Tetradrakmaton

I Greci tra oralità e scrittura

Bollettino telematico di filosofia politica
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Ultimo aggiornamento 13 aprile 2003

Del culto dei libri
Di J.L. Borges

Nell'ottavo libro dell'Odissea si legge che gli dèi tessono disgrazie affinché alle future generazioni non manchi di che cantare; l'affermazione di Mallarmé: Il mondo esiste per approdare a un libro, sembra ripetere, trenta secoli dopo, lo stesso concetto di una giustificazione estetica dei mali. Le due teologie, tuttavia, non coincidono interamente; quella del greco corrisponde all'epoca della parola orale, e quella del francese, a un'epoca della parola scritta. In una si parla di cantare e nell'altra di libri. Un libro, qualunque libro, e per noi un oggetto sacro; già Cervantes, che forse non ascoltava tutto quel che diceva la gente, leggeva perfino "le carte strappate nelle strade". Il fuoco, in una delle commedie di Bernard Shaw, minaccia la biblioteca di Alessandria; qualcuno esclama che brucerà la memoria dell'umanità, e Cesare gli dice: Lasciala bruciare. È una memoria d'infamie. Il Cesare storico, a parer mio, approverebbe o condannerebbe il giudizio che l'autore gli attribuisce, ma non lo riterrebbe, come noi, uno scherzo sacrilego. La ragione è chiara: per gli antichi la parola scritta non era altro che un succedaneo della parola orale.

È fama che Pitagora non abbia scritto; Gomperz (Griechische Denker, I, 3) sostiene che operò in tal modo perché aveva più fede nella virtù dell'istruzione parlata. Di maggior forza della mera astensione di Pitagora è la testimonianza indubitabile di Platone. Questi, nel Timeo, affermò: "E' ardua impresa scoprire l'artefice e padre di questo universo, e, una volta scoperto, è impossibile rivelarlo a tutti gli uomini", e nel Fedro narrò una favola egizia contro la scrittura (la cui abitudine fa sì che la gente trascuri l'esercizio della memoria e dipenda da simboli), e disse che i libri sono come le figure dipinte, "che paiono vive, ma non rispondono una parola alle domande che loro si pongono". Per attenuare o eliminare tale inconveniente immaginò il dialogo filosofico. Il maestro scegli il discepolo, ma il libro non sceglie i suoi lettori, che possono essere malvagi o stupidi; questo timore platonico perdura nelle parole di Clemente di Alessandria, uomo di cultura pagana: "La cosa più prudente è non scrivere ma invece apprendere e insegnare a viva voce, perché ciò che è scritto rimane" (Stromateis), e in queste altre dello stesso trattato: "Scrivere in un libro tutte le cose è lasciare una spada in mano a un bambino", che derivano anche da quelle evangeliche: "Non date cose sante ai cani né gettate le vostre perle davanti ai porci, acciocché non le calpestino coi piedi, e si volgano contro di voi e vi sbranino". Questa è la massima di Gesù, il più grande dei maestri orali, che una sola volta scrisse alcune parole in terra e nessun uomo le lesse (Giovanni, 8:6).

Clemente Alessandrino lasciò scritta la sua diffidenza della scrittura alla fine del secolo II; alla fine del IV cominciò il processo mentale che, dopo molte generazioni, sarebbe culminato nel predominio della parola scritta su quella parlata, della penna sulla voce. Un mirabile caso ha voluto che uno scrittore fissasse l'istante (esagero appena chiamandolo istante) in cui ebbe principio il vasto processo. Narra Sant'Agostino, nel libro sesto delle Confessioni: "Quando Ambrogio leggeva, faceva scorrere lo sguardo sulle pagine penetrando il loro significato, senza proferire una parola né muovere la lingua. Molte volte - poiché a nessuno si proibiva di entrare, né c'era costume di annunciargli chi venisse - lo vedemmo leggere tacitamente e mai in altro modo, e dopo qualche tempo ce ne andavamo, ritenendo che quel breve intervallo che gli era concesso per ristorare il suo spirito, lungi dal tumulto degli altrui negozî, non voleva egli che glielo occupassero con qualche altra cosa, timoroso forse che un ascoltatore, attento alle difficoltà del testo, gli chiedesse spiegazione di un passo oscuro o volesse discuterlo con lui, ché con ciò non avrebbe potuto leggere tanti libri quanti desiderava. Io credo che leggesse in quel modo per preservare la voce, che gli diveniva fioca con facilità. Ad ogni modo, qualunque fosse il proposito di quell'uomo, certamente era buono". Sant'Agostino fu discepolo di Sant'Ambrogio, vescovo di Milano, intorno all'anno 384; tredici anni dopo, in Numidia, redasse le sue Confessioni e ancora lo turbava quel singolare spettacolo: un uomo in una stanza, con un libro, che legge senza articolare le parole (1).

Quell'uomo passava direttamente dal segno di scrittura all'intuizione, omettendo il segno sonoro; la strana arte che iniziava, l'arte di leggere silenziosamente, avrebbe condotto a conseguenze meravigliose. Avrebbe condotto, trascorsi molti anni, al concetto di libro come fine, non come strumento di un fine. (Questo concetto mistico, trasferito alla letteratura profana, avrebbe prodotto i singolari destini di Flaubert e di Mallarmé, di Henry James e di James Joyce) Alla nozione di un Dio che parla con gli uomini per ordinare o proibire loro qualcosa, si sovrappone quella del Libro Assoluto, quella della Scrittura Sacra. Per i musulmani, il Corano (chiamato anche Il Libro, Al Kitab) non è una mera opera di Dio, come le anime degli uomini o l'universo; è uno degli attributi di Dio, come la Sua eternità o la Sua ira. Nel capitolo XIII, leggiamo che il testo originale, La Madre del Libro, è depositato nel Cielo. Muhammad-al-Ghazali, l'Algazel degli scolastici, affermò: "il Corano si copia in un libro, si pronuncia con la lingua, si ricorda nel cuore, e tuttavia perdura nel centro di Dio e non lo altera il passare per i fogli scritti e per gl'intendimenti umani". Gorge Sale osserva che codesto increato del Corano non è altra cosa che la sua idea o archetipo è platonico; è verosimile che Algazel ricorresse agli archetipi, resi noti all'Islam dall'Enciclopedia dei Fratelli della Purezza e da Avicenna, per giustificare la nozione della Madre del libro.

Anche più stravaganti dei musulmani furono gli ebrei. Nel primo capitolo della loro bibbia si trova la frase famosa: "E Dio disse: sia la luce, e la luce fu"; i cabalisti argomentarono che la virtù di quell'ordine del Signore procedette dalle lettere alle parole. Il trattato Sefer Yetsirah (Libro della Formazione), scritto in Siria o in Palestina intorno al secolo VI, rivela che Jehova, Dio degli Eserciti, d'Israele e Onnipotente, creò l'universo mediante i numari cardinali che vanno dall'uno al dieci e le ventidue lettere dell'alfabeto. Che i numeri siano strumenti o elementi della Creazione è dogma di Pitagora e di Giambico; che lo siano le lettere, è chiaro indizio del nuovo culto della scrittura. Il secondo paragrafo del secondo capitolo dice: "Ventidue lettere fondamentali: Dio le disegnò, le incise, le combinò, le pesò, le permutò, e con esse produsse tutto ciò che è e tutto ciò che sarà". Poi viene rivelato quale lettera ha potere sull'aria, e quale sull'acqua, e quale sul fuoco, e quale sulla sapienza, e quale sulla pace e quale sulla grazia, e quale sul sonno e quale sulla collera, e come (per esempio) la lettera Kaf, che ha potere sopra la vita, servì per formare il sole nel mondo, il mercoledì nell'anno e l'orecchio sinistro nel corpo.

Più lungi andarono i cristiani. Il pensiero che la divinità aveva scritto un libro li mosse a immaginare che ne avesse scritti due e che l'altro fosse l'universo. Al principio del secolo XVII, Francis Bacon affermò nel suo Advancement of learning che Dio ci offriva due libri, perché non cadessimo in errore: il primo, il volume delle Scritture, che rivela la Sua volontà; il secondo, il volume delle Scritture, che rivela la Sua volontà; il secondo, il volume delle creature, che rivela la Sua potenza, e questo era la chiave di quello. Bacone si proponeva molto di più che fare una metafora; pensava che il mondo potesse essere ridotto a forme essenziali (temperature, densità, pesi e colori), che componevano, in numero limitato, un abecedarium naturae o serie delle lettere con cui si scrive il testo universale. (2) Sir Thomas Browne, verso il 1642, confermò: "Due sono i libri nei quali soglio apprendere teologia: la Sacra Scrittura e quell'universale e pubblico manoscritto che è manifesto a tutti gli occhi. Coloro che mai non Lo videro nel primo, Lo scoprirono nell'altro" (Religio Medici, I, 16). Nello stesso paragrafo si legge: "Tutte le cose sono artificiali, perché la Natura è l'arte di Dio". Duecento anni trascorsero e lo scozzese Carlyle, in diversi luoghi della sua opera e specialmente nel saggio su Cagliostro, sorpassò l'ipotesi di Bacone; pubblicò che la storia universale è la Scrittura Sacra che decifriamo e scriviamo incertamente, e nella quale siamo anche scritti. Più tardi, Léon Bloy scrisse: "Non c'è sulla terra essere umano capace di dichiarare chi egli sia. Nessuno sa che cosa è venuto a fare in questo mondo, di che cosa fan parte i suoi atti, i suoi sentimenti, le sue idee, né qual è il suo nome vero, il suo imperituro Nome nel registro della Luce… La storia è un immenso testo liturgico, nel quale le iote e i punti non valgono meno dei versetti e capitoli interi, ma l'importanza degli uni e degli altri è per noi indeterminabile e sta profondamente nascosta" (L'Âme de Napoléon, 1912). Il mondo, secondo Mallarmé, esiste per giustificare un libro; secondo Bloy, siamo versetti o parole o lettere di un libro magico, e codesto libro incessante è l'unica cosa che è al mondo: è, per meglio dire, il mondo.

Buenos Aires, 1951

(1) I commentatori avvertono che, in quel tempo, c'era l'abitudine di leggere a voce alta, per penetrare meglio il significato, giacché non v'erano segni di interpunzione, e neppure divisione tra le parole, e di leggere in comune, per moderare o evitare gl'inconvenienti della scarsità dei codici. Il dialogo di Luciano di Samosata, Contro un ignorante compratore di libri, racchiude una testimonianza di un tale costume nel secolo II.

(2) Nelle opere di Galileo abbonda il concetto dell'universo come libro. La seconda sezione dell'antologia di Favaro (Galileo Galilei: Pensieri, motti e sentenze, Firenze 1949) s'intitola il libro della Natura. Copio il seguente paragrafo: "La filosofia è scritta in quel grandissimo libro che continuamente sta aperto davanti ai nostri occhi (voglio dire, l'universo), ma che non s'intende se prima non si studia la lingua e si conoscono i caratteri in cui sta scritto. La lingua di quel libro è matematica e i caratteri sono triangoli, circoli e altre figure geometriche".

(Da Otras inquisiciones, Emecé, Buenos Aires 1960, tr. it. di F. Tentori Montalto, Altre inquisizioni, Feltrinelli, Milano 1973, pp. 115-9).

  



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