatore di una politicità alternativa. La libertà che Kant riserva, almeno in via di approssimazione, all'uso pubblico della ragione, Socrate la vorrebbe per l'intera vita della societa.
Perché in verità è così, cittadini ateniesi: dove uno si sia schierato da sé, perché lo riteneva il posto migliore, o dove sia stato messo da un comandante, lì si deve - secondo me - avere il coraggio di restare, senza curarsi né della morte né di altro di fronte alla vergogna. Cittadini ateniesi, quando i comandanti che voi sceglieste per me mi schierarono in battaglia a Potidea, ad Anfipoli e a Delio, rimasi dove mi avevano disposto, come qualsiasi altro, e rischiavo di morire. Farei dunque una azione terribile se, quando invece a schierarmi è il dio, come io ho supposto e inteso, con l'ordine di vivere facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri, avessi paura della morte o di qualunque altra cosa e abbandonassi il mio posto. (28d-29a)
Perché vivere facendo filosofia? Socrate non dà una giustificazione teoretica 76 di questa scelta. L'oracolo di Delfi aveva detto che nessuno era più sapiente di lui (21a). Ma Socrate, da razionalista teologico, 77 essendo convinto che il dio, in quanto tale, non mente e dice quello che pensa veramente, cerca addirittura di sottoporre il responso a élenchos. Da questa interpretazione molto personale dell'oracolo . la voce del dio è presa sul serio ma sottoposta alle stesse procedure di corroborazione adottate per gli uomini - scaturisce la missione che Socrate assegna a se stesso, per la quale vale la pena vivere e morire. Questa missione non può essere giustificata da una dottrina teoretica, perché la pratica della vita filosofica è la condizione di possibilità di ogni teoria. La vita filosofica, inoltre, ha bisogno della condivisione della conoscenza e della discussione: perciò richiede la pubblicità quale sua condizione indispensabile - come appare dal giudizio sarcastico di Socrate nei confronti dei sofisti:
... e se avete sentito dire da qualcuno che io educo la gente e faccio soldi, è falso anche questo. Anche a me, certo, sembra bello se qualcuno sa educare gli uomini, come fa Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. Ciascuno di loro, Ateniesi, è in grado di andare in ogni città e convincere i giovani - i quali potrebbero anche, gratuitamente, stare insieme ai loro concittadini preferiti - ad abbandonare la comunità (synousìa) di questi ultimi, a frequentare loro a pagamento e ad essere pure grati. (19d-20a)
Perché scegliere il rischiaramento, o illuminismo? Il rischiaramento, secondo Kant, è l'uscita dalla condizione di minorità imputabile a sé stessi, dovuta, dunque, non a una mancanza di intelligenza, ma a un difetto di decisione e di coraggio. La condizione del minorenne è in realtà una condizione comoda, perché non richiede coraggio ed esonera dal peso di pensare e di scegliere. Perché, allora, dovrebbe essere preferibile uscire di minorità? Né Socrate né Kant rispondono a questa domanda. Se la pratica della ragione richiede l'autonomia, sarebbe contraddittorio appellarsi a qualcosa di dato e predeterminato, che la precede, per motivare l'autonomia medesima. 78 Come già sapevano i Greci, le cose che hanno veramente valore sono quelle che si scelgono per se stesse e non per altro. Ogni essere umano ha una vocazione (Beruf) a pensare da sé 79 - una chiamata personalissima - come del tutto personale era il servizio socratico al dio di Delfi, a cui si può rispondere soltanto da sé, liberamente. 80
La libertà dell'uso pubblico della ragione, tuttavia, non può essere ridotta a un diritto soggettivo individuale: si tratta infatti di un diritto collettivo, nel quale il diritto individuale è incluso soltanto come un caso particolare: un singolo può differire dall'illuminarsi, o può rimanere in condizione di minorità per paura o pigrizia, ma un pubblico, una volta che gli sarà lasciata la libertà, lo farà quasi inevitabilmente, grazie alla propagazione dell'influenza dei pochi che pensano liberamente. Tuttavia, il rischiaramento, anche se il suo significato primario è collettivo, non coincide affatto con una rivoluzione politica: questa, infatti, può eliminare solo il dispotismo e l'oppressione, ma, senza una riforma dell'atteggiamento di pensiero, non può proteggere da nuovi pregiudizi.
Il carattere collettivo ma non politico dell'uso pubblico della ragione emerge ancora più chiaramente dall'argomento che usa Kant per negare la legittimità di un impegno politico collettivo a una determinata religione o ideologia - anche solo per la durata della vita di un uomo: 81 proprio perché questa scelta non è la decisione di un singolo per se stesso, ma di una collettività che vincolerebbe tutti, essa violerebbe i più sacri diritti dell'umanità. Infatti, anche qualora la decisione non venisse imposta da un despota, ma da una assemblea generale o da una rappresentanza eletta, essa renderebbe impossibile ogni autonomia di pensiero per il futuro. Autonomia intellettuale e autonomia politica non sono la stessa cosa: l'autonomia politica di una comunità che pretende di sovrapporsi all'autonomia intellettuale - con forme di censura politica, religiosa o economica - mette in discussione anche se stessa. Una comunità non è autonoma semplicemente perché sceglie di fare una cosa o l'altra, come potrebbe fare anche un despota, ma solo se e perché le sue decisioni avvengono in modo tale che sia assicurata, ora e in futuro, la possibilità di scegliere e di discutere sulle deliberazioni prese e da prendere.
La libertà dell'uso pubblico della ragione non si incarna nel fatto che le decisioni siano prese pubblicamente, eventualmente in forma democratica, ma nel fatto che quest'uso sia e possa rimanere libero da ogni forma di autorità. L'autorità politica è solo un caso particolare. Kant presenta altri esempi: «un libro che ragiona per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che sceglie la dieta per me», che fanno riferimento all'autorità intrinseca del dispositivo di un mezzo di comunicazione di tipo uno-tutti, all'autorità religiosa e a quella tecnica. La libertà da queste autorità è una libertà difficile e scomoda: per non seguire ciecamente il medium autoritario, il direttore spirituale, il tecnico, devo acquisire gli strumenti per poter interloquire con loro: non si tratta semplicemente di fare quello che ci pare, come minorenni capricciosi, ma di farlo con cognizione di causa.
Dovrei invece proporre l'esilio? Forse questa pena la considerereste adatta a me. Ma, cittadini ateniesi, dovrei davvero essere posseduto da una gran voglia di vivere, se fossi così sconsiderato da non saper vedere che voi, pur essendo miei concittadini, non siete riusciti a sopportare il mio modo di vivere e i miei discorsi e vi sono diventati tanto oppressivi ed odiosi che ora cercate di liberarvene: altri, forse, li sopporteranno facilmente? Tutt'altro, cittadini ateniesi. Avrei proprio una bella vita, in esilio alla mia età, passando di città in città, scacciato da ogni parte. Perché so bene che, dovunque vada, i giovani verranno ad ascoltarmi come qui; e se li mando via, loro stessi convinceranno i più anziani ad espellermi; se non lo faccio, i loro padri e familiari mi espelleranno a causa loro.
Allora qualcuno potrebbe dire: - Socrate, ma non riuscirai a vivere stando zitto e tranquillo, una volta allontanatoti da noi? - Convincere qualcuno di voi su questo è la cosa più difficile di tutte. Perché se vi dico che un simile comportamento è disubbidienza al dio e perciò è impossibile, voi non mi credete e pensate che faccia finta (eironeoumeno); e se vi dico ancora che il più gran bene che può capitare a una persona è discorrere ogni giorno della virtù e del resto, di cui mi sentite discutere e indagare me stesso e gli altri - una vita senza indagine non è degna di essere vissuta - voi mi credete ancor meno. (37c-38a)
Per Kant, la comunità del conoscere non si identifica con quelle che siamo abituati a chiamare istituzioni pubbliche, le quali, per funzionare, hanno bisogno dell'ubbidienza meccanica dei loro membri. Pertanto, chi fa uso pubblico della ragione non lo può fare in quanto membro di una istituzione particolare, ma solo presupponendosi parte di un corpo comune più ampio o, al limite, della società cosmopolitica. 82 Un uso pubblico della ragione che presupponesse come proprio destinatario un gruppo ristretto di menti, sarebbe un uso ristretto - e dunque privato - perché alcune critiche e alcuni contributi verrebbero esclusi a priori. La comunità del conoscere è dunque virtualmente universale. Questa universalità non riguarda i contenuti - per scoprire il particolarismo dei diritti basta viaggiare un po' -ma l'estensione dell'ambito dei nostri interlocutori.
Nell'antichità il cosmopolitismo fu un invenzione stoica, posteriore a Socrate; ma Socrate non avrebbe potuto essere un particolarista senza porsi in contrasto con la sua ricerca di definizioni unitarie e coerenti. L'ideale politico implicito nell'Apologia è quello di una comunità politica totale, che si fondi sui princìpi della comunità di conoscenza e si identifichi con essa: in questo senso, la città è intercambiabile. Socrate non può mutare città senza risollevare il medesimo problema: l'opposizione fra una comunità politica che pretende di subordinare la conoscenza alle sue leggi, e il suo modello di comunità di conoscenza, nel quale vorrebbe risolvere anche la politica.
La lettura combinata dell'Illuminismo e dell'Apologia è utile per affrontare il problema dei possibili esiti totalitari della vita teoretica perché entrambi i testi si occupano della libertà dell'informazione e non della libertà di espressione. Quando si parla di libertà di espressione, si intende la libertà come libertà del soggetto, cioè di un individuo che esprime se stesso. Il relativo diritto è interpretato esclusivamente come diritto soggettivo individuale - qualcosa, dunque, dei cui oggetti si può disporre contrattualmente, come nel caso dei non disclosure agreement e che, eventualmente, può essere subordinato ad altri diritti o ad interessi delle istituzioni. Quando si parla di libertà dell'informazione, si intende la libertà dell'oggetto, cioè il libero accesso alla conoscenza da parte di una comunità indefinita - eventualmente cosmopolitica - di esseri pensanti. La libertà di espressione è inclusa nella libertà dell'informazione, ma in senso strumentale e non come diritto soggettivamente disponibile: io posso dire tutto quello che voglio, ma non posso impegnare la mia libertà, per esempio, in un non disclosure agreement, perché l'informazione, in quanto non è stata creata da me solo, dal nulla, ma sviluppata sulla base di una comunità di conoscenza, non è esclusivamente mia, o della mia chiesa, o dell'azienda che mi paga, bensì di tutti. Da questa impostazione non individualistica segue necessariamente il vox popoli vox dei gentiliano?
La posizione prudente di Kant offre una distinzione: le comunità di conoscenza riposano sull'autonomia della ricerca e della discussione e dunque devono essere sottratte alla meccanicità e alla coercizione propria delle istituzioni politiche, nella maniera sempre approssimativa in cui queste sono realizzate nella storia. Ma anche la più radicale posizione di Socrate si basa, in realtà, sulla medesima distinzione: dal momento che le comunità di conoscenza riposano sull'autonomia della ricerca e della discussione, una comunità politica che volesse essere anche comunità di conoscenza, senza soluzione di continuità, dovrebbe rinunciare alla coercizione. Non è dunque corretto derivare direttamente il totalitarismo politico dalla affermazione della vita teoretica, per quanto quest'ultima abbia inevitabilmente conseguenze politiche, come ben sapeva Socrate: le idee, una volte rese pubbliche, non spariscono dal mondo, anche se chi le ha espresse viene eliminato.
Ma desidero fare una predizione a voi, che avete votato contro di me: perché sono già là dove le persone sono più propense a fare predizioni, quando stanno per morire. Io vi dico, uomini che mi avete ucciso, che ci sarà per voi una retribuzione, subito dopo la mia morte, molto più dura di quella pena cui mi avete condannato. Perché voi ora avete fatto questo credendo di liberarvi dal compito di esporre la vita a esame e confutazione (elenchon didonai), ma ne deriverà tutto il contrario, ve lo dico io. A mettervi sotto esame per confutarvi saranno di più: quelli che finora trattenevo, di cui voi non vi accorgevate; e saranno tanto più duri quanto più sono giovani, e tanto più ne sarete irritati. Perché se pensate che basti uccidere le persone per impedire di criticarvi poiché non vivete rettamente, non pensate bene. Non è questa la liberazione - né possibile, né bella - ma quella, bellissima e facilissima, non di reprimere gli altri, bensì preparare se stessi per essere quanto possibile eccellenti. (39c-d)
[60] G. Gentile, Genesi e struttura della società, Firenze, Sansoni, 1975, pp. 11- 14.
[64] I. Kant, Zum ewigen Frieden, B 100/A 94.
[65] Ibidem, B 110/A 103.
[66] Sull'importante concetto kantiano di regno dei fini si veda A. Pirni, Il regno dei fini in Kant. Morale, religione, politica in collegamento sistematico, Genova, il melangolo, 2000.
[67] I. Kant, Zum ewigen Frieden, B 70, A 66.
[68] Come osserva G. Vlastos (Socrates. Ironist and Moral Philosopher, Cambridge, Cambridge U.P., 1991, pp. 45-80; trad. it di A. Blasina, Socrate, il filosofo dell'ironia complessa, Scandicci, La Nuova Italia, 1998, pp. 59-105) per quanto l'Apologia sia stata messa per iscritto da Platone, la sua attendibilità storica, riferendosi a un evento noto a cui molti avevano assistito, può paragonarsi a quella dei discorsi che Tucidide mette in bocca ai suoi personaggi.
[69] Le citazioni dell'Apologia, da qui in poi, provengono dalla mia traduzione.
[70] Il testo dell'Apologia riprende anche nei termini quello che Aristofane aveva derisoriamente messo in bocca a Socrate nella sua commedia del 423 a.C., intitolata Nuvole (vv. 264-266). Questa commedia rappresenta Socrate come sofista e filosofo naturale, che vive in una casa chiamata phrontisterion (pensatoio) e insegna al «discorso ingiusto» a prevalere sul «discorso giusto». Non a caso, nel dibattito aristofaneo fra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto, personificati e portati sulla scena, quest ultimo mette in dubbio la morale tradizionale valendosi di un topos usato anche da Socrate nell'Eutifrone: perfino il rispetto dei padri è un valore relativo, visto che lo stesso Zeus si è ribellato al padre Chronos.
[71] Come è noto il «concedere un coro» perché un dramma fosse rappresentato costituiva un filtro politico (L. Canfora, Storia della letteratura greca, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 137-142).
[72] E. Bencivenga, Oltre la tolleranza, Milano, Feltrinelli, 1992, pp. 103- 129: la ragione viene usata pubblicamente quando non è ridotta a strumento di calcolo e contrattazione.
[73] I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, A 485.
[74] A questo proposito, il lettore può trovare interessante riflettere sul caso Felten (vedi http://www.eff.org/Cases/Felten_v_RIAA/ 20020206_eff_felten_pr.html e K. Bowrey, M. Rimmer, «Rip, Mix and Burn. The Politics of Peer-to-Peer and Copyright Law», First Monday, 7/8, 2002). Si tratta di una controversia fra un professore universitario di informatica e una multinazionale, in merito alla discussione pubblica - come è d uso nel mondo scientifico - delle vulnerabilità di un algoritmo di codificazione. La multinazionale preferì lasciar cadere la causa, avendo a che fare con un professore universitario di una istituzione riconosciuta - cosa che naturalmente non viene fatta se la parte non ha questo ruolo. Occorre chiedersi se un privilegio istituzionale riservato ai soli professori sia sufficiente a garantire la generale libertà dell'uso pubblico della ragione.
[75] Nel mondo antico si aveva un ideale di cittadinanza "militante" alla cui luce questa distinzione sarebbe stata improponibile. Si veda Chr. Meyer, P. Veyne, Kannten die Griechen die Demokratie?, Berlin, K. Wagenbach, 1988, trad. it. di M. Pelloni, L'identità del cittadino e la democrazia in Grecia, Bologna, il Mulino, 1989.
[76] P. Hadot, op. cit., pp. 60-66 (pp. 34-38 trad. it.).
[78] Una autonomia motivata da qualcosa di predeterminato, che ricade fuori dall'autonomia stessa, produrrebbe quella che Kant chiama la libertà del girarrosto - vale a dire la libertà di un automa che si muove da sé, ma secondo di un programma predefinito (Kritik der praktischen Vernunft, A. 173- 174).
[79] I. Kant, Bentwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, A 483-484.
[80] Quando M. Foucault, in Qu'est-ce que les Lumières? del 1984 (ora in P. Rabinow, ed., The Foucault Reader, New York, Pantheon Books, 1984, pp. 32- 50) parla di un ethos filosofico in luogo di una vera e propria dottrina, non dice nulla più di quanto è implicito nel testo. L'ambiguità che ritiene di trovare nell'Aufklärung, in quanto a un tempo fatto e processo, e anche compito e obbligazione personale, è una chiara conseguenza del suo carattere di ethos.
[81] Se è vero che quanto sostiene Kant può essere esteso dalle istituzioni politiche ed ecclesiastiche alle istituzioni economiche, è contro il rischiaramento anche la durata del diritto d'autore fino ai settant anni dalla sua morte - un periodo ben più lungo della vita di un uomo in quanto ostacola significativamente la propagazione della conoscenza.
[82] I. Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung?, A 486-487.
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