Il contratto sociale
In tale prospettiva il
contratto sociale viene ad assumere il valore e la
funzione di imprescindibile elemento vitale e redentivo, quale
esito più maturo del suo stesso piano metodologico, in cui
tendenze razionalistiche e naturalistiche si coniugano in un
sincretico e originale equilibrio [1].
Un nesso inscindibile collega in tal modo natura umana e forme
della politica: il diritto costituisce l’essenza di tale
mediazione. Se in precedenza il carattere meramente regolativo e
consuetudinario dello jus non facilitava le
possibilità di connessione tra sensibilità e
ragione, ora invece il riconoscimento di una natura
contestualmente sociale e razionale, radicalmente umana del
diritto rende possibile questo pieno recupero.
Rimossa pertanto sullo sfondo la concezione del tradizionale
percorso onto-teologico fondato sullo schema
integrità-caduta-redenzione, si apre la possibilità
di una nuova coniugazione di senso, in cui il compito della
risalita è demandato – nell’ambito di una
dimensione precipuamente storica e laica - al diritto, alla
politica.
Veicolati dalla lex, dall’ordo, dalla
misura, l’utile e la molteplicità dei conflitti che
appartengono al campo della materialità non vengono
più a costituire il polo negativo che funge da ostacolo
alla societas, ma si intende invece che costituiscano
l’irriducibile dimensione nel cui alveo soltanto
l’uomo può realizzare la conservazione del suo
essere e perfezionarlo, in un percorso atto a ricondurre dalla
caduta all’auctoritas civilis, fino a
pervenire ad una sempre più piena autonomia
rigeneratrice.
Le istanze del vero e della ragionevolezza possono pertanto
proiettarsi su quelle dell’utile avvalendosi del diritto
naturale: una volta riconosciuto che l’utile è parte
integrante del mondo naturale e della sensibilità, traendo
alimento dall’ordo e dai principi razionali, il
diritto può infatti innervarsi sul reticolo delle
utilità, eliminandone gli aspetti maggiormente egoistici e
conflittuali, così da contribuire alla progressiva
realizzazione della naturale socievolezza dell’uomo.
Venuto meno l’ordo spontaneo di ratio e
iustitia, nessuno stabile equilibrio di
dominium e libertas potrebbe in effetti
attuarsi a prescindere dall’auctoritas; la quale
è di conseguenza in grado di trovare un’efficace
espressione solo avvalendosi dell’esercizio positivo della
certezza e del sostegno della coercizione. Ma è
pur sempre dall’autorità, per così dire,
della natura che discende l’autorità
giuridico-politica; non si tratta certamente di un passaggio
indolore: l’auctoritas diversamente dal darsi
spontaneo del diritto naturale, deve infatti affermarsi
attraverso una travagliata costruzione di sfere d’ordine e
di giustizia, anche servendosi – se necessario -, della
forza e della coercizione. Ossia deve poter rovesciare la Lex
violentiae in violentia legis; è infatti in
tal modo che le ragioni del diritto, stravolte e sommerse,
vengono ad essere riportate in auge
dall’auctoritas, così da improntare,
geneticamente, il senso e le sorti della politica in
generale.
E’ appunto nello spazio tra ragione e
autorità che il diritto, come sistema giuridico
storicamente istituito, di proprietà, libertà e
giustizia - in quanto cioè unione di jus
naturale, jus positivum e jus voluntarium
-, viene pertanto progressivamente ad affermarsi,
consolidandosi nell’ambito della comunità politica,
dei suoi bisogni e delle sue istanze, così da possedere in
essa le sue più salde e profonde radici.
In Grozio dunque l’ordine giuridico positivo scaturente
dal contratto non viene così a porsi in antitesi al
diritto naturale; ma quest’ultimo mantiene costantemente la
funzione di integrare, fondare e perfezionare i rapporti
giuridici positivamente istituiti (ossia di diritto volontario
). Il principio stesso dell’osservanza dei patti (pacta
sunt servanda) funge del resto da freno all’insorgenza
degli arbitrii individuali, facendo in ogni caso prevalere la
ragione e il principio di equità qualora la posta in gioco
sia l’interesse sociale, il bene comune. E’ in tal
senso che continua a persistere, nello stato di latenza, la
communio primaeva, fungendo come da verifica –
sullo sfondo dell’originario stato di comunione -, dei
rapporti giuridici di diritto positivo. Qualora questi si
discostino dalla loro più profonda e autentica condizione
di cose create dalla natura, in conformità con i dettami
della ragione, così da stravolgere la loro stessa ragione
d’essere e da destabilizzare i legami societari, viene
perciò stesso a riemergere (in modo più o meno
violento a seconda dei differenti contesti storico-politici),
l’originario stato di comunione [2].
Affermare la politicità e contrattualità dei
rapporti giuridico-sociali equivale dunque, in Grozio, ad
asserire la razionalità e naturalità dei medesimi.
Autentica volontà può essere solo quella che
asseconda le tendenze e finalità della natura umana,
peculiarmente contrassegnata dalla ragione. In tale prospettiva
il principio stesso del rispetto dei patti (pacta sunt
servanda) viene dunque ad assumere un significato non
meramente conservativo, ma invece critico e propulsivo, in quanto
induce a dar vita a rapporti giuridici equi e legittimi (e non
semplicemente ad accettare e subire in maniera acritica e in
ragione dell’esistente, un determinato assetto
giuridico-istituzionale).
Per quanto incardinato nella ragione, per cui le leggi da
rispettare non devono mai essere manifestamente prevaricatrici [3], tuttavia spesso accade
che sulla natura razionale vengano ad avere la meglio le pulsioni
naturali, radicate nella mera spontaneità vitale e
volontà degli individui e dei popoli. Si riconosce infatti
che “ci sono dei popoli il cui naturale è di sapere
meglio obbedire che governare” [4]; e poiché vi sono inoltre
società eguali o diseguali [5], conseguentemente in rapporto a
ciò, anche i criteri di legittimità giuridica
devono variare [6].
In questi casi il contratto, anziché bilanciare diritti e
doveri e istituire un’eguaglianza formale, sembra
così sancire situazioni di sperequazione e irretrattabili
rinunce a diritti individuali e collettivi. Tuttavia ciò,
quasi paradossalmente, viene asserito da Grozio pur sempre e solo
nel segno del rispetto dell’autodeterminazione degli
individui e della pluralità e storicità delle etnie
. Resta tuttavia che queste, in tal senso, si trovano a tutti gli
effetti a dover deliberare in condizioni di minorità e di
estrema indigenza.
Note
[1] Al riguardo si vedano
le osservazioni di F. TODESCAN, in Metodo. Diritto.
Politica. Lezioni di Storia del pensiero giuridico, Bologna, Monduzzi, 1998, pp. 98-99.
[2] Cfr. H. GROTIUS, De
Iure, cit., II, II, VI, [2], p. 192.
[3] Cfr. H. GROTIUS, De
Iure, cit., I, III, X, [4], p. 111.
[4] Ibid., I, III,
VIII, p. 103.
[5] Cfr. H. GROTIUS, De
Iure, cit., I, I, III, [2], p. 31.
[6] Ibid., I, I,
III, [2], p. 31.
|
Pagine collegate:
|