La comunità politica
Unione perfetta di uomini liberi
(coetus perfectus liberorum hominum) istituita allo
scopo di fondare un ordine giuridico nell’interesse della
comunità (juris fruendi et communis utilitatis
causa) [1], lo
Stato ruota ed è essenzialmente incardinato nella
sovranità della comunità politica (summae
potestatis subjectum commune est civitas) [2]. La trama pluralistica di
micropoteri che sta alla base della istituzione della
società e dell'autorità Sovrana, come una sorta
di microfisica del potere è rivelativa della intrinseca
dipendenza del “potere” dalla “potenza”
[3]. Il che ha per
effetto di conferire da un lato carattere di
“legittimazione”, dall’altro di
“limitazione” all’azione politica. Agendo
inoltre quale strumento di garanzia sia da parte del singolo nei
confronti del Potere Sovrano, sia da parte di quest’ultimo
in rapporto ai singoli individui.
In tal senso il limite implicato dall’esistenza
della sovranità dello Stato (subordinazione e
regolamentazione della sfera delle individualità sulla
base di una comune codificazione), non esprimerebbe altro che la
concreta e sempre parziale attualizzazione del processo
“costitutivo” della sua stessa potenza in senso
politico-istituzionale. Più che di un limite si
tratterebbe dunque di un’autolimitazione. Ossia
rappresenterebbe una sorta di causalità immanente alla
costituzione della potenza statuale: in virtù di essa gli
individui rapportandosi e limitandosi reciprocamente, si
riconoscerebbero in senso giuridico, accettando di dar vita e di
trovare ordinata espressione all’interno di un organismo di
potere radicato in un duplice nesso costituito e costitutivo
da/di libertà e potenza.
E’ appunto in tale prospettiva che nel De Iure Belli
ac Pacis la sovranità viene descritta come una
produzione collettiva continua, ossia come una sorta di processo
di “transfert” dalle potenze individuali alla potenza
pubblica: il diritto sovrano istituisce un dominio
(imperium) e correlativamente una obbedienza,
assoggettando gli individui (subjecti) ad un ordine
oggettivo. Ma la condizione di suddito non si identifica con
quella di una servitù passiva [4]. Essa comporta infatti la
sottomissione ad un potere che è totalizzante, e tuttavia
non totalitario, la cui natura è ravvisabile in una
connessione strutturale che unisce funzionalmente – secondo
una ratio di equità, stabilità e concordia
-, le varie membra che compongono il corpo sociale.
Strutturandonee intensificandone la potenza in una
totalità organica chene coordina istituzionalmente le
energie, al di là di ogni astratto e irrelato
particolarismo (dissociata multitudo).
L’unità sociale (vitae civilis
consociatio) viene così ad essere concepita in
ragione della sovranità, della cui autorità suprema
(summum imperium) costituisce il vincolo politico, in
virtù del quale un popolo forma un tutto unico
(vinculum per quod respublica cohaeret) [5].
Nella prospettiva organicistica del De Iure Belli ac
Pacis la società viene dunque a delinearsi come un
corpo di cui il sovrano è appunto la testa; ma dal momento
che la testa è pur sempre una parte del corpo, allora,
transitivamente, anche la sovranità appartiene al corpo
che, come un tutto, viene di necessità a comprendere
anch’essa: “Nam imperium, quod in rege ut in capite,
in populo manet ut in toto, cuius pars et caput” [6]. Ed è appunto
in ragione di ciò che il governo di un popolo,
quand’anche sia retto dalla Potenza Sovrana, non cessa di
appartenergli: “Non desinit imperium esse populi” [7].
In tal senso il concetto di Stato racchiude in sé,
ambivalentemente, l’imperium e la
respublica [8]: quanto costituisce la forza e stabilità di
questo organismo duplice, è pertanto la sua stessa
capacità di adeguare, proporzionalmente, la forma delle
sue istituzioni al contenuto cangiante della società
civile, decretando, in tempo di pace come di guerra, quanto
è conforme al bene pubblico.
Pertanto il diritto sovrano implica ed esplica la
potentia stessa della vita collettiva; ed è in
tal senso definibile come l’affermazione concreta della sua
generalità intensiva. Reciprocamente il potere
dell’Auctoritas civilis viene ad essere
determinato dalla sua stessa potenza: è valido cioè
entro i limiti di essa. Ossia trae sostegno dalla forza coesiva
che riesce a sviluppare nei confronti del corpo sociale, dal cui
consenso più o meno esplicito deriva [9] e dalla cui obbedienza deve
continuamente essere consolidato e potenziato [10]. Indipendentemente dalla sua
concreta genesi storica, la sovranità risulta pertanto
fondata su di un accordo comune. Non esiste cioè alcuna
gerarchia a livello della costituzione del Potere Sovrano, dal
momento che ogni singolo individuo trasferisce totalmente il suo
diritto (o potere) naturale; ed è appunto in ragione di
ciò che la sovranità viene ad assumere carattere di
assolutezza.
Ma questo è vero solo per quanto concerne l’essenza
del Potere Sovrano: infatti considerata da un punto di vista
funzionale ed estensivo, ossia considerando l’esercizio e
l’attribuzione concreta dei poteri (legislativo,
imperativo, coattivo etc.) dell’imperium, la
sovranità si presenta invece come un ordinamento
gerarchico, nel cui concatenamento istituzionale circola appunto
il Jus publicum.
Nel capolavoro groziano del ’25 i rapporti
giuridico-politici tra istituzione sovrana e organismo sociale
ricevono in tal modo una maggiore e più complessa
determinazione concettuale. Alla coppia potentia-ordo
viene fatta corrispondere una ulteriore distinzione: quella tra
soggetto comune e soggetto proprio. Allo stesso
modo che il soggetto comune della vista è il corpo e che
il suo soggetto proprio è l’occhio, del pari il
soggetto comune della sovranità è lo Stato, mentre
il suo soggetto proprio è rappresentato dalla persona o
dal gruppo investiti di potere politico da parte dello Stato
stesso, conformemente alle leggi e ai costumi di ciascun popolo
[11]. E come la
vista non può esercitarsi se non attraverso la mediazione
dell’occhio, analogamente la sovranità ha bisogno
della presenza di un concreto e specifico soggetto che eserciti e
amministri concretamente questo potere.
Ciò era stato già espresso, seppure in termini
più generali, anche nel giovanile De Imperio:
“Sebbene invero nessuno che sia anche solo mediocremente
colto può ignorare la differenza tra potere e funzione cui
esso si estende, tuttavia siamo indotti a ricordare ciò al
lettore, dato che ci sono di quelli che diffondono nebbia nelle
cose più chiare. Aristotele assai giustamente ci insegna
che non è compito dell’architetto in quanto è
appunto architetto, di realizzare materialmente una determinata
opera, poiché compito dell’architetto è
invece quello di prescrivere, secondo un giusto calcolo, che cosa
bisogna fare; mentre è compito a loro volta degli operai
eseguire correttamente le cose che sono state loro adeguatamente
ordinate. Così come non è compito di chi comanda
eseguire materialmente gli ordini, ma, impartendo comandi, far
sì che essi vengano eseguiti” [12].
Nel De Imperio solo l’Autorità Sovrana
è detentrice e soggetto della complessiva
globalità dei rapporti giuridici pubblici, così da
permanere identica a sé pur nell’alterna vicenda
delle forme di governo. In tal senso se non si può negare
che fin da tale opera Grozio concepisca il trasferimento totale
della persona giuridica della comunità politica a favore
della Sovranità [13], ciò nondimeno esso non con cerne propriamente
i singoli e la loro sfera specifica di diritti naturali, ma,
più in generale, il diritto di governarli.
Tuttavia resta che la sovranità del popolo non è
che potenziale, mentre quella del sovrano è attuale e non
può essere radicalmente messa in discussione dalla prima,
dal momento che il trasferimento non può in effetti essere
revocato: “Jus enim regni penes ipsum manet utcumque
possessionem amiserit” [14]. Il rapporto tra il soggetto comune e il
soggetto proprio si articola quindi ulteriormente in quello tra
lo jus che definisce l’essenza dello Stato e il
suo esercizio concreto, cura. Ed è appunto
allorché si verifica uno scarto tra jus e
cura, ossia tra la potenza implicata dalla
sovranità e il concreto esercizio di essa, che viene ad
essere infranta l’unione e la stabilità dello Stato.
In tal caso lo jus costitutivo della potenza statuale
rimane inespresso e inattuato [15], mentre la cura risulta esercitata in
maniera inadeguata e inefficace, se non addirittura in modo
lesivo.
Il che tuttavia non autorizza mai, per Grozio, né nel
De Imperio e neppure nel De Iure Belli ac
Pacis, ad esercitare alcun reale diritto di resistenza
(jus resistendi) da parte dei sudditi, cui non viene in
effetti riconosciuta alcuna legittima facoltà di
sollevarsi contro la potenza pubblica. Il che emerge con
particolare perspicuità nel cap. VI del De
Imperio in cui l’Autorità Sovrana viene infatti
definita come “potestas legibus soluta” e in tal
senso se ne esplicitano le prerogative [16]: “Come in Dio vi è una
sola e medesima potenza, sia che agisca secondo l’ordine da
lui stabilito, sia indipendentemente da questo stesso ordine,
così anche il potere, ovvero il diritto di colui
che detiene l’Autorità Sovrana è il medesimo
sia che agisca in conformità con le leggi da lui poste,
sia al di fuori di esse […]. Se dunque
[…]supponiamo che imprudentemente e in contrasto con le
norme vigenti, venga ordinato dalla sovranità qualcosa che
tuttavia è impossibile eseguire senza colpa, in tal caso
è necessario sottomettersi. Dio infatti concesse
all’Autorità Sovrana libera decisionalità,
mentre a noi l’onore dell’obbedienza; […]
perciò in tali circostanze “Bisogna anche sopportare
pazientemente l’ingiustizia dei potenti” [17].
L’Autorità Sovrana, pur essendo in tal modo- fin
dal giovanile De Imperio- il soggetto intangibile e
assoluto che “in maniera supereminente” impone in
virtù di un potere coattivo, il limite tra giusto
e ingiusto, tra lecito e illecito, ciò viene tuttavia a
valere, non in maniera assolutamente incondizionata, bensì
condizionatamente. L’Autorità Sovrana è
infatti in se stessa vincolata da limiti che le
ineriscono e che si radicano proprio nella necessità di
garantire una concordia duplice: civile e religiosa; tale
è infatti la condizione che rende ragionevolmente e
universalmente accetta la stessa vigenza del Potere Sovrano.
Nel trattato giovanile sul potere si afferma infatti che:
“Occorre riconoscere che ogni giudizio umano si fonda su
principi che sono o intrinseci alle cose, oppure su principi
estrinseci. I principi intrinseci o colpiscono i sensi o
s’impongono all’intelletto. In base ai principi che
colpiscono i sensi si giudica che la neve è bianca; mentre
in base ai principi che s’impongono all’intelletto,
giudichiamo se siano vere le proposizioni matematiche, per il
fatto che sono tutte riconducibili a delle nozioni comuni. Il
principio estrinseco è detto “Auctoritas”, e
può essere di due tipi: divina oppure umana; nessuno mette
in dubbio che si debba obbedire in modo assoluto
all’autorità divina; è così che Abramo
giudicò di dover immolare suo figlio; e parimenti
Noè dovette credere che sarebbe avvenuto il diluvio
universale. Invece nessuno è tenuto ad obbedire
all’autorità umana, qualora essa non sia sostenuta
né dall’autorità divina, né da
principi intrinseci” [18].
Nel De Iure Belli ac Pacis poi, in maniera ancora
più accentuata, pur negando al popolo ogni reale diritto
di resistenza (jus resistendi), in ragione della teoria
del diritto naturale, si sostiene che non qualunque “pactum
subjectionis” è e permane giuridicamente valido, ma
solo quello che risulti conforme a certe condizioni imposte dalla
natura e in base alle quali esso sia stato concluso; ossia solo
nella misura in cui esso contribuisca al duplice fine del
“godimento del diritto” e dell’utilità
comune”.
Si riconosce cioè che il potere dell’Auctoritas
civilis è valido nella misura in cui si pone a
garanzia del diritto. Non dunque come una monolitica e assoluta
uniformità puramente autoreferenziale, ma come una unione
articolata che, proprio in quanto intrinsecamente varia, deve
essere in grado di contemperare dialetticamente interesse
pubblico e privato; diritto umano e diritto divino; Stato e
Chiesa etc.
Ossia si con serva stabilmente in rapporto e nei limiti della
complessa finalità in vista della quale è stato
appunto istituito. E’ in tal senso che Grozio può
essere definito iniziatore dello “stato di diritto”.
In altri termini l’Auctoritas civilis
deve sempre confermare il suo “dominium supereminens”
alla “boni communis causa”, tanto per quanto concerne
il governo dei sudditi, quanto l’amministrazione del loro
patrimonio “in partes et res partium boni communis
causa”. [19] E può anche, ma solo e sempre per ragioni di
pubblica utilità, modificare certe norme del diritto
naturale, come anche del diritto civile [20].
Tuttavia qualora il sovrano si renda colpevole contro le leggi e
lo Stato, può essere punito con la morte: “Qui
principes sub populo sunt, sive ab initio talem acciperant
potestatem, sive postea ita convenit, si peccant in leges ac
rempublicam, non tantum vi repelli possunt, sed, si opus sit,
puniri morte” [21].
Pertanto l’assolutismo di Grozio passando dal
giovanile De Imperio al capolavoro della
maturità, non viene meno, ma si modera, divenendo
così “temperato”. Corrispondentemente viene
riaffermato l’obbligo di una obbedienza assoluta e
incondizionata, pur ribadendone tale incondizionatezza solo entro
certi limiti. In tal modo l’imperium
dell’Autorità Sovrana senza costituire una minaccia
per la libertà individuale, funge da freno
all’esplicarsi irrazionale e incontrollato degli arbitrii,
impedendo il caos sociale e la confusione cui ciò
inesorabilmente condurrebbe.
D’altra parte allorché il Potere Sovrano degenera e
si corrompe per perseguire a sua volta interessi particolaristici
e deleteri in rapporto al bene comune, tutto l’edificio
sociale crolla perché viene meno il fondamento stesso, la
finalità portante in vista della quale è stato
edificato. In tal caso il rapporto tra potenza statuale
(soggetto comune) e potere politico (soggetto
proprio) che tale potenza esprime e su cui si fonda, si
rescinde.
Il diritto di resistenza (jus resistendi) che il
criterio del bene pubblico veicola, si esercita pertanto e solo
in relazione a quelle che per Grozio costituiscono le
libertà e i fini fondamentali dello Stato, che nessuna
forma politica deve poter elidere e che il grado più alto
di assolutezza non che sopprimere, garantisce. Che il diritto di
difendere la propria vita e individualità continui a
sussistere dopo l’istituzione dello Stato e del potere
dell’Autorità Sovrana, rientra nella stessa logica
della quale fa parte, per altro verso, il trasfondimento dei
diritti naturali nella potenza civile, il cui scopo primario
è appunto quello di consentire la creazione di un sistema
di sicurezza funzionale al libero sviluppo dei i singoli
individui. Sarebbe pertanto una contraddizione lesiva del
fondamento stesso del sistema, non riconoscere la permanenza di
tale diritto.
Ma sarebbe ugualmente una grave inconseguenza intaccare
l’intrinseca coesione di quell’insieme di condizioni
che, sole, garantiscono la funzionalità del sistema in
vista dello scopo per il quale esso è stato creato; e
l’obbedienza è tra esse certo una delle più
importanti. Senza l’obbligo assoluto dell’obbedienza
il potere dell’Autorità Sovrana risulterebbe vano, e
di conseguenza lo Stato, come insieme organico di individui
vincolati da una volontà e decisione comune, non sarebbe
affatto stabilmente costituito [22].
Inoltre se è vero che l’attribuzione del diritto di
imperium all’Autorità Sovrana comporta la
cessazione dell’esercizio del diritto naturale in una
direzione totalmente individuale e indiscriminata, tuttavia non
implica affatto la cessazione del diritto naturale tout court,
che continua a persistere seppure mutato nella forma. Quel che
viene tolto è l'arbitrio che l'esercizio di tale
diritto può comportare e non la libera e retta
estrinsecazione di esso. In tal senso la concezione groziana
dell’assolutismo può essere letta come un difficile
tentativo di conciliare una irriducibile esigenza realistica di
stabilità –da perseguire anche a costo di ricorrere
alla coercizione- e un’altrettanto irrinunciabile difesa
della libertà individuale, tentando di renderle
compatibili al punto da voler fare dell’una quasi il
fondamento e la condizione di possibilità
dell’altra.
Note
[1] Cfr., De
Iure,cit., I, I, XIV, 1, p. 41. Questo concetto, per quanto
passando dalle opere giovanili al capolavoro della
maturità si arricchisca di nuove e ulteriori connotazioni
e acquisti un sempre maggiore spessore teorico, tuttavia era
già stato fondamentalmente formulato nel De
Imperio, così da rappresentare uno dei più
interessanti elementi di continuità che attraversano e
connettono l’intera concezione giuridico-politica di
Grozio. “Il confronto del De Imperio col De
Iure è dei più istruttivi, perché da
esso risulta chiaramente che il De Iure non è una
rivelazione improvvisa del genio di Grozio, ma è solo
l’ultima e matura fase del suo pensiero… [Nel De
Imperio] affermando la naturalità del Potere Sovrano,
Grozio reagiva alla concezione medievale dello Stato, rinnovata e
accentuata dalla Riforma, secondo cui lo Stato è
l’opera della corruzione, è strumento nelle mani di
Dio per contenere gli egoismi umani ed attuare i fini eterni. Per
Grozio lo Stato, considerato nella sua natura universale, non
può non essere sovrano, non può non imporsi e
sovrastare a ogni altra forma di vita, poiché esso solo ha
l’imperium, ha il potere imperativo e
coattivo”. Cfr. G. SOLARI, il “Jus circa
sacra” nell’età e nella dottrina di
Ugone Grozio, cit., p. 410.
[2] Cfr. H. GROTIUS, De
Iure, cit., I, III, VII, [1], p. 100.
[3] Esiste infatti una
sostanziale differenza tra “potere” e
“potenza”: quest’ultima è ciò da
cui promana, in virtù del patto, un determinato
“potere”, che può essere monarchico,
aristocratico, democratico. Quanto al legame o connessione tra
potere e potenza in particolare si riconosce che tutto il diritto
che il Sovrano ha di comandare, ossia la sua virtus
imperii, sta nella potenza giuridico-consensuale di cui
dispone, per farsi obbedire: questa è inseparabilmente
congiunta con il fine in vista del quale la sovranità
statuale è stata istuita, ossia il bene comune e la pace
sociale. Infatti si afferma ripetutamente che nessuno Stato che
si fondi sulla violenza, può reggersi e durare a lungo. In
tal senso assume rilievo il contratto che viene concepito da
Grozio come dotato di validità Iure naturae, sia
in quanto causa efficente, in rapporto cioè alla
necessità naturale di garantire la sopravvivenza; sia in
quanto causa formale, ossia nella determinazione della forma
politica del potere; sia infine in quanto sua causa finale, vale
a dire in rapporto al bene comune e alla pace pubblica in vista
dei quali è stato stipulato. Il che è come dire che
il “potere” trova un limite nel diritto-potenza in
base al quale è stato istituito. Ossia si può
intendere che il “potere” dello Stato venga concepito
da Grozio in maniera direttamente proporzionale alla sua
“potenza”, cioè nei limiti del
diritto civile e del bene comune. In tal senso il potere,
attraverso la mediazione del patto -ossia l’atto giuridico
e consensuale da cui esso prende vita-, è valutato in
considerazione degli interessi collettivi ai quali deve appunto
costantemente adempiere e presiedere (ciò viene asserito
in termini generali anche nel cap. I del De Imperio,
mentre in termini più specifici nel De Iure Belli ac
Pacis, Lib. I, cap. I, XIV, [1], pp. 40-41). Ora, a tal
riguardo non può essere contestato che per Grozio il patto
è condizione formale perché il potere dello Stato
possa esistere. Ed è altrettanto vero che il patto
è inteso come dotato di carattere universale e necessario,
in modo tale cioè che il principio “Juris
naturae est stare pactis”, non possa essere inteso in
senso relativo. D’altra parte, come viene asserito nel
§ 15 dei Prolegomeni, non qualunque pactum
subjectionis è giuridicamente valido, ma solo quel
patto che è conforme a certe condizioni imposte dalla
natura: “Infatti coloro i quali si erano raccolti in
qualche comunità o si erano sottomessi a uno o più
uomini, costoro, o avevano promesso espressamente, o dalla natura
stessa dell’accordo (ex negotii natura), si deve
capire che abbiano promesso tacitamente di seguire ciò che
avrebbe stabilito la maggioranza della comunità o coloro
ai quali era stato conferito il potere” . Cfr. U. GROZIO, I
Prolegomeni al De Iure Belli ac Pacis, cit., § 15,
p. 54. L’ex negotii natura sta infatti ad indicare
che il patto trova la sua condizione di validità nella
“natura” di quanto è stato pattuito: non
dunque qualunque patto è da considerarsi valido, ma solo
quello che risponde al fine di una società pacifica, equa
e razionalmente ordinata. Il che è come dire che il potere
statuale non ha un valore incondizionato e fine a se stesso, ma
sorge ed è valido in vista dei diritti civili e della
pubblica utilità: “Madre poi del diritto civile
è la stessa obbligazione per consenso; e, poiché
questa riceve la sua forza dal diritto naturale, la natura
può dirsi quasi la nonna anche del diritto civile. Ma al
diritto naturale si aggiunge l’utilità […]
L’utile […] fu la causa […] del diritto
civile. Infatti quella unione in comunità o quella
sottomissione di cui abbiamo parlato, cominciò ad essere
istituita in vista di una utilità. Da allora anche coloro
che prescrivono leggi per gli altri, nel far questo, vogliono o
debbono mirare a una qualche utilità”.
(Ibid., Proleg., 16, p. 55).
[4] Se è vero che
con l’istituzione dello Stato i singoli cittadini non sono
più solo “soggetti”, ossia subordinati di
fatto ad un ordine oggettivo, ma sono anche
“sudditi”, ossia soggetti di diritto, tuttavia
poiché il corpo politico costituisce un tutto unico e
analogamente agli organismi viventi è concepito da Grozio
come dotato di un’unica mente e di un’unica
volontà, di conseguenza ciò che lo Stato delibera
come giusto e buono, deve considerarsi alla stregua di una
deliberazione comune e valida per ciascuno. E’ per questo
che anche quando il suddito ritenga ingiusti i decreti dello
Stato, è ciò nondimeno tenuto ad eseguirli. Il
suddito deve infatti sempre adempiere a quod Iure bonum
est: ed è appunto giuridicamente buono ciò che
ex communi decreto fieri debet, ossia ciò che
è ordinato dal potere sovrano, detentore dello Jus
commune, quale risultato dell’unione dei diritti
individuali. Questa norma del dovere politico è appunto
assoluta, oggettiva e perentoria.
[5] Cfr. H. GROTIUS, De
Iure, cit., II, IX, III, [1], P. 310.
[6] Ibid., II, IX,
VIII, [1], p. 313.
[7] Ibid., II, XVI, XVI,
[1], p. 416.
[8]
L’imperium e la respublica intesi
metaforicamente e in una prospettiva organicistica, quale
è appunto quella groziana, rappresentano la testa e le
membra del corpo sociale. L’unità del diritto di
imperio, ossia del potere, è la condizione essenziale
dello Stato assoluto concepito da Grozio come un corpo diretto da
un’unica mente. Infatti più poteri darebbero vita ad
una pluralità di menti in reciproco contrasto, tutte
ugualmente direttive del medesimo corpo politico; il che ne
determinerebbe inesorabilmente la disgregazione. Del resto una
distribuzione delle diverse funzioni amministrative è
indispensabile perché esse vengano compiute con la dovuta
cura; e inoltre la sovranità non potrebbe farsi
carico di tutte quante. Il che non assume mai in Grozio il
valore di un frazionamento della Sovranità: infatti
già nel De Imperio tale suddivisione viene
prospettata solo dopo una preliminare distinzione tra
jus e usus juris. Cfr. Il Potere,
cit., cap. VI, §1. Nella concezione groziana è
pertanto costantemente mantenuto il principio fondamentale
dell’unità del potere sovrano; viene inoltre accolta
anche l’esigenza di una distribuzione delle funzioni
amministrative, concepita pur sempre e fondamentalmente in linea
verticale, ossia nel senso di una loro subordinazione gerarchica
alla suprema funzione legislativa e giurisdizionale detenuta
dall’Autorità Sovrana. Il complesso di queste
funzioni concepite in subordine al potere sovrano, è
appunto quello che Grozio definisce l’insieme della
pubblica amministrazione, dotata, non di potere coattivo, ma solo
dichiarativo e a cui dà il nome di respublica. Ma
il diritto pubblico stesso, lo jus imperii, detenuto
nella sua assolutezza e integrità dal sovrano, non
è subordinato a tale regolamentazione: esso regola
l’esercizio delle pubbliche funzioni senza esserne
regolamentato, se non nel senso in cui esso è regola di se
stesso. In tal modo mentre al suo interno l’esercizio della
sovranità (usus juris) è come disciplinato
dalla distribuzione delle funzioni che concernono
l’amministrazione pubblica, invece all’esterno
–vale a dire in rapporto con il resto del corpus
politicum che non è investito di funzioni sovrane,
(ossia con i sudditi), esso mantiene tutta la sua autonomia, e
assolutezza.
[9] Cfr. U. GROZIO, I
Prolegomeni, cit., Proleg. 15-16, pp. 54-55.
[10] Ciò viene
asserito chiaramente fin dal De Imperio: “Il
governo costitutivo che nasce dal consenso e che riguarda appunto
coloro che lo istituirono unanimemente, vincolandosi ad esso,
trae la propria cogenza obbligativa dalla legge di natura che
impone che i patti siano osservati, in relazione naturalmente a
cose comprese nel diritto e nel potere (in iure ac
potestate) dei contraenti. Invece coloro che non dettero la
propria adesione, non vi sono obbligati direttamente; tuttavia lo
sono di frequente indirettamente, qualora vi concorrano tre
condizioni: a) primo, che anch’essi siano parte di una
qualche totalità (ossia di una comunità); b) in
secondo luogo che la maggioranza della comunità vi abbia
dato il proprio consenso; c) in terzo luogo che si verifichi la
necessità di dar vita a determinate istituzioni per la
stabilità dell’intera comunità civile (ad
universitatis conservationem), o almeno per migliorarne la
condizione. Se infatti queste condizioni sono presenti, ognuno
è in prima persona obbligato, non in base ad un eventuale
diritto che la maggioranza potrebbe avere nei suoi confronti in
quanto numericamente superiore, ma proprio in base a quella legge
di natura che impone che ogni parte, in quanto parte, sia di
necessità subordinata e contribuisca al bene
dell’intera totalità di cui è peraltro
partecipe; inoltre spesso si dà il caso che il bene comune
non possa conseguirsi senza una qualche decisione particolare e
quest’ultima del resto non potrebbe avere effetti, ossia
giungere ad un qualche risultato, se fosse lecito che le cose che
hanno ricevuto l’approvazione dei più, potessero
ciò nonostante venire in seguito abrogate anche da una
piccola minoranza. In base a ciò i compagni di viaggio di
una stessa nave, così come coloro che partecipano ad un
medesimo affare, sono tenuti tutti quanti ad attenersi a
ciò che è stato deciso dalla maggioranza di loro,
perlomeno in quelle cose in cui c’è bisogno di una
speciale decisione e che riguardano la comunità di cui
fanno parte” Cfr. U. GROZIO, Il Potere, cit., IV,
§ VI, pp. 80-81.
[11] Cfr. H. GROTIUS,
De Iure, cit., I, III, VII, [1] – [3], pp.
100-101.
[12] Cfr. U. GROZIO,
Il Potere, cit., V, § 1, p. 97.
[13] Cfr. H. GROTIUS,
De Imperio, cit., I, III. A rigore Grozio non parla
esplicitamente di persona giuridica, ma dà in
ogni caso un contributo decisivo allo sviluppo del tema nel
quadro della cultura giuridico-moderna. Il concetto di
persona giuridica, che non compare nel diritto romano,
viene formulato per la prima volta dalla canonistica medievale a
partire da Sinibaldo dei Fieschi (ossia Papa Innocenzo IV) in cui
è presente l’idea che il collegio costituisca un
ente organicamente compatto; sarà appunto questa idea che
confluirà nella formulazione dell’idea di
persona ficta e persona repraesentata, quale
risulta nell’elaborazione tanto di canonisti, quanto di
civilisti, primi fra tutti Bartolo di Sassoferrato e Baldo degli
Ubaldi. Grozio si situa, ancora una volta, nello snodo teorico
che vede il progressivo abbandono di tale concezione
organicistica (che pure è in lui ancora presente –si
pensi all’idea di “corpo”-), a tutto vantaggio
di quella contrattualistica. Per una approfondita trattazione
della problematica della Fictio, sia in relazione
all’Aequitas (ovvero ai tentativi di costruzione
logico-dogmatica e al problema assiologico della finzione nella
scienza del diritto intermedio); sia in rapporto alla
realtà giuridica, ovvero al riferimento al problema
ontologico della fictio nel pensiero giuridico moderno,
cfr. F. TODESCAN, Diritto e Realtà. Storia e
teoria della Fictio Iuris, Padova, CEDAM, 1979.
[14] Cfr. H. GROTIUS,
De Iure, cit., II, XVI, XVII, p. 418. distinzione tra
quanto è potenziale e quanto è
attuale pare rendere sufficientemente conto di un
concetto che Grozio tra i primi, nel De Iure Belli ac
Pacis, ha formulato esplicitamente, con il proposito di
imprimere alla giurisprudenza una forma scientifica, separando in
essa ciò che è costante, universale e perciò
stesso attuale (in quanto promana della natura), da ciò
che è solo potenziale e dunque variabile (in quanto
prodotto dalla volontà umana). Ora, per quanto concerne
l’origine dello Stato e della comunità politica, se
essi hanno la loro realtà attuale nella natura umana
(appetitus societatis), tuttavia derivano dalla
volontà dei costituenti la loro forma storica,
potenzialmente varia a seconda delle diverse circostanze, (quella
cioè del regime monarchico, aristocratico e popolare). Ed
è appunto in tal senso che la volontà può
essere intesa come misura del diritto pubblico scaturito dalla
natura. Grozio riserva pertanto alla natura l’atto
di costituzione del diritto pubblico, nel quale sono
costantemente congiunte le clausole dell’unione e della
soggezione (consociatio aut subjectio); mentre
attribuisce alla volontà umana la funzione della
dichiarazione del diritto stesso, espressa nelle potenziali forme
che i costituenti prescelgano.Se pertanto è in
virtù del perenne diritto di natura che si determina la
costituzione della sovranità in se stessa
(jus gubernandi), è in ragione della
volontà che viene invece determinata la forma (forma
gubernationis) variabile e alterna dei governi.
[15] Cfr. U. GROZIO,
Il Potere, cit., VI, § XIV, pp. 145-147.
[16] Ibid., VI, §
XIII-XIV, pp. 144-147.
[17] Cfr. U. GROZIO,
Il Potere, cit., VI, § III, p. 126.
[18] H. GROTIUS, De
Iure, cit., I, I, VI, p. 32.
[19] Ibid, I, VI, VIII,
[3], p. 32.
[20] Ibid, I, IV, VIII,
p. 157.
[21] Non sarebbe
“costituito”, ossia istituito insieme (cum
– instituo), ma risulterebbe un potere estrinseco e
unilateralmente sovrimposto.
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