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L'invenzione della politica |
Ultimo aggiornamento 16 ottobre 2002
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La politica prima della polis
Per molti secoli, l'Iliade e l'Odissea furono i principali strumenti educativi dell'uomo greco. L'Iliade e l'Odissea sono poemi epici composti in esametri, tramandati oralmente e destinati ad essere cantati; risalgono probabilmente all'VIII secolo a.C., e sono attribuiti dalla tradizione a un unico, leggendario poeta: Omero.
Nei poemi omerici - trascritti verso la fine del VI secolo, per ordine del tiranno ateniese Pisistrato - si manifestano i caratteri propri di una cultura orale, che conta solo sulla memoria per la trasmissione del sapere: non casualmente la tradizione ci rappresenta Omero come cieco: il compito del poeta non è sapere nel senso di vedere, ma sapere nel senso di ricordare, cioè di tramandare una corpus con la quale egli si assimila, e che vive soltanto nell'attualità della ripetizione. Per questo, nel mondo orale il diritto d'autore è impensabile: la vita di un'opera sta nella sua memorizzazione e condivisione da parte dal maggior numero possibile di menti. Il mondo miceneo, dal cui crollo emerse lentamente la civiltà greca classica, ci è noto attraverso gli scavi archeologici di Micene, Tirinto e Pilo e grazie alla decifrazione della scrittura sillabica lineare B (Michael Ventris, 1952). Era un mondo rigidamente gerarchico e centralizzato, al cui culmine stava il wanax, il sovrano, che era nello stesso tempo capo politico e religioso. I poemi omerici ci presentano un sovrano, un anax, Agamennone, che è primus inter pares, ed è circondato da una litigiosa aristocrazia di basilees (re) in continua competizione per l'eccellenza. Si tratta di un mondo in cui la sovranità è sempre in crisi. Questo, del resto, viene rappresentato anche dalle vicende dei due poemi omerici: la discordia fra gli Achei durante l'assedio a Troia, e il difficile ritorno in patria di Odisseo, costretto a combattere per riconquistare il suo regno. Questa descrizione si connette assai più alla società aristocratica ionica dell'VIII secolo, piuttosto che alla memoria della scomparsa civiltà micenea. Gli aristocratici sono in continua competizione per la time, l'onore, che dipende dalla demou fatis (ciò che dice la gente) e consiste nell'essere più forte, più bello, più ricco e più potente degli altri. Questa logica fortemente competitiva crea, per usare un'espressione di Mario Vegetti, una "polis impossibile". L'agonismo ostacola ogni collaborazione; le assemblee - come dimostra l'episodio di Tersite - sono mero terreno di scontro fra aristocratici e cassa di risonanza per le loro decisioni. Come è caratteristico del mondo arcaico, i valori fondamentali della società omerica erano predeterminati, così come il ruolo di ciascuno ed i privilegi e doveri che ne conseguivano. I principali termini valutativi del vocabolario omerico, agathos, kakos e arete non possono essere tradotti letteralmente con "buono", "cattivo" e "eccellenza" o "virtù". I nostri termini presuppongono un ambito di applicazione assai più ampio e socialmente indefinito; invece Omero quando parla di agathoi intende una figura sociale particolare: agathos è il proprietario terriero, capo di un oikos, di una casata, che è in grado di proteggere la comunità con le armi e soprattutto di difendere competitivamente il proprio onore dinanzi agli occhi del mondo. Perciò non è possibile diventare agathos per chi ha avuto in sorte di essere kakos, anche se un agathos può perdere il suo onore, essendo questo connesso alla supremazia effettiva in potenza, ricchezza e valore militare. Se per esempio il plebeo Tersite (Iliade, II, vv. 212 ss) osa parlare in assemblea, sostenendo argomenti del tutto simili a quelli di Achille contro Agamennone, non si pensa che egli si sia mostrato in grado di raggiungere l'eccellenza. Come ci narra l'Iliade, Tersite viene bastonato, ridicolizzato e ridotto al silenzio, proprio perché ha violato la tacita gerarchia che stratifica i soggetti morali.. Solo gli agathoi possono raggiungere l'eccellenza, o meglio, essi la possiedono per definizione e sono impegnati a mantenerla in competizione con gli altri. I kakoi, dal canto loro, non sono esclusi dall'universo morale: non soltanto devono tributare quell'onore dal cui riconoscimento dipende strettamente l'arete, ma soprattutto devono seguire delle regole morali ad hoc, che consistono, in sostanza, nell'adeguarsi al ruolo loro riservato nella gerarchia. Le procedure sociali di esclusione non creano un universo morale monolitico, bensì un pluriverso affetto da una duplice complessità: la complessità dei tipi di soggetti, e quella, conseguente, delle regole di comportamento che si addicono loro. Il soggetto omerico è stato caratterizzato come paratattico, risolto, di volta in volta, nell'attimo della sua presenza: il suo sé si riduce, fisicamente ed emotivamente, a una struttura discreta di organi giustapposti, la quale, in quanto esclusivamente e totalmente presenziale, è priva di storia, di sviluppo e di potenzialità. La persona è letteralmente una maschera, una immagine pubblica ed eterodipendente, senza introspezione perché priva di una unità sintattica in grado di controllare in un complesso il succedersi dei suoi momenti. In modo analogo, anche il soggetto morale è qualcosa di completamente ed esclusivamente presenziale, una attualità priva di potenzialità: la morale omerica non indica un ideale di eccellenza a soggetti che lo possono raggiungere, ma ha bisogno di avere una immagine socialmente concreta e attuale del soggetto morale in quanto essere cui si addicono effettivamente i predicati di valore. Soggetto morale non è semplicemente un agente cui è legittimo attribuire, per qualche motivo, predicati di valore come buono o cattivo, o anche delle norme della cui osservanza egli è responsabile; è piuttosto chi viene attualmente investito da valutazioni nello stesso tempo morali e sociali, come agathos e kakos. Ordine dell'essere e ordine del dovere non sono distinti: all'uomo, come a tutti gli altri enti naturali, è possibile attribuire qualificazioni allo stesso tempo descrittive e valutative. La cultura greca conosceva un termine latamente valutativo che poteva essere applicato in tutte le sue stratificazioni ontologico-morali: la hybris, nel senso di trasgressione o violazione dei limiti connessi alla propria condizione. La condizione umana, nel mondo omerico, è governata dalla moira, una sorte impersonale e cosmica che assegna ad ogni ente naturale una parte, una porzione determinata una volta per tutte e immutabile. Oltrepassare i propri limiti non è una colpa morale in senso stretto: la trasgressione avviene ciecamente, per mancanza di comprensione, e in maniera altrettanto cieca viene retribuita, con la meccanicità di una legge complessiva della natura. Nel mondo umano, hybris si applica al mortale che trasgredisce i limiti dati dagli dei agli uomini, ma anche al caso di un individuo inferiore che pretende di far valere i propri diritti e ad ogni tentativo di modificare lo status quo. La stratificazione e la gerarchia della soggettività morale sono assicurate da una garanzia naturalistica evidente, la quale autorizza immediatamente ad usare, all'interno del mondo umano, più pesi e più misure. Omero attribuisce all'anax un compito importante: quello del themisteuein, cioè pronunciare sentenze. Le norme di giustizia (themistes) preesistono alla comunità e le danno forma; esse devono semplicemente venire scoperte o riscoperte, alla maniera di un diritto consuetudinario, basato sul precedente. Ad esse presiede una divinità, Themis, la giustizia. Esse, però, rappresentano il volere del padre degli dei, Zeus: un volere che è stato instaurato dopo la lotta di Zeus contro il padre Chronos, narrata dal poeta Esiodo (VIII-VII secolo) nella sua Teogonia. A sua volta, il potere sovrano di Zeus, nel mito, potrebbe essere messo in discussione: così fanno, ribellandosi, i Titani, e così potrebbe fare il figlio nato da Metis, divorata, per misura prudenziale, dallo stesso Zeus, che poi partorisce dalla testa Athena. L'ordine della giustizia è un ordine che nasce problematico. Collo spostarsi dell'organizzazione sociale verso l'aristocrazia, l'amministrazione della giustizia, anzi delle giustizie del caso singolo (dikai) viene affidata agli anziani. La dike, la giustizia pronunciata, è una caratteristica, o meglio un'esigenza, del mondo umano, il cui principale problema è risolvere le controversie senza cadere nella discordia (eris). L'ambiguità della giustizia - nello stesso tempo data e voluta - è un problema che accompagna tutto lo sviluppo della civiltà politica greca. Basti pensare alla tragedia Antigone, nella quale Sofocle contrappone la figlia di Edipo, che seppellisce il fratello per obbedire a una legge divina, a Creonte, re di Tebe, che la condanna per aver disobbedito a un suo decreto, il quale vietava la sepoltura. A quale legge si deve obbedire? A quella data o a quella pronunciata? E ubbidire alla legge divina contro le leggi della città non significa forse vedere anche la legge divina come una legge voluta? |
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