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Sommario
Quando Hannah Arendt attaccò la vita teoretica, 51 come fuga dalla vita activa della politica - la sfera della pluralità, dell'azione e del discorso -, trascurò deliberatamente 52 un aspetto che oggi appare più evidente: la vita teoretica, sia nel senso consueto di vita dedicata alla teoria, sia in quello etimologico di vita dello spettatore, può essere ed è di per sé politica. La vita teoretica richiede scelte esistenziali, relazioni interpersonali e forme di discorso e di propagazione della conoscenza da cui deriva uno spazio pubblico che sembra oltrepassare sia la sfera privata dell'economia, sia la politica nel suo senso meramente istituzionale. I teorici - filosofi antichi, hacker, programmatori, scienziati, agricoltori che sviluppano tecniche di selezione biologica sulla base della loro cultura tradizionale - hanno bisogno di una sfera pubblica perché le loro conoscenze siano tramandate, discusse e migliorate; hanno bisogno del discorso e dell'interazione con una pluralità di persone; e il loro scegliere di dedicarsi alla teoria e di condividerla è una forma di azione che ha conseguenze politiche, giuridiche e morali. La vita teoretica può apparire impolitica o antipolitica solo se è riservata a una minoranza: quando una città intera mette sotto processo un filosofo solo, una considerazione superficiale può far pensare che la politica sia tutta dalle parte della città e che il filosofo, in quanto solo, non sia politico. Ma se i teorici - ricercatori e spettatori - sono o possono essere molti, e se producono modelli e idee che possono creare un mondo, diventa chiaro che la politica deve stare anche dalla loro parte. Diventa chiaro che il regime di quel tipo peculiare di spazio pubblico che è la sfera della conoscenza va trattato come un problema filosofico-politico.
Non è casuale che le epoche che assistono a rivoluzioni nei mezzi di comunicazione siano costrette ad affrontare sempre di nuovo il tema della vita teoretica come questione politica.
In una cultura come la nostra, abituata a frazionare ogni cosa al fine di controllarla, è sconvolgente sentirsi ricordare che, sul piano pratico e operativo, il medium è il messaggio. Questo significa semplicemente che le conseguenze individuali e sociali di ogni medium, cioè di ogni estensione di noi stessi, derivano dalle nuove proporzioni introdotte nelle nostre questioni da ognuna di tali estensioni o da ogni nuova tecnologia. 53
Come hanno mostrato gli studi di Walter Ong 54 e - per quanto riguarda l'antichità e il pensiero platonico - di E.A. Havelock, dalle rivoluzioni nei mezzi di comunicazione derivano mutamenti sia quantitativi, sia qualitativi. Se è vero che, come afferma Havelock, «tutte le civiltà umane fanno riferimento a una sorta di 'libro', cioè alla capacità di mettere in serbo le informazioni al fine di reimpiegarle», 55 ogni mutamento nel libro incide sia sull'accessibilità dei contenuti conoscitivi, sia sul modo in cui questi sono pensati e organizzati, sia sul tipo di società con cui sono compatibili.
Pierre Lévy, proseguendo su una strada già battuta, costruisce tre tipi di civiltà, corrispondenti a tre tipi di condivisione della conoscenza: la civiltà orale, le civiltà della scrittura e la civiltà della rete. Le società orali, sebbene affidassero la trasmissione dell'informazione a tecnici della memoria - per esempio i poeti nella Grecia preclassica -, non separavano il discorso dal suo contesto: la conoscenza, trasmessa da persona a persona, non poteva staccarsi dal flusso vitale nel quale era immersa, 56 se voleva perdurare senza cadere nell'oblio. Questo produceva quello che Lévy chiama totalità senza universale: il soggetto conoscente era tale solo in quanto rimaneva legato e indifferenziato rispetto al suo contesto. Il contesto è una totalità per chi ne fa parte, ma non un universale, perché è inseparabile dalla particolarità degli individui e delle relazioni interpersonali. Forse questo sapere poetico e preconcettuale si avvicina a quanto vagheggiano i critici della tecnica: ma i suoi limiti comunicativi, cioè il suo carattere radicalmente particolare, non assicurano che esso sia al riparo dalla disuguaglianza e dall'estraneazione. Il potere appartiene a chi sa ricordare e far ricordare in modo autorevole. Anche il cosiddetto evento - l'accadere nella sua nuda fattualità - ci è noto solo se viene raccontato e imposto alla memoria da qualcuno in una storia.
Con l'avvento della scrittura, i testi si separano dal loro contesto vivente originario. La scrittura offre, in cambio della perdita dell'immediatezza della relazione faccia a faccia, uno spazio di comunicazione maggiore, ed è l'occasione per la nascita del sapere concettuale, con la sua aspirazione all'universalità. L'universalità del libro, tuttavia, è di natura totalizzante: il testo è qualcosa di limitato e in sé conchiuso: per avere un senso deve, almeno in qualche aspetto, pretendere di esaurire in sé tutto il senso, lasciando fuori la pluralità aperta dei contesti chi si trova ad attraversare e la diversità delle comunità che li fanno circolare.
I media tradizionali, continua Lévy, proseguono sulla falsariga dell'universalizzazione totalizzante iniziata dalla scrittura: giornali e televisioni devono coinvolgere - essendo una forma di comunicazione di tipo uno-tutti - il maggior numero di persone possibili, e per questo devono incontrare il minimo comune denominatore mentale dei destinatari. Il loro spazio di comunicazione è privo di interazioni, dato che i riceventi sono tecnicamente costretti ad essere passivi: per questo, devono fabbricarsi un pubblico indifferenziato, e giocare su emozioni e conoscenze elementari. Per definizione i media contemporanei totalizzano , cioè pretendono di racchiudere - o di essere - il mondo, con una pretesa di esaustività. Non a caso questi media, intrinsecamente autoritari, sono stati e sono il veicolo privilegiato della propaganda totalitaria - sia essa politica o economica - e del totalitarismo della propaganda. 57
La rete rende pensabile qualcosa di differente sia dalla totalità senza universale delle culture orali, sia dall'universale totalizzante delle culture scritte e mediatiche. Al dispositivo comunicativo di tipo uno-uno (posta, telefono) e di tipo uno-tutti (televisione, giornale), si è aggiunta la possibilità di una comunicazione tutti-tutti, cioè di un nuovo modo di distribuire la conoscenza, cui tutti coloro che sono connessi possono partecipare interattivamente e ove non esiste un emittente virtualmente privilegiato. Diventa così possibile sia comunicare in maniera universale, come nella civiltà della scrittura, sia interagire e creare dei contesti, come nelle culture orali. Queste possibilità si possono attualizzare in presenza di un movimento sociale che sappia trar vantaggio da questi tre princìpi: 58
interconnessione: i veicoli di informazione non sono più nello spazio, ma diventano uno spazio, una telepresenza generalizzata in un continuum, che può essere pensato e percorso come un grande ipertesto;
creazione di comunità virtuali: una comunità virtuale si costruisce, data l'interconnessione, su affinità di interessi e di conoscenze, sulla condivisione di progetti, in un processo di cooperazione e di scambio, che prescinde dalle appartenenze istituzionali;
intelligenza collettiva: è ciò che può venir prodotto dalla compresenza di una massima accessibilità dell'informazione, di una conoscenza messa in comune, e dalla possibilità offerta alla persone di interagire fra loro senza mediazioni.
Questo nuovo scenario può essere compreso con la nozione di universale senza totalità: ogni universalizzazione, nella misura in cui pretende di essere esauriente e in sé conchiusa, produce nello stesso tempo totalità ed esclusione. La rete, la cui unica pretesa è la connessione in un ordine non gerarchico che può essere variamente interpretato nella prospettiva di ciascun nodo, esprime una esigenza di universalità che però, non avendo in se stessa un senso, non è totalizzante. 59 Chi è fuori dalla rete non è escluso, bensì sconnesso: e questo, significativamente, viene percepito come una deficienza non dell'escluso, ma della rete stessa, pensata come dispositivo di informazione e di comunicazione.
Con un linguaggio diverso da quello di Lévy, si potrebbe dire che le rivoluzioni mediatiche producono e sovrappongono sempre nuovi tipi di spazi pubblici e rimettono in discussione i confini della vita teoretica. Nel mondo dell'oralità, la sfera pubblica si identificava con quella, particolaristica, alla portata del canto del poeta, della parola persuasiva dell'oratore e della capacità della memoria collettiva. Nel mondo della scrittura alla sfera pubblica a portata di voce si aggiunge quella, temporalmente e spazialmente più ampia, del testo che si faceva lo sforzo di copiare o che si aveva la possibilità di stampare. Nel mondo dei media autoritari del XX secolo, che è ancora in gran parte il nostro mondo, abbiamo in più l'ambito raggiungibile dalla radio e dalla televisione, con la sua capacità di incidere sulle emozioni collettive. In rete, si aggiunge la possibilità, per tutti, di comunicare interattivamente con tutti. In questo processo, la vita teoretica, da esperienza riservata a pochissimi, diventa qualcosa con cui molti sono costretti ad aver contatto: in una sovrabbondanza di informazione, la ricerca e la valutazione delle conoscenze diventa un problema rilevante per un numero sempre maggiore di persone.
Sarebbe, tuttavia, superficiale, trattare i mutamenti tecnici e quantitativi come se risolvessero da soli il problema del rapporto fra vita teoretica, economia e politica. Il confronto fra conoscenza, politica ed economia deve essere affrontato direttamente, da un punto di vista speculativo: le tecnologie della parola, così come le strutture dell'agire comunicativo, incidono su delle possibilità, ma non producono, automaticamente, degli indirizzi e delle soluzioni. La rete rende più diffusi e richiesti alcuni valori e metodi propri della vita teoretica, ma questa ultima rivoluzione mediatica non può, da sola, chiarire se la sfera della conoscenza e la sua peculiare pubblicità possa identificarsi con la pubblicità propria della politica, o con quella del mercato, o si tratta di un ambito che le trascende entrambe, non occasionalmente, ma strutturalmente; e se una simile trascendenza si risolve immediatamente in una posizione apolitica, o può produrre una prassi politica sua propria.
[51] H. Arendt, The Human Condition, University of Chicago Press, 1958, cap. I, trad. it di S. Finzi, Vita Activa, Milano, Bompiani, 1989, pp. 7-17.
[52] Si veda, su questo, l'ultimo capitolo di The Human Condition, che si conclude significativamente col detto di Catone: Numquam se plus agere quam nihil cum ageret; numquam minus solum esse quam cum solus esset (Cicerone, De Re Publica, I.27).
[55] E.A. Havelock, Preface to Plato, Cambridge Mass., Harvard UP. 1963, Preface; trad. it. di M. Carpitella, Cultura orale e civiltà della scrittura, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 3-7.
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