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Socrate: Senza, dunque, che nessuno gl insegni, ma solo in virtù di domande giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?
Menone: Sì.
Socrate: Ma ricavar da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare?
Menone: Senza dubbio.
Socrate: E la scienza che ora possiede: o l'ha acquisita in un certo tempo o la possiede da sempre.
Menone: Sì.
Socrate: Se la possiede da sempre, egli sa da sempre; se l'ha fatta propria in un qualche tempo, ciò non è sicuramente avvenuto nella presente vita. Vi è forse qualcuno che gli abbia insegnato tutto? Lo saprai certo, tanto più ch'egli è nato e cresciuto in casa tua!
Menone: So benissimo che non gli ha insegnato nessuno.
Socrate: Ma ha o non ha tali sue opinioni?
Menone: Incontestabilmente, Socrate, sembra che le abbia.
Socrate: E se non le ha acquisite nella presente vita, non è già di per sé evidente che le possedeva, e che le apprese in un altro tempo?
Menone: Evidente!
Socrate: E non è forse questo il tempo in cui non era ancora uomo?
Menone: Sì. (Menone, 85e-86a) 141
Menone, un aristocratico tessalo allievo di Gorgia, è stato messo in difficoltà da Socrate. Menone gli ha proposto una questione molto trattata nei circoli filosofici ateniesi, quella dell'insegnabilità dell'areté o eccellenza. Socrate ha cercato di spiegargli che prima di rispondere a questa domanda bisogna affrontare un altro problema: quello della definizione rigorosa di ciò che comunemente viene detto areté. Menone non riesce a risolvere il problema, sia perché fa fatica ad andare oltre il tradizionale uso di enumerare esempi di eccellenza senza preoccuparsi di quale paradigma comune li rende esemplari di una stessa cosa, sia perché tende a dare per noto il termine da definire e cade in circoli viziosi. 142 Menone, che credeva di essere padrone del suo discorso, si sente paralizzato dal contatto con Socrate, come se avesse toccato una torpedine. Ma - gli dice Socrate - «Non è che io sia certo (éuporos) e faccia dubitare (aporéin) gli altri, ma io più di chiunque altro dubbioso (aporòn), fo sì che anche gli altri siano dubbiosi (aporéin).» (Menone, 80c-d)
Il verbo aporéin, in greco, oltre al senso speculativo di «dubitare», «essere in difficoltà», ha anche il significato economico di «essere senza risorse», «essere povero». Poco prima, Socrate aveva confutato, in quanto dava per noto il definiendum, una qualificazione di areté in cui ricorrevano i termini poros, aporia, porìzesthai (procurarsi): la virtù, aveva detto Menone, è la capacità di procurarsi dei beni. Ma aveva poi dovuto ammettere che un acquisto ingiusto non è virtù; pertanto, aveva concluso Socrate, il poros (possesso) di beni non è più virtù di quanto lo sia l'aporia (privazione). (Menone, 78c-e) Il problema è chiarire che cosa si intende per «giustamente», se la giustizia è parte dell'eccellenza. La confutazione, dunque, è una esperienza di impoverimento, almeno agli occhi di chi ha una concezione patrimoniale della conoscenza: credevamo di avere una conoscenza valida e invece, dopo un élenchos, ci ritroviamo senza niente. Menone cerca di sottrarsi all'imbarazzo con un altra questione, che viene dalla sua scuola sofistica:
Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E quale delle cose che ignori farai oggetto di ricerca? E se per un caso l'imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quella che cercavi, se non la conoscevi? (Menone, 80d-e)
Questo paradosso, per chi ha un concezione patrimoniale e reale della conoscenza, è insormontabile: le nozioni sono enti distinti, separati e reciprocamente indipendenti. Si possono avere o non avere. Se non si hanno, non si possono cercare.
Socrate chiama uno schiavo di Menone, e, interrogandolo, lo conduce da una risposta sbagliata alla corretta soluzione di un problema geometrico. Lo schiavo, fra i personaggi del dialogo, è l unico che impara qualcosa, senza che Socrate gli abbia insegnato nulla nel senso sofistico, patrimoniale, del termine. Non gli ha, infatti, trasmesso nessuna nozione. Per illustrare come sia possibile imparare e cercare Socrate introduce uno straordinario racconto: per noi l'apprendimento è reminiscenza o anàmnesis, cioè un richiamare alla mente cose che conosciamo già, in modo da riuscire ad argomentarle e a fissarle nella memoria. Dal momento che cerchiamo ed impariamo cose di cui non abbiamo avuto esperienza nelle nostre vite individuali, la parte in noi che conosce, l'anima o psyché, deve essere immortale ed indipendente dalla forma umana che, al momento, la veste.
L'anima, essendo immortale e venuta ad essere più volte, e avendo veduto le cose dell'al di qua e quelle dell'Ade, in una parola tutte quante, non c'è nulla che non abbia appreso. Per questo può ricordare ciò che prima aveva appreso della virtù e del resto. Poiché tutta la natura è congenere e l'anima ha imparato tutto, nulla impedisce che l'anima ricordando (questo gli uomini chiamano apprendimento) una cosa sola, trovi da sé tutte le altre, se uno è coraggioso e infaticabile nella ricerca. Cercare e imparare sono anàmnesis. (Menone, 81c-d)
Il marxista Ernst Bloch ha condannato l'anàmnesis in quanto espressione metodica dell'estraneità al futuro, perché le idee sono trattate come qualcosa che risiede in un eterno senza tempo, che non può evolversi, e costituiscono perciò un factum reificato e mercificato. 143 Abbiamo però visto che il paradosso di Menone - l'impossibilità di cercare quello che non si sa - presuppone una concezione patrimoniale della conoscenza. L'anàmnesis, di contro, comporta l'opposto: non posso sostenere che un'idea sia «mia » perché ricerca e apprendimento possono aver luogo solo col presupposto di un continuum di conoscenza contestuale comune e interconnessa: lo stesso Menone può discettare dell'insegnabilità della virtù, pur senza saperne dare una definizione rigorosa, perché si trova in questo continuum. Quando scopro o imparo qualcosa di nuovo, questo qualcosa è nuovo per me - e dunque per me, in quanto soggetto storico, c'è evoluzione e futuro - ma non posso dire che la «mia» nozione possa dirsi «mia» in quanto creata da me ex nihilo e nuova per tutto e per tutti. Infatti io ho potuto apprendere e scoprire solo col presupposto di una conoscenza comune precedente, e questa mia conoscenza è una conoscenza in quanto non è una personalissima impressione mia, ma in quanto può rientrare, intersoggettivamente, in un complesso comune. La conoscenza non può essere privatizzata senza cadere in paradossi, perché i suoi presupposti non possono essere individualisti, ma sono necessariamente e inevitabilmente comunitari. 144
Per questo, la conoscenza non può legittimarsi come espressione particolaristica di un ceto sociale, di un gruppo, di una razza o di una cultura, senza scadere a mera espressione di gusto: le idee devono valere per tutti, e tutti quelli che sanno cercare e imparare devono accedere al mondo delle idee, a prescindere dalla veste che capita loro di indossare. Lo schiavo di Menone, a differenza del suo proprietario, ha mostrato di saper imparare qualcosa e di avere diritto di cittadinanza nel mondo della conoscenza. Bisogna chiedersi, perciò, se una filosofia che identifica l'eccellenza con la conoscenza non comporti un potenziale di emancipazione anche sul piano etico-politico. Chi cerca ed impara partecipa ad una comunità di conoscenza molto più ampia e durevole di quella particolare in cui è capitato in sorte. Perché, dunque, incatenare moralmente e politicamente le persone alla loro particolarità storico-sociale? Perché Menone deve avere la possibilità di farsi istruire da Gorgia, mentre il suo schiavo, che mostra di avere migliori disposizioni, deve accontentarsi di un incontro fortunoso con Socrate?
Nel Fedone (115c), poco prima dell esecuzione della sua condanna, Socrate consola gli amici, sulla base della dottrina dell immortalità dell'anima, che segue dall'anàmnesis, con una affermazione simile a questa: «Io sono quel Socrate che ora conversa e non quello che tra poco vedrete cadavere.» Chi, a distanza di più di due millenni dalla sua morte, riesce a leggere queste righe, sa che questo può rimanere vero. Perché sia così non occorre prendere alla lettera le immagini platoniche, ma è necessario, per quanto non sufficiente, pretendere e ottenere la garanzia dell'accesso universale all'informazione.
[141] La traduzione è quella di F. Adorno per Laterza.
[142] Una esposizione chiara ed efficace dei temi del dialogo rimane quella di A. Koyré, Introduction à la lecture de Platon, New York, Brentano s, 1945, cap. I (trad. it. di L. Sichirollo, Introduzione a Platone, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 9-18).
[143] E. Bloch, Das Prinzip Hoffnung (trad. it. di E. De Angelis e T. Cavallo, Il principio speranza, Milano, Garzanti, 1994, pp. 11-12).
[144] Come nota M. Erler (op. cit., pp. 168-159 trad. it.) per Platone il sapere è indipendente e autonomo rispetto alle persone: per questo Socrate non rivendica mai il diritto d'autore. «Mai infatti ho negato di aver appreso qualcosa sostenendo di esservi arrivato da me e dando a intendere che sia una mia scoperta» (Ippia Minore, 372c).
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