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La Repubblica di Platone |
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Una volta compiute queste puntualizzazioni logiche, Socrate
espone la dottrina della tripartizione dell’anima: la psiche,
nelle sue relazioni interne, è come un campo conflittuale, nel
quale elemento razionale, elemento irascibile (thymoeides) ed elemento
appetitivo si contendono il terreno. Ciascuno dei tre elementi corrisponde a una parte della polis: i filosofi rappresentano
l’anima razionale, i guerrieri quella irascibile e gli artigiani
quella appetitiva. Il compito della giustizia, nell’anima come
nella città, è la composizione dei conflitti interiori, in base a
un ideale di autonomia razionale. Nella prospettiva psichica,
la giustizia non è una questione di ingegneria istituzionale o
di forme giuridiche, ma è in primo luogo una qualità morale e culturale, connesso al ruolo e alla distribuzione del sapere. Socrate arriva ad affermare che il principio politico in base al quale ciascuno deve fare il lavoro che più gli si addice è
un éidolon o un simulacro della vera giustizia: la vera giustizia,
infatti, non sta nei comportamenti esteriori, bensì
nell’autonomia e nell’armonia interiore del singolo. La giustizia è la capacità di autogovernarsi; essa si realizza (443c
ss.) nel primato dell’elemento cognitivo, nel quale soltanto è
insito l’interesse originario per la ricerca autonoma della verità.
Si ha dunque giustizia quando la parte razionale governa; la parte irascibile coopera con la parte razionale, e la parte appetitiva svolge le sue funzioni in via subordinata a entrambe. Si ha ingiustizia quando le varie parti dell'anima non rispettano la gerarchia, generando ciò che Platone chiama - con un termine politico - stasis.
Abbiamo visto che, se la giustizia deve essere fondata sulla conoscenza e se la conoscenza, a sua volta, si fonda sull’interesse originario di chiunque alla trasparenza, la previsione della menzogna nella polis è un sintomo, chiaro, di tensione. La tensione si manifesta nella versione politica della giustizia platonica; non si manifesta, di contro, nella sua versione psichica. Non esiste, né può esistere, un corrispondente psichico del racconto fenicio, che è, infatti, soltanto politico. Si può mentire a una collettività in cui la conoscenza è distribuita in modo impari, ma non si può mentire scientemente a se stessi. Nessuno vuole essere indottrinato: io posso credere il falso, perché sono stato ingannato da qualcun altro, ma non posso credere in una menzogna che racconto a me stesso sapendola tale.
Il parallelismo platonico fra tripartizione dell’anima e tripartizione della città non è privo, d’altra parte, di difficoltà logiche. Se l’anima è tripartita allo stesso modo in cui è tripartita la città, allora ciascuna anima ha in sé una parte razionale, una irascibile e una appetitiva. Ma questo comporta che, nella città, anime complete si trovano costrette a svolgere il ruolo di una parte soltanto: per esempio un artigiano, la cui psiche ha anche una parte razionale e una parte irascibile, nella città deve svolgere solo il ruolo dell’elemento appetitivo. 33
Gregory Vlastos, per sottrarre Platone a questa debolezza, suggeriva di leggere il parallelismo fra anima e città sulla base di una sola idea di fondo: nella città operano le stesse forze psichiche che agiscono nell’anima. Pertanto, sia nell’anima sia nella città, la fonte ultima dell’ingiustizia è la sensualità, 34 che provoca disordine nella psiche e discordia nella polis; e, analogamente, nell’anima e nella città, la conflittualità può essere sanata solo dal giusto dominio della parte razionale. Tuttavia, anche se si accoglie questa interpretazione, non viene eliminata la problematicità del parallelismo per quanto concerne la politica della conoscenza: nell’anima è impossibile una menzogna consapevole, e dunque, al suo interno, la diffusione della conoscenza è necessariamente perfetta; nella città è invece possibile mentire. Il persistere di questa difficoltà deve far concludere che nella Repubblica di Platone non esiste una sola via alla giustizia, bensì due: una via intrapsichica ed etica, completamente trasparente, e una via politica, con alcuni elementi di opacità.
La circostanza che Platone faccia dire a Socrate che la giustizia politica è solo una immagine di quella vera, nell’anima del singolo, mostra che egli stesso era consapevole sia del carattere duplice, etico e politico, della via alla giustizia, sia del primato della via etica ed interiore, che non può essere imboccata – a differenza del suo simulacro politico – senza una coscienza assolutamente trasparente. Ed è anche chiaro quale delle due vie è preferita e praticata nel testo: la giustizia della polis viene chiamata addirittura eidolon - cioè parvenza o simulacro - della vera giustizia, che è soltanto quella dell'anima. 35
Al filosofo non sarebbero certo mancati gli strumenti retorici e culturali per fuorviare il lettore, in modo da renderlo, fuori dal testo, vittima inconsapevole della menzogna politica da lui teorizzata nel testo. Ma Platone non fa questa scelta: egli preferisce render pubblica la sua menzogna politica, dichiarandola addirittura in uno scritto accessibile a chiunque: in questo modo egli, pur teorizzando l’inganno a danno dei personaggi letterari che popolano la polis costruita col discorso, è sincero con i lettori reali.
Sul piano strettamente politico, una menzogna usata come instrumentum regni condanna se stessa al fallimento, se si rivela pubblicamente come tale. Viceversa, la via etica alla giustizia può essere imboccata solo da e fra anime esenti da inganno. Per quanto, all’interno del testo, la tensione fra la conoscenza della politica, che induce a teorizzare la menzogna, e la politica della conoscenza, che induce a rivelarla come tale, rimanga irrisolta, la preferenza di Platone a favore di una politica della conoscenza emerge con chiarezza nel rapporto fra il testo e il lettore. Possiamo renderci veramente conto del perché vale la pena essere giusti solo lavorando sulla nostra anima: ma questo lavoro non è una meditazione solitaria, bensì l’esito di un processo di interazione e di discussione trasparente, senza finalità di indottrinamento. In questo processo è compreso il gesto di mettere a disposizione di tutti un testo volutamente ambiguo, perché tutti – anche se alcuni vi accederanno soltanto per il tramite di un simulacro – possano liberamente partecipare alla discussione, e alla filosofia.
La Repubblica 439d-445e.
[ 33 ] J. Annas, An Introduction to Plato’s Republic, Oxford, Clarendon, 1982, p. 33
[ 34 ] G. Vlastos, «Justice and Happiness in the Republic», ora in Id., Platonic Studies, Princeton, Princeton U.P., 1981, pp. 58-75.
[ 35 ] Si veda anche la conclusione del nono libro.
La Repubblica di Platone
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