Bollettino telematico di filosofia politica

Online Journal of Political Philosophy

E-books > Methexis- Studi e testi > I padroni del discorso

Attualità della vita teoretica

Il problema dello statuto proprietario dell'informazione è una questione attuale, anche fuori dall'ambito della filosofia. Per dimostrarlo prenderemo in esame, a titolo di esempio, le riflessioni di Vandana Shiva e di Lawrence Lessig, sulla proprietà, rispettivamente, del codice genetico e del codice del software. Ma un simile richiamo all'attualità, in un testo filosofico, ha bisogno di essere giustificato.

La filosofia politica, per la sua collocazione di frontiera, si trova in una condizione ambigua. Al filosofo politico può capitare di usare parole del linguaggio politico contemporaneo, quali identità, globalizzazione, federalismo, così da render difficile tracciare un confine fra impegno culturale e impegno politico, o fra la filosofia politica come disciplina speculativa e la politica nel suo senso quotidiano e pratico.

Una simile confusione è stata salutata con gioia da chi, stanco delle filosofie che finora hanno soltanto interpretato il mondo, ha ritenuto che si trattasse di cambiarlo. Tuttavia, come sapevano i filosofi antichi, per i quali la filosofia era innanzitutto vita teoretica, l'ansia di salire alla ribalta per dire la propria sull'attualità espone all'alienazione di una importante libertà del pensiero. Se il filosofo si sforza di essere al passo coi tempi, quello che Salvatore Veca ha efficacemente definito come «potere d'agenda » non appartiene più a lui, bensì alle concentrazioni politiche e mediatiche che lo detengono - a chi tiene la clessidra e ha la causa nelle sue mani, come viene detto, per distinguere la filosofia dalla politica, in un passo famoso del Teeteto:

Gli altri, al contrario, non solo parlano sempre in grande affanno, incalzati come sono dall'acqua che scorre giù dalla clessidra, ma nemmeno hanno libertà di svolgere i loro argomenti come vogliono; ché sta loro addosso l'avversario, impugnando la legge inflessibile e recitando l'atto d'accusa, che sono i limiti fuor dei quali non è lecito deviare. E sempre i loro discorsi sono o pro o contro qualche compagno di schiavitù; e si rivolgono a un padrone, che è là, sopra uno scanno, e ha la causa nelle sue mani; e sono come gare di corsa le quali non vanno mai per questa o quella via indifferentemente, ma sempre girano attorno a una meta ben distinta; e prezzo della corsa, il più delle volte, è l'anima. Cosicché, per tutto questo, essi sono sempre in grande tensione, e sono sottili e accorti, e sanno l'arte di lusingare il padrone con le parole e di ingraziarselo coi fatti: piccoli di anima, non retti. Ogni crescita, ogni dirittura e schiettezza, ogni senso di libertà, tutto in loro distrugge, costringendoli a operare per vie oblique, quell'abito a servire che hanno fino dalla giovinezza: perché gettati, con anime ancora tenere, in grandi e paurosi rischi, e non avendo la forza di affrontarli e superarli senza venir meno alla giustizia e alla verità, subito si abbandonano alla menzogna, e al farsi ingiuria gli uni con gli altri; e vengono su in mille modi storti e storpiati. 3

Solo chi crede in una filosofia della storia progressiva, per la quale non occorra pensare il futuro ma semplicemente metterlo in atto, può ritenere che il sacrificio dei tempi lunghi della filosofia a favore della cronaca politica non sia una perdita di libertà. Lo stesso Hegel, per il quale la filosofia era il proprio tempo appreso col pensiero, era convinto che il senso di ciò che è si potesse afferrare solo al termine del giorno, quando si fosse posata la polvere delle accidentalità. 4 Perfino l'autore della filosofia della storia più sistematica e compiuta, in quanto ha voluto essere filosofo, ha invitato a guardare oltre l'orizzonte limitato dell'attualità.

A maggior ragione, se non crediamo più nelle filosofie della storia e pensiamo che quanto diciamo e facciamo non debba semplicemente seguire la corrente, ma possa avere una qualche influenza, l'orizzonte ristretto dell'attualità dovrebbe essere rifiutato. Se il progresso non è qualcosa di già scritto, che dobbiamo solo, organicamente, assecondare, la possibilità del cambiamento può essere introdotta solo dalla nostra libertà intellettuale: in questo senso, chi non sa interpretare il mondo non può neppure essere capace di cambiarlo.

Perché per il tema della proprietà dell'informazione, le riflessioni nate nel mondo della tecnica biologica e informatica dovrebbero essere meritevoli di attenzione filosofica? Come risulterà chiaro dall'analisi che segue, le esperienze da cui trae spunto questa riflessione sono esperienze comunitarie di conoscenza vissuta ed applicata in modo tale da aprire nuove possibilità al mondo. Sono, dunque, esperienze filosofiche in un senso più forte e più pieno di quanto possano esserlo le discipline dei filosofi che cercano legittimazione in una attenzione cronistica ad una "attualità" definita da altri.

Non deve sorprendere che il sociologo finlandese Pekka Himanen, nel suo libro sull'etica hacker, 5 senta la necessità di richiamarsi al medesimo passo del Teeteto che abbiamo citato or ora. Dal punto di vista sociologico, infatti, la libertà di definire la propria agenda e di organizzare il proprio tempo ha trovato un incarnazione, prima che nel mondo hacker di cui si occupa Himanen, nell'accademia di Platone. 6 La libertà dei soggetti, nell'ambiente accademico e nelle comunità scientifiche che si ispirano a questo modello, si riverbera in una libertà degli oggetti: gli scienziati rendono pubblico il loro lavoro perché sia usato, provato, sottoposto alla critica della comunità scientifica e migliorato. Si tratta di una forma di scetticismo organizzato e di sviluppo collettivo delle teorie che può essere inteso come una continuazione della synousìa dell'accademia di Platone: si impara stando assieme e insegnando agli altri, cioè rendendoli e rendendosi partecipi di una comunità di conoscenza che non è tale perché produce una collezione di nozioni, bensì perché è costantemente impegnata nello sviluppo e nella critica. 7

Un simile spirito, come scrive Pierre Hadot in Qu'est-ce que c'est la philosophie antique?, 8 era tipico della filosofia antica: la scelta di un modo di vivere non si poneva alla fine del processo dell'attività filosofica, come una sorta di appendice accessoria, ma alla sua origine. Questa scelta conduceva al discorso filosofico, il cui compito era appunto quello di chiarirla e giustificarla razionalmente, e la cui validità, a sua volta, si poteva corroborare sulla pietra di paragone della coerenza esistenziale. 9 Una simile impostazione non riduceva la filosofia ad una opzione privata, come potrebbe pensare chi è abituato a legittimare le discipline filosofiche sulla base della loro attenzione alla cronaca: Socrate non inventò l'autocoscienza ritirandosi in sé stesso, 10 bensì forgiandola nel dialogo, cioè «in un superamento dell'individualità che si innalza a universalità, nel logos comune ai due interlocutori». 11 Coerentemente, anche la dialettica platonica non fu intesa come una competizione, ma come un esercizio di ascesi, in cui gli interlocutori vogliono giungere assieme a un accordo con le esigenze razionali del logos, alla scoperta di una verità indipendente da loro stessi, che però può nascere soltanto nel dialogo. 12 La verità non si risolve nella conversazione, altrimenti la teoria si ridurrebbe all'attualità di un agire comunicativo incapace di trascendere se stesso, ma è un fine, un orientamento e un presupposto motivante che va oltre la concretezza di ogni particolare interscambio. Tuttavia, la strada obbligata per la teoria è la prassi dialogica nella sua concretezza esistenziale. In questo senso, il problema del rapporto fra filosofia e attualità non può porsi nei termini oggi consueti, perché la filosofia, in quanto vita ispirata dall'amore della conoscenza, deve essere praticamente in atto, se vuol essere filosofia.

Il problema dell'«attualità» della filosofia si può sollevare nei termini in cui siamo abituati a porlo solo se intendiamo la filosofia come una dottrina avulsa dalla vita. Secondo Hadot, sebbene il cristianesimo si sia presentato originariamente come una filosofia alla maniera antica, come un modo di vita connesso a un discorso giustificativo, nel corso del medioevo discorso filosofico e scelta di vita si sono separati: alcune filosofie antiche sono semplicemente scomparse, altre, come il platonismo e l'aristotelismo, sono sopravvissute come mero materiale concettuale sconnesso 13 dai modi di vivere che lo avevano ispirato. 14

Il filosofo dell'antichità, per praticare la filosofia, viveva in rapporti più o meno stretti con un gruppo di filosofi o, per lo meno, riceveva da una tradizione filosofica le sue regole di vita. Il suo compito ne risultava facilitato, anche se vivere effettivamente secondo quelle regole di vita esigeva un duro sforzo. Oggi non ci sono più scuole, non ci sono più dogmi. Il «filosofo» è solo. Come troverà il suo cammino? 15

La domanda di Hadot sembra riguardare una ristretta categoria di intellettuali, che si potrebbero abbandonare al loro destino, se non sanno riconvertirsi in giornalisti, esperti di comunicazione e di relazioni pubbliche, o attivisti politici, come sembra richiedere l'imperativo dell'attualità. Ma in questo momento stiamo vivendo una rivoluzione mediatica - il passaggio dalla stampa alla rete come medium della comunicazione scientifica e culturale - che, se verrà adeguatamente compresa e assecondata, potrà coinvolgere un numero molto maggiore di persone.

L'informazione conservata e trasmessa tramite un oggetto fisico discreto, come il libro, si presta ad essere trattata come una cosa, un bene soggetto alle leggi economiche, e a una distribuzione specializzata e controllata, da parte di editori, giornalisti, insegnanti. Ma, come ha notato Pierre Lévy, l'accessibilità diretta dell'informazione resa possibile dalla rete mette in crisi sia il ruolo dell'insegnante come trasmettitore e venditore di nozioni, sia il potere dei media tradizionali; in questo mondo lo stesso mercato non si accontenta più di una professionalità che rimanga immutata dall'inizio alla fine della vita lavorativa, ma richiede un apprendimento permanente. Scuole e università non potranno più essere luoghi di concentrazione della conoscenza come collezione di nozioni, ma dovranno diventare animatrici dell'intelligenza collettiva, per allievi che, potendole trovare da sé, non hanno più bisogno di nozioni, bensì di carte nautiche personali per muoversi nel mare dell'informazione. 16 In una condizione non più di scarsità, bensì di sovrabbondanza di informazione, i problemi della vita teoretica - la produzione, selezione, trasmissione e applicazione di conoscenza - coinvolgono un pubblico molto più ampio rispetto all'élite dei tradizionali specialisti.

Tutto questo era già chiaro, nel 1964, a Marshall McLuhan:

Paradossalmente, l'automazione rende obbligatoria l'educazione liberale. [...] Migliaia di anni fa l'uomo, nomade e raccoglitore di cibo, aveva assunto funzioni posizionali o relativamente sedentarie. Incominciò così a specializzarsi. Lo sviluppo della scrittura e della stampa furono tra le tappe principali di questo processo. Esse furono estremamente specialistiche in quanto separarono le funzioni della conoscenza da quelle dell'azione, anche se a volte poteva apparire con chiarezza che «la penna è più potente della spada». Ma con l'elettricità e l'automazione la tecnologia dei processi frammentati si fuse con il dialogo umano e con la necessità di considerare l'unità umana nel suo complesso. Gli uomini sono improvvisamente diventati raccoglitori di conoscenza, nomadi come mai nel passato, informati come mai nel passato, liberi da specializzazioni frammentarie come mai nel passato, ma anche coinvolti come mai nel passato nella totalità del processo sociale, perché con l'elettricità estendiamo globalmente i nostri sistemi nervosi centrali, mettendo istantaneamente in rapporto ogni esperienza umana. 17



[3] Platone, Teeteto, 172d-173c, la traduzione è quella di M. Valgimigli per Laterza, con qualche modifica. Per le traduzioni dei testi platonici si è seguita questa prassi: si indica l'autore della versione qualora la traduzione sia riprodotta fedelmente; quando invece manca questa indicazione, la versione è da intendersi come mia o come pesantemente rimaneggiata. Le versioni consultate della Repubblica sono quelle di Sartori, Vegetti e Gabrieli.

[4] G.W.F. Hegel, Grundlinien der Philosophie des Rechts, Einleitung, in Werke, VII, Frankfurt a.M., 1971, p. 28 (trad. it. di G. Marini, Lineamenti di filosofia del diritto, Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 17).

[5] Una vulgata giornalistica diffusa e persistente intende per hacker il pirata informatico, quando il significato originale del termine, come riportato in The Jargon File, ha a che vedere non tanto con la violazione della sicurezza di sistemi informatici, quanto con la passione per la conoscenza:

[originally, someone who makes furniture with an ax] 1. A person who enjoys exploring the details of programmable systems and how to stretch their capabilities, as opposed to most users, who prefer to learn only the minimum necessary. 2. One who programs enthusiastically (even obsessively) or who enjoys programming rather than just theorizing about programming. 3. A person capable of appreciating hack value. 4. A person who is good at programming quickly. 5. An expert at a particular program, or one who frequently does work using it or on it; as in "a Unix hacker". (Definitions 1 through 5 are correlated, and people who fit them congregate.) 6. An expert or enthusiast of any kind. One might be an astronomy hacker, for example. 7. One who enjoys the intellectual challenge of creatively overcoming or circumventing limitations. 8. [deprecated] A malicious meddler who tries to discover sensitive information by poking around. Hence password hacker , network hacker . The correct term for this sense is cracker. The term hacker also tends to connote membership in the global community defined by the net.

[6] P. Himanen, The Hacker Ethic and the Spirit of Information Age, London, Secker and Warburg, 2001, pp. 33-34.

[7] Id., op. cit., pp. 68-69. Per la traslitterazione delle parole greche si è usata la transcriptio classica, cui sono stati aggiunti, quando necessario, degli accenti tonici allo scopo di agevolare il lettore italiano.

[8] P. Hadot, Qu'est-ce que c'est la philosophie antique?, Paris, Gallimard, 1995 (trad. it. di E. Giovannelli, Che cos'è la filosofia antica?, Torino, Einaudi, 1998).

[9] Ibidem, p. 18 (p. 5 trad. it.).

[10] Su questo tema si veda anche G. Reale, Socrate. Alla scoperta della sapienza umana, Milano, Rizzoli, 2000, pp. 47-69.

[11] P. Hadot, op. cit., p. 60 (p. 34 trad. it.).

[12] Ibidem, pp. 98-99 (p. 60 trad. it). Così anche H.G. Gadamer (Wahrheit und Methode, Tübingen, Mohr, 1965, p. 550; trad. it. di G. Vattimo, Verità e metodo, Milano, Bompiani, 1987, p. 425).

[13] Può essere interessante ricordare, fra le ragioni di una simile sconnessione, l'uso del latino come lingua della cultura, in contrapposizione alle lingue volgari, come lingue della vita: la lingua della cultura, pur essendo un medium cosmopolitico, è nello stesso tempo «isolato dai recessi emotivi della propria madre lingua» e lontano dalla quotidianità (W. Ong,Orality and Literacy. The Technologizing of the World, London and New York, Methuen, 1982, cap. IV; trad. it. di A. Calanchi, Oralità e scrittura, Bologna, il Mulino, 1986, pp. 160-161).

[14] P. Hadot, op. cit., pp. 379-380 (pp. 242-243 trad. it.).

[15] P. Hadot, op. cit., p. 416 (p. 265 trad. it.).

[16] P. Lévy, Cybercultura, Milano, Feltrinelli, 1999, trad. it. di D. Feroldi (Cyberculture, Paris, O. Jacob, 1997), pp. 153-162.

[17] M. McLuhan, Understanding Media: The Extensions of Man, MIT Press, 1964, cap. 33 (trad. it di E. Capriolo, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore, 1999, pp. 381-362).


Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons License