Bollettino telematico di filosofia politica

Online Journal of Political Philosophy

E-books > Methexis- Studi e testi > I padroni del discorso

La conoscenza e il mercato: la polemica antisofistica

Alla sofistica si deve l'invenzione dell'educazione impartita in un ambiente artificiale apposito, 131 distinto dalla normale synousìa entro la comunità, nella quale si svolgeva l'educazione tradizionale. 132 Secondo Diogene Laerzio (IX, 52), Protagora fu il primo a chiedere un compenso in denaro per le sue lezioni, e, in questo senso, fu il primo sofista. Questo modo di trasmettere la conoscenza - che per noi è ormai da molto tempo consueto - può essere visto o come un fattore esterno, che non influenza per nulla modalità e contenuti del sapere e dunque non è degno di attenzione filosofica, o come qualcosa che vi incide pesantemente. Chi tratta la filosofia come un corpus dottrinario preferirà la prima ipotesi; chi la tratta come vita teoretica e come sapere pratico, dovrà preoccuparsi della seconda.

E che t'importa, chiesi, forse che Protagora ti ha fatto qualche torto? E lui ridendo: - Sì, per gli dei, Socrate, in questo mi fa torto che solo lui è sapiente (sophos) e non fa sapiente anche me. - - Ma sì, per Zeus, dissi, farà sapiente anche te, se, dandogli quattrini, lo persuaderai.- 133

Questo frammento di conversazione fra un ammiratore del sofista e la voce narrante del Protagora, Socrate, mescola, maliziosamente, le ragioni della conoscenza e quelle del commercio. La sophia o sapienza sembra trasferibile meccanicamente, come una merce, da chi la possiede a chi non la possiede, e il denaro è trattato non come un semplice mezzo di scambio, bensì, alla maniera di un discorso, come uno strumento di persuasione piuttosto forte, visto che può convincere un maestro di sophia. In che senso il sapere è vendibile? E perché questo sapere oggetto di commercio merita di essere acquistato?

Socrate, dopo aver contaminato, a proposito della sofistica, la conoscenza ed il commercio, propone una distinzione: il rischio nell'acquisto degli insegnamenti è molto più grande che in quello del cibo. Il cibo è una cosa con cui si ha un rapporto, molto intimo, di incorporazione: ma i cibi si possono portare a casa in un recipiente e analizzare, mentre le cognizioni devono essere messe alla prova su sé stessi, nella propria anima. (Protagora, 314a) Con un vantaggio o un danno irreversibile: conoscere significa cambiare, in un senso lineare e irrevocabile, e non semplicemente soddisfare un bisogno che si presenta ciclicamente e che deve essere compensato per mantenerci in vita. 134 Per questo, le cognizioni non possono essere valutate come se fossero cose.

Il sofista vende qualcosa, e perciò può essere ingannevole nel lodare la sua merce, senza porsi il problema di sapere se faccia bene o male ai suoi "clienti". Il rapporto commerciante/cliente, come è noto, non è un rapporto di benevolenza: chi vende si preoccupa solo di sfruttare a proprio vantaggio un bisogno dell'altro, o eventualmente di suscitare nell'altro un bisogno che non ha. Il problema del bene dell'altro, in questo contesto, è superfluo, se non deleterio, rispetto allo scopo di vendere. Il potenziale di manipolazione insito nel rapporto fra commerciante e cliente è particolarmente grave quando si ha a che fare con l'informazione, che forma l'uomo più profondamente di quanto faccia il cibo, dato che offre strumenti per valutare tutto il resto: se la conoscenza è qualcosa che si vende e si compra, sarà soggetta alla logica del controllo proprietario - quindi sarà privata e non pubblica - e alle ragioni del marketing, anziché a quelle della verità. Per questo può succedere che un maestro di sapienza si lasci convincere non dalla solidità degli argomenti, ma dalla liquidità della moneta.

Se della conoscenza si fa commercio, le esigenze di mercato incidono anche sul modo in cui si comunica: quando Socrate interrompe Protagora, chiedendogli di spezzare i suoi lunghi discorsi, altrimenti, a causa della sua scarsa memoria, egli non riesce a seguirlo, il sofista replica che se avesse parlato come voleva l'avversario, non sarebbe apparso il migliore, né sarebbe diventato famoso. (Protagora, 334c-335b) Se il sapere è oggetto di competizione - se si deve fare a gara a chi è il miglior sofista, per esempio - inevitabilmente verrà scelta la modalità di comunicazione più vantaggiosa per chi parla. Il discorso lungo e monologico è un espediente ottimo se si vuole mettere a tacere l'avversario, e rendergli difficile seguire e analizzare criticamente i nostri passaggi logici. Una comunicazione funzionale al potere prediligerà, pertanto, la macrologia monologica, ossia una argomentazione ampia, diffusa e non interattiva. Protagora, che vende il proprio sapere in un regime di libera concorrenza, non può fare a meno, nella sua comunicazione, di seguire interessi di potere 135 e di monopolio del tempo e dell ascolto del suo pubblico: non potrebbe permettersi - neppure economicamente - di valersi del principio dialogico, che è collaborativo e critico. Se il sapere deve essere venduto, chi discute con noi è giocoforza o un concorrente o un cliente, e non un nostro pari nella ricerca della conoscenza. 136

Un aspetto ulteriore della questione viene discusso nel Gorgia, quando Socrate tenta di ottenere una definizione dell oggetto dell insegnamento sofistico, la retorica. Questo problema merita considerazione, in quanto impone di prendere in esame le modalità e il grado di influenza sui caratteri interni della conoscenza da parte di un fattore apparentemente esterno, cioè l'essere oggetto di proprietà e, conseguentemente, di compravendita. L'oggetto della conoscenza può essere considerato come indipendente e indifferente rispetto al modo in cui la conoscenza viene distribuita e agli scopi per i quali viene vissuta? La questione si pone in modo esemplare nel caso della retorica, una disciplina fortemente orientata all'interazione con il suo ambiente. Gorgia spiega che la retorica - l'arte da lui professata e venduta - è la techne che insegna a produrre discorsi in grado di risultare persuasivi nelle assemblee politiche e nei tribunali. In questo senso, il suo oggetto è il giusto e l'ingiusto. Questa techne, prosegue Gorgia, conferisce grande potere a chi ne è padrone, perché un discorso persuasivo può sopravanzare, nelle assemblee pubbliche, le argomentazioni di esperti in altri rami del sapere. (Gorgia 449d ss.) La retorica sembra prevalere sulle discipline che si occupano esclusivamente del proprio oggetto, senza interessarsi della propria interazione con il loro ambiente umano.

Socrate induce Gorgia a distinguere fra il memathekénai e il pepisteukénai, ossia fra il sapere che segue all'avere imparato e la fede che segue all'essere stati indotti a credere qualcosa: (Gorgia, 454c ss.) la retorica, in virtù del suo orientamento all'interazione, è più interessata alla fede che al sapere. Il sapere deriva da una relazione diretta con l'oggetto; la fede deriva da una relazione fra soggetti. Sia chi ha imparato, e dunque sa, sia chi è stato indotto a credere, e dunque nutre una credenza, è persuaso di ciò che gli è stato messo in mente: ma mentre può esserci una fede (pistis) vera e una fede falsa, non può esservi una scienza (epistéme) falsa.

Ma se la retorica mira alla persuasione e non all insegnamento, allora essa può suggerire soltanto credenze, e può funzionare soprattutto davanti a un pubblico di ignoranti - un pubblico cui non viene trasmesso nulla, ma è semplicemente manipolato.

Gorgia sottolinea che se della retorica viene fatto un uso ingiusto, la responsabilità di questo uso non dipende da chi l'ha insegnata, ma dall'allievo che la impiega così. In altri termini, l'arte del sofista è uno strumento moralmente neutro, una tecnica nel senso moderno della parola, il cui valore dipende dall'uso che se ne fa.

Socrate replica che, stando così le cose, il retore non è esperto neppure sull'oggetto del suo discorso, il giusto e l'ingiusto, e conosce solo l'arte di persuadere gli ignoranti, cioè di sembrare sapiente fra gli incompetenti. Gorgia, cadendo in contraddizione con quanto detto prima, risponde affermando che la retorica comporta anche la conoscenza di ciò che è giusto. (Gorgia, 460c-d)

La distinzione socratica fra il sapere che segue l'aver imparato e la fede che segue all'essere convinto potrebbe incorrere nel sospetto di essere una distinzione meramente retorica: chi ci assicura che l'insegnamento non sia una forma scaltrita di persuasione? Anche i sofisti con cui Socrate si confronta hanno la pretesa di insegnare qualcosa; le domande con cui Socrate li incalza suggeriscono il dubbio che la sofistica non abbia nulla da trasmettere, ma si riduca al marketing di se stessa. Gorgia stesso, di fronte a questo dubbio, preferisce cadere in contraddizione, affermando che la retorica ha qualcosa da insegnare sul giusto e sull'ingiusto. Ma si potrebbe sostenere che la gratuità della conoscenza socratica comporta un interesse ad un potere molto più profondo: il rapporto con un venditore di conoscenza si risolve nella compravendita ed il consumatore è, in senso mercantile, sovrano. Ma il rapporto con chi fa della conoscenza una scelta di vita e cerca di coinvolgere, in questa scelta, gli altri, è molto più ingombrante ed invadente: Socrate, si potrebbe dire, manipola gli interlocutori - o corrompe i giovani - molto più profondamente e intensamente di quanto possano fare dei semplici venditori di discorsi.

Questa obiezione è tanto più incisiva in quanto Socrate conosce ed usa le tecniche argomentative dei suoi avversari. Dobbiamo dunque scoprire, nell'argomentazione di Socrate, qualcosa che la distingua dalla retorica sofistica. Proprio nella discussione con Gorgia, c'è un affermazione che nessun sofista potrebbe condividere. Questa affermazione concerne la conoscenza nella sua veste, "retorica", di interazione fra soggetti: l'oggetto della conoscenza non può essere considerato indipendentemente dal modo in cui la conoscenza stessa viene vissuta e resa accessibile.

...ritengo l'essere confutato come un maggior beneficio, tanto maggiore, quanto è meglio essere liberati dal male più grande che liberarne altri. (458a)

Lo spessore semantico del sostantivo greco élenchos e del corrispondente verbo elencho comprende non solo la nostra "confutazione", ma anche il venire riconosciuti colpevoli, e l'essere svergognati. 137 L'élenchos non è una riprovazione puramente cognitiva, ma comporta una esperienza umiliante. Un sofista o un politico pubblicamente confutati avrebbero fatto una brutta figura, e avrebbero perso mercato o potere. Stando così le cose, è bizzarro e paradossale che Socrate veda nell'élenchos una esperienza salutare e benefica, tanto da render preferibile il venir confutati al confutare; ed è analogamente bizzarra la convinzione socratica che subire ingiustizia sia meglio che commetterla. Ma proprio simili convinzioni distinguono Socrate dai sofisti: Socrate può avere la certezza di "insegnare" perché egli stesso si espone alla confutazione e, non facendosi pagare, rifiuta la competizione della politica e del mercato. La differenza prima fra stile socratico e stile sofistico non è solo logica ed epistemologica - non riguarda solo gli strumenti argomentativi - ma ha anche a che vedere con un orientamento e un interesse etico, preliminari allo sviluppo dei suoi ragionamenti: è per un interesse etico che Socrate mette alla prova se stesso e gli altri in una confutazione che è allo stesso tempo una esperienza di purificazione personale. Questa esperienza non sarebbe concepibile se la conoscenza fosse un oggetto esterno al soggetto conoscente, patrimoniale, strumentale e mercantile.

L'allievo di Gorgia, Polo, più spregiudicato del maestro, ammette con franchezza che la retorica è una conoscenza di tipo meramente strumentale: retori e tiranni hanno un grande potere nella città, perché possono far bandire o mettere a morte chi vogliono, in quanto possiedono appropriati strumenti di persuasione. (Gorgia, 466a ss.) Socrate pensa, di contro, che una vera techne includa la consapevolezza e la valutazione dei suoi fini, e si propone di mostrare che i retori e i tiranni non hanno le potenzialità loro attribuite, perché non hanno la consapevolezza e la capacità di valutare gli scopi per i quali agiscono. Essi non fanno ciò che desiderano, ma ciò che sembra loro opportuno. E le due cose non sono necessariamente identiche.

Gli uomini agiscono per degli scopi, che devono essere dei beni per loro: ad esempio, chi beve una medicina amara, lo fa in vista di un bene, la sua salute. Le azioni che compiono per ottenere questi beni sembrano loro buone. Ma una azione che sembra buona, cioè in grado di realizzare il bene cui è finalizzata, può non essere l'azione più adatta per conseguire il bene che l'agente si prefigge. (Gorgia, 466e ss.) In questo caso, l'agente fa ciò che gli sembra bene, ma non fa ciò che desidera. Usando una distinzione prodotta dalla filosofia analitica, possiamo dire che, in questo caso, l'oggetto effettivo della sua azione non si identifica con il suo oggetto rappresentato. Ciò che l'azione effettivamente realizza è diverso da ciò che l'agente aveva in mente di ottenere. Questo avviene quando un agente, pur avendo il potere di agire, manca di conoscenza sulla vera natura della sua azione. Per esempio: l'oracolo annuncia a Edipo che ucciderà suo padre e sposerà sua madre. Edipo, essendo convinto che i suoi genitori adottivi di Corinto siano i suoi genitori naturali, fugge a Tebe per sottrarsi alla profezia. Qui comincia a desiderare di sposare la vedova del re, Giocasta. Questo è l'oggetto della sua azione come egli se lo rappresenta, ciò che gli sembra bene. Edipo, tuttavia, non sa che Giocasta è sua madre; ignora, pertanto, che l'oggetto effettivo del suo desiderio è proprio ciò che sta cercando di evitare, e cioè il matrimonio con sua madre. Edipo fa quello che gli sembra bene, ma non quello che desidera, a causa della sua ignoranza. Se ci manca la conoscenza, non basta il potere, per realizzare quello che vogliamo. 138

Quando Socrate afferma che il potere senza conoscenza non ha nessun valore, non sta parlando di una conoscenza semplicemente tecnica, ma della conoscenza del bene, che permette di discernere il giusto dall'ingiusto. Egli ha di fronte un interlocutore, Polo, il quale pensa che la retorica, svincolata dall'etica, possa migliorare il benessere di chi se ne vale senza scrupoli. Secondo Polo, il poter fare ciò che sembra, detenuto da retori e tiranni, è qualcosa di invidiabile. E a questo interlocutore deve dimostrare che l'ingiustizia, e non l'impotenza, è il male supremo:

Il supremo male, il male peggiore che possa capitare, è commettere ingiustizia [...]

Non vorrei né patirla né commetterla, ma, fra le due, se fossi costretto a scegliere, preferirei piuttosto patire che commettere ingiustizia. (Gorgia, 469b-c) 139

Socrate conduce Polo a riconoscere che il vero potere non è semplicemente fare ciò che si vuole, ma riuscire a trarne vantaggio. Il giovane sofista, allora, gli adduce come esempio di felicità (eudaimonìa) un usurpatore e tiranno di successo, il despota macedone Archelao figlio di Perdicca. Come prova della sua tesi presenta il consenso della maggioranza. Socrate, però, non accetta questa prova come valida: il ridicolo e l'appello a una opinione condivisa dai più sono solo surrogati di confutazione che non hanno nessun valore in un'argomentazione ad veritatem e sono tanto più sospetti in quanto offerti da un sofista, che fino a un momento prima si era vantato di saper manipolare le assemblee con la propria retorica. (Gorgia, 471d ss.)

Socrate si propone di dimostrare a Polo, con il metodo elenchico, che non è possibile essere nello stesso tempo àdikos (ingiusto) ed eudàimon (felice). L'opinione da cui prende avvio l'élenchos è la tesi di Polo secondo cui subire ingiustizia è peggiore (kàkion) che commetterla; ma commettere ingiustizia è moralmente più brutto (àischion) che patirla. Questa tesi si basa sul presupposto che la bellezza e la bruttezza morale (kalòn e aischròn) siano diverse dall'agathòn e dal kakòn, cioè dal bene e dal male in quanto intesi a procurare felicità.

  1. Il primo passo dell'élenchos consiste nel chiedere per quale ragione una cosa è considerata bella (kalòs). La risposta è: perché dà piacere o è utile a chi la contempla. Analogamente, una cosa apparirà brutta (aischròs) se provoca dolore o danno. Cioè il bello e il brutto dipendono dal piacere e dal dolore che provocano, o (vel) dal bene e dal male che procurano.
  2. Polo aveva riconosciuto che commettere ingiustizia è più brutto (àischion) che patirla.
  3. Ma questo significa che Polo riconosce anche che commettere ingiustizia può essere o più doloroso o (vel) più dannoso (peggiore) che subirla.
  4. Commettere ingiustizia non supera in dolore il patirla. Possiamo però ammettere che lo supera in male, e quindi:
  5. commettere ingiustizia è peggio (kàkion) che subirla.

Gregory Vlastos 140 ha osservato che Socrate usa, forse inconsapevolmente, un trucco: nel primo passo del ragionamento il bello viene definito in relazione a chi lo contempla, allo spettatore. Ma nei passi successivi il riferimento al punto di vista dello spettatore viene lasciato cadere, e sembra che si parli sia dello spettatore, sia del protagonista dell'azione, che compie o subisce ingiustizia. Eppure, dal fatto che il bello sia piacevole o utile per lo spettatore non segue che esso sia analogamente piacevole o utile per l'attore; e lo stesso discorso si può fare anche per il brutto. Per fare un esempio melodrammatico: lo spettatore può trovare piacevole uno spettacolo di clown, ma per il pagliaccio la messinscena può essere una esperienza molto dolorosa. A prima vista, Polo si è fatto confutare non solo perché ha concesso a Socrate che commettere ingiustizia fosse più brutto che subirla, ma soprattutto perché ha permesso che il suo interlocutore omettesse di precisare che stava parlando solo del punto di vista dello spettatore.

Però, enunciando una ulteriore premessa, sottointesa nel concetto di eudaimonìa, è forse possibile interpretare questo argomento come un ragionamento valido. La premessa è questa: in ambito morale, a differenza che all'opera, non esistono spettatori e attori, ma tutti sono attori, partecipi dell'universo che giudicano e che contemplano. Se ciò è vero, Socrate è legittimato a lasciar cadere la clausola «per chi li contempla», una volta connesso il moralmente bello all'interesse dello spettatore e agente morale.

Se lo spettatore morale è sempre anche attore, non è coerente distinguere un'estetica della morale, per la quale commettere ingiustizia è «brutto», da una «tecnica» della morale, per la quale subire ingiustizia è «cattivo». Che cosa mi autorizza a usare, da spettatore, un criterio di valutazione differente rispetto a quello che adopererei se fossi attore? Se dico, per esempio, che non è giusto mentire, lo devo dire giocoforza per gli altri, di cui sono spettatore, e per me che agisco.

In ambito etico, io sono sempre un attore, almeno potenziale, e non sono mai uno spettatore. Sono partecipe al problema del bene e alle vicende che, alla sua luce, devo giudicare. Perciò, se diciamo che una cosa è più brutta dobbiamo affermare anche che è peggiore: che, in una situazione che ci riguardasse, sarebbe meglio che non vi fossero persone che commettono ingiustizia, e che noi non fossimo fra queste, piuttosto che ammetterne la possibilità e fare di tutto per non essere fra coloro che la subiscono. Per questo, il primo dovere di una persona responsabile di ciò che fa nel mondo è non commettere ingiustizia; evitare di subirla è una questione secondaria, che può porsi correttamente, cioè secondo giustizia, solo una volta affrontata la prima.

In conclusione, dal confronto di Platone con la sofistica si possono desumere due modelli di conoscenza contrapposti e concorrenti. Se intendiamo la conoscenza, rispetto a chi conosce, come qualcosa di esteriore, patrimoniale, meccanicamente trasferibile, oggetto di compravendita, le ragioni della validità cognitiva si mescolano ad interessi commerciali e competitivi; la comunicazione risulta monologica e finalizzata all'attuazione di tali interessi; e il discorso si suddivide in unità e discipline distinte, smerciate separatamente come ricette per scopi particolari e delimitati. Se intendiamo la conoscenza come qualcosa di interiore rispetto a chi conosce - qualcosa che gli cambia la vita - avremo invece una conoscenza personale, che accetta la pubblicità paritaria della possibile confutazione come salutare, e che cerca una prospettiva non settoriale, bensì unitaria. L'unità della prospettiva non è dovuta ad una ignoranza delle specializzazioni, ma al fatto che questa forma di conoscenza è ragion pratica, vita e prassi conoscitiva: le cose che si sanno non si possiedono come le pagine di un ricettario, ma sono nostre in quanto riusciamo a discuterle nelle loro relazioni con tutti e col tutto.



[131] P. Hadot, op. cit., pp. 27-34 (trad. it. pp. 13-17).

[132] Socrate, in Apologia 19d-20a riferisce criticamente di questa novità.

[133] Platone, Protagora, 310d (trad. it. di F. Adorno per Laterza).

[134] Questa visione lineare della conoscenza comporta l'abbandono di quella che si potrebbe chiamare antropologia dell'indigenza, la quale (E. Bencivenga, Manifesto per un mondo senza lavoro, Milano, Feltrinelli, 1999, pp. 16) mi vede come un essere inerte, finché non si apre in me, come una lacuna, un bisogno, che cerco di soddisfare facendo scambi con gli altri in ragione dei loro bisogni, o approfittando della loro indigenza per soverchiarli. Solo il bisogno mi mette in relazione con gli altri.

La vita dell'uomo che identifica il proprio bene con la soddisfazione dei bisogni è ripetitiva e dipendente, per quanto i bisogni possano essere variati, affinati e rinnovati: io mi metto in movimento solo se avverto - o sono indotto ad avvertire - una mancanza, colmata la quale ritorno, provvisoriamente, nel mio stato di quiete. Il Callicle del Gorgia (493e ss.), che esprime questa antropologia nel modo più chiaro, aveva in mente, da aristocratico, un tipo di soddisfazione dei suoi bisogni basato sulla sopraffazione sugli altri; un sistema di mercato si fonda sul più universalizzabile scambio, il quale però comporta che il valore di ciascuno risieda nel suo lavoro, cioè nella sua capacità di soddisfare il bisogno indotto in qualcun altro (ibidem, p. 15). Quando si riduce il soggetto morale a una creatura indigente, la cui prassi si esaurisce nel ciclo del bisogno e della sua soddisfazione, l'ideale socratico della virtù come controllo consapevole di sé appare statico: se il bisogno non è, in quanto tale, la ragione fondamentale per l'azione, risulta difficile reperire qualche altro motivo per uscire dall'inerzia. A ben guardare, la libertà è qualcosa di pericoloso in un sistema socio-politico che si costruisce e si giustifica sull'indigenza: fare scelte non riconducibili a bisogni significa agire, imponderabilmente, al di fuori dalle ragioni dello scambio. Le cose cambiano se il soggetto viene pensato come una creatura libera, per la quale i bisogni sono interruzioni ad attività che sceglie gratuitamente, cioè indipendentemente dalla propria indigenza naturale o indotta. Solo una creatura che non si riduce ai suoi bisogni e sa scegliere in modo libero può sfuggire al ciclo e progredire linearmente.

[135] Come nota A. Biral (Platone e la conoscenza di sé, Roma-Bari, Laterza, 1998, p. 11), il rapporto gerarchico che si instaura fra il sofista e il suo pubblico incide non solo sulla forma, ma sul contenuto dell insegnamento: Protagora crede di saper insegnare solo se riesce a travasare meccanicamente nozioni in chi sa meno di lui.

[136] M. Erler (op. cit., pp. 123-149) ricorda che sia Socrate, sia Platone rifiutavano il rapporto di autorità fra maestro e allievo, proprio per prendere le distanze dai sofisti. Anche i membri del circolo più interno dell Accademia di Platone si chiamavano etàiroi, compagni.

[137] Omero, Iliade, 11.314, Odissea, 21.329.

[138] Questa spiegazione si trova in G. Vlastos, Socrates cit., pp. 133-165 (trad. it pp. 177-208). Di fronte alla tesi socratica per la quale fare ciò che sembra bene non significa fare ciò che si vuole, un lettore potrebbe chiedersi se questa non comporti che sia legittimo limitare la libertà delle persone di fare ciò che loro sembra giusto per indirizzarle o costringerle a fare ciò che "veramente" desiderano. Se, cioè, già nel Gorgia sia possibile intravedere il nucleo di un etica metafisica totalitaria. A ben guardare, però, la tesi di Socrate, per la quale il potere non ha nessun valore senza conoscenza, non permette questo sviluppo: limitare il potere degli ignoranti e dei dissidenti in nome di un etica metafisica a loro ignota, in nome di ciò che essi - a nostro dire - desiderano senza rendersene conto, non incide affatto sulla loro conoscenza. Una persona non diventa meno ignorante o più consapevole semplicemente perché viene limitata la sua libertà di fare ciò che le sembra giusto, o viene costretta a fare ciò che non le sembra tale. Se la virtù è conoscenza, per rendere virtuose le persone non serve agire sul loro potere, ma occorre agire sulla loro conoscenza (Apologia, 26a); e questa azione non può aver luogo senza una consapevole partecipazione degli interessati. Questo argomento, però, potrebbe farsi problematico se la virtù non venisse semplicemente equiparata a conoscenza, ma fosse identificata con un modello (eidos) di ordine e armonia: che cosa impedisce di plasmare la persona in base a questo modello, a prescindere dal suo interesse e dalla sua partecipazione? L'uso morale e politico che Platone fa dell'eidos è una delle principali pietre di paragone per vagliare la sua esposizione all'accusa di totalitarismo.

[139] La traduzione è quella di F. Adorno per Laterza.

[140] G. Vlastos, Socrates cit., pp. 133-156 (trad. it. pp. 177-208).


Creative Commons License
This work is licensed under a Creative Commons License