
1. CC-by o copyleft?
Molte istituzioni che patrocinano la scienza aperta consigliano licenze “permissive”, come la Creative Commons Attribution (CC-by) che lascia all’autore solo il diritto – morale e inalienabile negli ordinamenti europei continentali – alla paternità dell’opera e ne autorizza l’incorporazione e il riuso in oggetti proprietari. La licenza CC-by, considerata da molti la norma dell’open access, è la preferita da Plan S; quando il copyright può valere per i dati viene raccomandata, assieme all’ancor più permissiva CC-0, dall‘Open Research Data Pilot di Horizon 2020 (p. 10). È inoltre richiesta dalla Bill & Melinda Gates Foundation, da Wellcome Trust e da molti altri finanziatori pubblici e privati, e applicata – pare senza opzioni alternative – da piattaforme come Preprints.org. I motivi di questa preferenza sono chiari: la licenza CC-by è quella che rende più facile condividere e riutilizzare le opere che essa protegge, pur senza negare agli autori il dovuto riconoscimento.
Le licenze Creative Commons, modellate sul software libero, sono concepite come una soluzione di ripiego – in mancanza di una riforma complessiva del diritto d’autore – per agevolare la condivisione in un ambiente legale ostile, che attribuisce diritti esclusivi, qualora non diversamente indicato, su tutte le opere dell’ingegno il cui autore non sia morto da almeno settant’anni.
Un testo non recente di Richard Stallman, disponibile anche in traduzione italiana, invita però a diffidare della generosità unilaterale.
The simplest way to make a program free is to put it in the public domain, uncopyrighted. This allows people to share the program and their improvements, if they are so minded. But it also allows uncooperative people to convert the program into proprietary software. They can make changes, many or few, and distribute the result as a proprietary product. People who receive the program in that modified form do not have the freedom that the original author gave them; the middleman has stripped it away.
Una licenza che non obblighi a mantenere libero ciò che è derivato da quanto ricevuto espone il software a sorgente aperto al rischio di essere ri-incorporato in oggetti proprietari e riprivatizzato. Stallman, perciò, preferisce la più restrittiva General Public License, che autorizza a redistribuire, anche a fini commerciali, i programmi derivati dal codice da essa protetto solo a condizione di non alterarne la licenza. Come una pianta che si riproduce per talea, così una porzione di codice GPL ricopiato altrove mantiene e propaga la sua natura, rendendo via via più rigoglioso il prato dei beni comuni.
Fuori dal mondo del software, la licenza che condivide con la GPL la capacità di propagazione non è la CC-by, ma la più restrittiva Creative Commons-Attribution-ShareAlike (CC-by-sa), tramite la quale l’autore rimane in controllo del modo in cui la sua opera e ciò che ne deriva sono distribuiti.
Nel sistema del copyright, nato e pensato per l’età della stampa, la mediazione editoriale è a un tempo indispensabile e potenzialmente abusiva: il mediatore, infatti, si trova un una posizione che gli rende facile alterare, o negare, il rapporto fra l’autore e il pubblico della cui amministrazione è stato investito. Chi sceglie la licenza CC-by-sa, desiderando salvaguardare e arricchire il prato dei beni comuni, pone l’azione del mediatore sotto limiti rigorosi. Chi invece preferisce la CC-by si espone al rischio che mediatori ed elaboratori rapaci, pur traendo profitto dalla sua generosità, ne ostacolino la propagazione al pubblico. Ma quando la licenza CC-by è consigliata o addirittura imposta, gli autori sono invitati od obbligati ad abbandonare la cura per i beni comuni e per i diritti del pubblico all’arbitrio di sfruttatori futuri, sulle cui scelte non potranno esercitare nessun controllo.
Vale la pena sottolineare che raccomandare la pubblicazione ad accesso aperto non differisce dall’imporre una licenza particolare nel grado, bensì nella specie. Nel secondo caso, infatti, all’autore viene di fatto disconosciuta la titolarità originaria e piena del suo diritto, che comprende anche la facoltà di scegliere a quali condizioni rendere pubblica la sua opera.
il filosofo della scienza Michael Hagner si chiede se l’accesso aperto caldeggiato con tanto compiacimento dalle istituzioni dell’Unione Europea sia davvero l’attuazione di un ideale illuministico di emancipazione umana o non si riduca invece a un sistema di mercificazione del sapere entro un orizzonte esclusivamente economico:
Liberalità e apertura, in questo contesto, hanno due significati: come commons, l’OA rappresenta un bene universalmente disponibile; come merce (commodity), forma un gigantesco serbatoio di dati aperti da cui coloro che godono dell’accesso alle tecnologie appropriate possono attingere perseguendo i propri interessi materiali.
Non sarebbe difficile confutare Hagner se la licenza CC-by-sa, che permette agli autori di prendersi cura dei beni comuni contro mediatori e mercificatori parassitari pur senza proibirne gli usi commerciali, fosse quella generalmente indicata. La licenza CC-by, infatti, anche se consigliata in buona fede, si adatta assai meglio – in quanto sottrae agli autori l’interesse e la responsabilità del bene comune della scienza – a un sistema di sfruttamento economico privato, popolato da ricercatori proletarizzati che transitano come sonnambuli dal publish or perish all’open or perish consegnandosi a sfruttatori vecchi e nuovi, in cambio di compensi non necessariamente ricchi e distintivi non necessariamente scientifici.
2. Liberalità: una questione universitaria
Sotto un diritto positivo che rende facile rivendicare la proprietà verso tutti e per sempre ma difficile donare a tutti e per sempre, l’invenzione di Richard Stallman e la critica di Michael Hagner inducono a distinguere fra due concetti di generosità:
- generosità “debole”, per la quale l’autore rinuncia a tutti i suoi diritti alienabili;
- generosità “forte” o liberalità per la quale l’autore mantiene alcuni diritti perché desidera che continui a operare anche in un ambiente nel quale l’appropriazione ha un effetto omnilaterale, mentre il dono solo bilaterale.
L’ultimo libro di Kathleen Fitzpatrick, Generous Thinking. The University and the Public Good, si chiede se, perché e come sia ancora raccomandabile e possibile, per l’università praticare la liberalità in un ambiente in cui è dovunque imposto il modello della competizione in luogo di quello del servizio.
In un mondo ipermediato, globalizzato e conflittuale, leggere, scrivere, interpretare, discutere e in generale diventar consapevoli del modo in cui le rappresentazioni agiscono dovrebbe essere importante. Eppure, si crede che una laurea in scienze umane non serva assolutamente a nulla, quando serve assolutamente a tutto. La crisi delle scienze umane annuncia e precorre quella della ricerca di base in generale, almeno in un sistema così – catastroficamente – concentrato sull’utile immediato e puntuale da credere e far credere che quanto serve a tutto non serva, in effetti, proprio a nulla.
L’autrice riprende l’aggettivo generous da una critica di David Scobey, per il quale le scienze umane potrebbero superare la loro delegittimazione solo bilanciando il loro atteggiamento agonistico con un nuovo generous thinking:, cioè con un risposta pubblicamente orientata e dunque pubblicamente giustificabile alla loro antica vocazione al servizio e all’ascolto di e per gli esseri umani – da tessitori di reti e non da guardiani di gabbie.
Esistenzialmente, anche gli umanisti accettano ciò che fanno professione di criticare: un’università basata su un individualismo competitivo ancorché eteronomo, il quale, in nome dell’amministrazione e della classificazione, li allontana dall’uso pubblico della ragione e li rende sempre più ingiustificabili e autoreferenziali. Non importa quanto le loro teorie siano radicali: il loro contenuto è indifferente, una volta rinchiuso in “prodotti della ricerca” scritti non per essere letti ma per essere contati.
Gli umanisti e, prima di loro, le università, possono ancora permettersi di essere liberali? Soltanto a parole: esserlo sul serio – come riconosciuto da un rettore di un’università statale americana nominalmente vocata all’apertura e al servizio pubblico – nuocerebbe, distributivamente, alla loro competitività. Ma
che cosa potrebbe diventare possibile se riuscissimo a decidere che a essere davvero in competizione non sono le istituzioni di istruzione superiore bensì la visione dell’istruzione superiore come bene pubblico e la sua riduzione a responsabilità privata? E quali nuove mete potremmo prefiggerci se, alla ricerca di una fondazione comune in un rinnovato impegno per l’istruzione superiore come bene pubblico, riuscissimo a riconoscere che le nostre istituzioni hanno bisogno di collaborare, di costruire collettivamente i sistemi e le competenze a tutte necessarie per far progredire il loro intero settore molto più di quanto ne abbiano di differenziarsi reciprocamente, arrampicandosi l’una sull’altra in una qualche messinscena accademica di The Hunger Games?
3. Insegnare, leggere e pubblicare in un’università liberale
Il ricercatore competitivo, specialmente se sottomesso a una valutazione della ricerca amministrativa e centralizzata, difficilmente troverà il tempo e il coraggio di sfidare le regole del gioco. E però, se riuscisse a farlo, gli sarebbe possibile insegnare, leggere e scrivere in modo più coerente con i valori che le istituzioni universitarie pubbliche spesso continuano a professare, sia pure in estemporanei miscugli che aggiungono l’ipercompetitività interindividuale a una retorica di squadra che pare più vicina al calcio professionistico che alla VII lettera di Platone.
3.1 Insegnamento: una questione di giustizia
Il giovane americano non ha rispetto per nulla e per nessuno, per nessuna tradizione e per nessun ufficio, all’infuori che per la prestazione personale: questa è ciò che l’Americano chiama «democrazia». Per quanto la realtà possa comportarsi pur sempre in maniera distorta in rapporto a tale contenuto di senso, esso è però questo, ed è ciò che qui ci importa. Dell’insegnante che gli sta di fronte il giovane americano ha quest’opinione: egli mi vende le sue conoscenze e i suoi metodi in cambio del denaro di mio padre, così come l’erbivendola vende a mia madre il cavolo. Tutto qui.
L’università americana, come scriveva circa un secolo fa Max Weber, ha rappresentato precocemente l’insegnamento come una relazione contrattuale. Le nozioni – o anche le competenze – sono computabili come i cavoli che si vendono al mercato, per la soddisfazione dei clienti in grado di pagarli: e ogni altro discorso è pubblicità, nel senso, commerciale, di propaganda economica. È possibile immaginare un’alternativa a questo modello che sia ultracontrattuale ma non esposta al rischio di trasformarsi in un benintenzionato indottrinamento?
Trasmettere nozioni per una qualche utilità rimane paragonabile al mercato ortofrutticolo, anche quando si traffica in verdure meno umili dei cavoli. Una didattica liberale non deve cambiare l’offerta: deve operare in una piazza alternativa a quella del mercato costituendo vincoli reciproci, di carattere etico, che, non esaurendosi in atti puntuali, rendano possibile la conversazione e l’ascolto. In questo senso, l’insegnamento è in primo luogo una questione di giustizia.
Questa modalità dell’obbligazione – tale che non può estinguersi tramite atti discreti di generosità ma va invece vissuta – è il cuore di The University in Ruins di Bill Readings. Nel tentativo di tracciare una via d’uscita dal pantano in cui l’università dell’eccellenza ha sprofondato l’istruzione superiore, Readings considera ripetutamente al concetto di obbligazione e al suo nesso con la comunità. Il suo scopo, egli osserva, è “una riformulazione anti-modernista dell’insegnamento e dell’apprendimento come sedi d’obbligazione, come luoghi di prassi etica invece che come mezzi per la trasmissione di conoscenza scientifica. L’insegnamento, così, diviene responsabile rispetto a questioni di giustizia invece che rispetto a criteri di verità” (p. 154; corsivo nell’originale). Questa connessione fra obbligazione, etica e giustizia lo conduce al suo impegno al dissenso – la disposizione a rimanere in un disaccordo e dialogo ininterrotti invece di forzare un falso e oppressivo consenso – e alla sua coinvinzione che “la condizione della prassi pedagogica sia, con le parole di, Blanchot, ‘un’infinita attenzione all’altro'” (161). Questa infinita attenzione è un’obbligazione etica che non può essere estinta, la cui infinità è prodotta, in non piccola parte, dal nostro essere-in-comunità; “l’obbligazione alla comunità”, osserva Readings, è “tale che ne siamo responsabili ma non le possiamo dare una risposta” (187).
Readings rappresenta ancora l’università, “americanamente”, come una fornitrice di prodotti umani, quali, secondo la sua interpretazione, il soggetto repubblicano di Kant, la cultura nazionale di Humboldt, poi frammentata, secondo i nuovi gusti della clientela, nella pluralità degli studi culturali, e infine l’eccellenza vuota della burocrazia che anche K. Ftizpatrick desidera sfidare. L’insegnamento universitario era e dovrebbe ridiventare una questione di giustizia proprio perché il suo scopo non è confezionare risorse umane per il mercato del lavoro, consegnando merci nozionistiche scolasticamente impacchettate, bensì spacchettare questi nozioni allo scopo di discuterle e di superarle, cioè di farne oggetto di dissenso. Perché la cultura – come narra un’antica allegoria – comincia col dissenso, e nel dissenso vive.
A che serve questa impostazione, che è rivoluzionaria solo in senso astronomico? Serve a non servire: in un mondo costruito perché si dia per scontato che l’orizzonte ultimo sia una competizione vuota, la coltivazione istituzionale del dissenso può aiutare tutti a immaginare alternative a una vita automatica programmata secondo il verbo di economisti morti.
3.2 Lectio: una relazione ermeneutica
Le lectiones universitarie sono nate come letture, in una cultura manoscritta per la quale i testi erano opere d’arte rare e preziose. Quando, però, le scritture si producono industrialmente diventa facile credere che anche i lettori possano essere formati e valutati altrettanto industrialmente, tramite procedure e test standardizzati.
Sotto questo regime, la lettura s’intende come prassi utilitaristica, volta a estrarre da un testo la Risposta, tale da poter essere espressa in conformità col resto di una classe, la totalità dei cui componenti cerca di riecheggiare i desideri dell’istruttore o degli autori del test. Non solo non c’è spazio per l’interpretazione in un qualche senso ampio e creativo; non c’è spazio per niente oltre l’ansia per le conseguenze delle risposte sbagliate. L’esito, come risulta dall’indagine di Timothy Aubry, è ridurre l’atto complesso di confrontarsi con un difficile testo letterario e negoziarne i significati ad “afferrarlo”. ‘Afferrarlo’ assimila, naturalmente, l’atto dell’interpretazione a quello della consumo… una volta “afferrato” il libro il nostro lavoro si presume finito e possiamo rilassarci. Lo abbiamo in nostro possesso, il che significa che siamo ora fra gli eletti e abbiamo perciò titolo ad apprezzare quanto è diventato di nostra proprietà senza ulteriori sforzi.” Ma modi di confronto testuale più sofisticati richiedono forme di privilegio culturale da cui molti lettori sono stati esclusi. Idealmente, il ruolo degli studiosi è aiutare a combattere con testi difficili e far conoscere il piacere che può derivare da questa battaglia. Questo è, in effetti, il ruolo che recitiamo in aula: è possibile fare la stessa parte anche col più ampio pubblico dei lettori?
Ermeneuticamente, i testi scientifici e letterari sono prospettive sul mondo che aiutano chi si impegna nella loro comprensione a conoscere se stesso: farne oggetto di estrazione meccanica d’informazione significa ridurli a trasmettitori di opinioni predeterminate da chi, imponendole come un Humpty Dumpty tecnocratico, ha già deciso che cosa significano le parole.
Uno studioso liberale, di contro, legge in pubblico, ma non allo scopo di smerciare agli altri dei significati per loro altrimenti inattingibili, bensì per metterli in grado di confrontarsi direttamente coi testi. Costruire con gli altri un simile spazio di discussione richiede però tempo, e, soprattutto, un impegno etico incompatibile con la macchina burocratica della produttività accademica.
3.3 Lavorare in pubblico
L’impegno etico a parlare in pubblico come studiosi si ritrova nei principi originari del movimento per l’accesso aperto, che si proponeva di far convergere la riduzione dei costi di pubblicazione e distribuzione determinata dalla rivoluzione digitale con la tradizione della gratuità e pubblicità della comunicazione scientifica.
Insegniamo come abbiamo ricevuto insegnamento, pubblichiamo come impariamo dalle pubblicazioni altrui. Non possiamo ripagare quanti sono venuti prima di noi, ma possiamo dare e diamo a quanti vengono dopo. La nostra partecipazione a una comunità di ricerca etica e volontaria è fondata sulle obbligazioni a cui siamo reciprocamente tenuti.
Queste obbligazioni non sono contrattuali come quelle di chi si considera al servizio di chi lo paga, bensì propriamente pubbliche, cioè verso tutti. Il loro ambiente non è un gruppo particolare, ma quanto Kant avrebbe chiamato la società dei cittadini del mondo.
Le organizzazioni particolari, anche quando si sforzano di essere etiche e inclusive, non possono superare i loro limiti e sono proclive a comportamenti opportunistici per gli interessi immediati dei loro membri e le pressioni dell’ambiente. Pensarsi come parte di una società solo ideale non è una debolezza ma una forza, perché invita a fare uso pubblico della ragione tentando di parlare a tutti e nell’interesse di tutti, invece che ad alcuni e nell’interesse proprio.
La moneta con cui si pagano i debiti verso il futuro è però impalpabile, perché non consiste nel ripetere la scienza del passato, ma nel ripensarla e rimetterla in discussione come un problema non del tutto risolto, per un futuro ancora non del tutto determinato. Un sistema che si vantava di sapere amministrare tutto senza doversi meravigliare di nulla ha preferito allontanare gli studiosi da questo modo aperto di saldare i debiti, per puntare invece sui titoli derivati della ricerca: le cosiddette “pubblicazioni”, il cui valore non sta nei contenuti, che possono rimanere non leggibili né letti, ma nei metadati dei contenitori – le riviste, i libri – in cui sono confezionati. Potremmo pagare con tutto, e invece paghiamo con niente, cioè con testi non esigibili perché – salvo particolari emergenze – inaccessibili ai più e spesso privi di valore d’uso, in quanto orientati da sistemi di valutazione amministrativi di cortissimo respiro.
Questi titoli, per Kathleen Fitzpatrick, non sono soltanto tossici: sono un contributo al proprio suicidio. Rendersi esclusivi in nome di un prestigio amministrativamente definito significa abituare il pubblico a fare a meno di noi.
This is, at its most benign, a self-defeating attitude; if we privilege exclusivity above all else, we should not be surprised by the limited circulation that results. And whatever the prestige market might suggests, it is when our work fails to circulate that its value truly declines. As David Parry has commented, “Knowledge that is not public is not knowledge.” It is only in giving that work away, in making it available to the publics around us, that we produce knowledge.
È incoerente deplorare il populismo o l’ignoranza, o levare – come profeti biblici di piccolo cabotaggio – indeterminati lamenti contro la dittatura telematica prossima ventura, quando noi stessi, alla ricerca dell’editore amministrativamente o socialmente prestigioso, abbiamo omesso di navigare nella rete per amore di sapere, abbandonandola a specialisti e bot similmente a caccia d’attenzione. Quando smerciamo, quali “prodotti della ricerca”, visioni del mondo d’effetto, anziché battere piste, tessere reti, aprire orizzonti e discutere possibilità, contribuiamo alla demolizione del nostro senso, privatizzando un uso della ragione che può essere libero e aiutare tutti a liberarsi solo se è e rimane pubblico.
L’università della competizione e dell’eccellenza si legittima con un’esclusione e un’illusione. L’esclusione consiste nel rendere artificiosamente scarso un bene, il sapere, di per sé né escludibile né rivale; l’illusione nel gioco di prestigio che ci induce a rappresentarci come eccezionali, ma per sottrazione – nascondendo cose altrimenti visibili – e non per addizione.
Una legittimazione di questo tipo, per un’istituzione che ha bisogno di pubblico riconoscimento, non è solo un tradimento rispetto ai suoi valori di facciata: è un lento suicidio. Quanto più l’università nasconde quello che fa, quanto più si fa rinchiudere entro barriere artificiose, tanto più incoraggia chi ne è escluso a rappresentarla come un’élite corrotta, pretenziosa, autoreferenziale e sostanzialmente inutile. La cultura non è come una Ferrari che si può sfoggiare per l’invidia di chi non ce l’ha: può essere apprezzata ed efficace solo se viene condivisa. E per far capire che il sapere serve assolutamente a tutto, questo “tutto”, che trascende l’orizzonte del calcolo, deve essere accessibile a tutti. E, per converso, la libertà dell’uso pubblico della ragione non aiuta a ragionare soltanto gli altri: aiuta a ragionare anche lo studioso soprattutto se l’espone a critiche non trattenute da timori reverenziali. Perché dunque aggiungere ostacoli economici e sociali a un compito affetto dal rischio ippocrateo e già di per sé difficile?
A integrazione della conferenza weberiana, alle radici dell’università americana c’è anche una tradizione democratica potenzialmente diversa da quella elitistica e da quella mercantile. Furono infatti proprio gli Stati Uniti ad applicare interamente il disegno di Humboldt, conferendo all’università, tramite l’assegnazione di terre demaniali con i Morrill Land-Grant Acts (1862, 1890), anche un’indipendenza economica che il regno prussiano si era fin dall’inizio guardato dal riconoscerle. Questa devoluzione, ricorda K. Fitzpatrick, non aveva lo scopo di creare istituzioni per formare un’élite di leader, ma di istruire comunità. Una democrazia, infatti, è forte non in primo luogo perché ha dei leader forti, ma perché è abitata da un popolo forte. Chi ha trasformato le università in organizzazioni iperburocratiche che offrono una formazione “d’eccellenza” ai pochi e un addestramento acritico ai molti ha contribuito – involontariamente? – alla crisi della democrazia e alla delegittimazione della scienza.
Kathleen Fitzpatrick pensa che l’università posso ritornare a essere servizio pubblico solo se cambia e fa cambiare i criteri della sua valutazione, orientandoli verso collegialità, qualità, equità, apertura e comunità. Ma è anche consapevole che qualsiasi parametro è esposto al rischio di contare quanto può essere contato a scapito di quanto non può essere ridotto a numero – a partire dalla libertà della scienza e del suo insegnamento.
Le comunità di conoscenza che si pretende di ridurre a misura – lo rivela la stessa legge di Goodhart – sono molto più complesse dei loro modelli amministrativamente costruiti: e proprio per questo, perfino con le migliori intenzioni, ogni indicatore assunto d’autorità per valutare didattica e ricerca è strutturalmente dispotico e retrogrado. Ma, fermo restando – scrive K. Fitzpatrick – che dovrebbe essere chi lavora all’università a operare per trasformarla in un bene pubblico, che alternativa abbiamo?
5. Pubblicità: una questione di licenze
Perché Generous Thinking non rimanga un appello ai buoni sentimenti da affogare nella burocrazia, dobbiamo chiederci se sia possibile fare qualcosa di più e di diverso dal cambiare i criteri della valutazione, centralizzata o distribuita che sia, senza però mutarne la natura amministrativa.
Comunque la concepiamo – una comunità del dissenso, un luogo nel quale trattare la scienza come un problema ancora non del tutto risolto, o l’opposizione istituzionale al governo – un’università che intenda se stessa come servizio pubblico ha bisogno di uno spazio effettivo di pubblicità – spazio che attualmente non è garantito dallo stato, com’era nel disegno di Humboldt, né, tanto meno, offerta dal mercato.
Lo stato, anche quando, in paesi diversi dall’Italia, riconosce qualche diritto agli autori scientifici, sembra troppo debole per comporre una riforma organica del copyright, e preferisce procedere, sotto la pressione dell’una o dell’altra lobby, fra eccezioni e privilegi, così da rendere ulteriormente complessa una materia che, non essendo più riservata a editori e scrittori di mestiere, dovrebbe invece essere semplificata. E quando interviene sull’università, lo fa imponendo modelli amministrativi che ne manifestano la sudditanza alle ideologie economiche dominanti. Il mercato, coerentemente, è un’aggregazione di monopoli – del valore scientifico, in piccolo, e, in grande, della nostra socialità e cultura – i cui dati e metadati sono elaborati per vendere manipolazione e sorveglianza. Non sorprende che l’università americana dei Land Grant Acts sia stata risucchiata nel modello del capitalismo privato e quella europea nel capitalismo di stato, come rappresentato da Max Weber più di cento anni fa.
Il sapere ha bisogno di un nuovo Land Grant immateriale, in una situazione in cui lo stato sembra incapace di concederlo, all’americana, o di garantirlo, all’europea. Per questo, perfino in un momento in cui la letalità della valutazione della ricerca basata sull’accesso chiuso e sulla bibliometria commerciale appare evidente anche nei paesi più ricchi, la questione delle licenze rimane essenziale. L’uso consapevole del diritto d’autore permetterebbe infatti agli studiosi di mantenere ed espandere uno spazio effettivo di pubblicità senza doverlo attendere, graziosamente, da altri e offrirebbe all’università intesa come servizio pubblico la possiblità di contribuire a formare il popolo forte di cui ha bisogno la democrazia.
Creando fonti d’informazione e mezzi di comunicazione che nessuno possiede o controlla in modo esclusivo, l’economia dell’informazione in rete elimina alcune delle più fondamentali opportunità di manipolazione nei confronti di quanti dipendono dall’informazione e dalla comunicazione da parte di chi possiede i mezzi di comunicazione primari e di chi produce le forme culturali di base.
Per ottenere una simile indipendenza, però, non basta un’economia. Nel caso del software libero il suo stesso successo ha reso poroso il fronte che divide la proprietà intellettuale dai commons del sapere, ma per lo più in modo diverso da quanto scriveva Yochai Benkler nel 2006. Le aziende, come temuto da Michael Hagner per la ricerca in generale, hanno infatti elaborato strategie di incorporazione per imbrigliare i suoi processi di produzione comunitari e per mercificarne il prodotto. Strategie simili, costruite per esempio sul commercio di metadati anche a proposito di oggetti che sono o potranno diventare gratuitamente accessibili, sono in corso di applicaziione anche su testi e dati scientifici.
La licenza CC-by si limita a spostare lo sfruttamento privato del lavoro gratuito e finanziato da denaro pubblico dai testi ai metadati e alle opere derivate. Gli studiosi indotti ad adottarla rischiano di continuare a lavorare gratis, o peggio, perché altri, in un ambiente legale sempre più favorevole a mediatori, sfruttatori e rentier, continuino a trarne privato profitto.
Occorre espandere lo spazio dei beni comuni dell’informazione così da includervi nuove risorse intellettuali, sia tramite piattaforme di pubblicazione bibliotecarie e universitarie, sia tramite licenze “generose” nel senso forte del termine. Quelle assimilabili alla GPL, proprio perché, a differenza del copyright, non producono rendite e sanno propagarsi fuori dal circuito dello scambio, rimangono le più adatte a questo scopo. Tutti possono usare, migliorare e accrescere secondo i propri interessi il materiale da esse protetto, ma solo a condizione che il suo sviluppo, se pubblicato, rimanga pubblico come ciò da cui hanno attinto.
Esiste, ormai, molta letteratura sulla mercificazione della ricerca: ma ogni volta che aggiungiamo alla licenza CC-by la clausola share alike facciamo qualcosa di più. Contribuiamo, cioè, alla de-mercificazione del sapere – compito, questo, che un’università liberale dovrebbe assumere, se non come un obiettivo, almeno come un oggetto di discussione.