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La Repubblica di Platone |
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Se il nerbo della struttura della città è etico-culturale, la garanzia di governo corretto che legittimerà la selezione di alcuni per il ruolo di governanti, sarà la loro capacità di essere buoni custodi di se stessi e della mousiké che hanno appreso. (413e)
Il rapporto fra il custode e la cosa custodita – anche quando concerne, come in questo caso, delle semplici opinioni – è qualcosa di molto diverso dalla detenzione esteriore di un oggetto. Possiamo essere privati di una doxa (opinione) volontariamente o involontariamente. L’unico caso in cui ci priviamo volontariamente di una opinione si ha quando impariamo qualcosa di vero; mentre ne siamo privati o derubati involontariamente quando ce ne dimentichiamo, o veniamo convinti a cambiare avviso, abbandonando una opinione vera, ad opera di discorsi o di sentimenti (413a-c).
Sulla base di questa capacità di custodire se stessi, si seleziona un ordinamento gerarchico di custodi veri e propri, di ausiliari e di semplici cittadini (414b ss.); governanti e ausiliari saranno sottoposti a una rigida disciplina, di tipo spartano: dovranno fare una vita comunitaria, e non dovranno avere proprietà, in modo da non avere nessun interesse personale, che li trasformi, da alleati, in padroni odiosi per i loro concittadini (417a-b).
La legittimità di questa gerarchia deve essere condivisa da tutti – cioè anche da coloro che sono fermi al livello della semplice opinione. A questo scopo, Platone usa la sua sociologia della comunicazione per proporre un mito di fondazione: il racconto fenicio.
Il racconto fenicio, anzi, «un qualcosa di fenicio», si distingue dai miti narrati dai poeti non per il suo contenuto, 25 ma per il suo carattere artificiale e dichiaratamente falso. La sua funzione è la legittimazione della gerarchia politica, prima per i governati e, dopo una generazione, anche per i governanti.
Cercherò di persuadere prima gli stessi governanti e i soldati, poi anche il resto della città, che tutto quello con cui li avevamo fatti crescere ed educati, a loro pareva di subirlo e che venisse ad essere intorno a loro come nei sogni, mentre in realtà allora essi erano giù entro la terra, plasmati e fatti crescere, essi stessi, le loro armi e il resto del loro equipaggiamento fabbricato. E una volta che furono completamente pronti, la terra, come fosse loro madre, li mise alla luce, e ora essi devono prender risoluzioni e difendere la terra in cui sono come se fosse la loro madre e nutrice, se qualcuno va su di lei, e a considerare gli altri cittadini come fratelli e nati dalla terra... (414d-e)
[...] Voi tutti nella polis siete fratelli, diremo loro narrando il mito, ma il dio, mentre vi plasmava, a quelli di voi che sono adatti al governo mescolò, nella loro genesi, dell’oro, e perciò sono di grandissimo valore; agli ausiliari, argento; ferro e bronzo agli agricoltori e agli altri artigiani. Poiché siete congeneri tutti dovreste generare figli per lo più simili a voi; ma c’è caso che da oro nasca discendenza argentea, e da argentea aurea, e così reciprocamente in tutto il resto. Perciò il dio ordina prima e soprattutto ai governanti di non essere di niente tanto buoni guardiani e di non custodire nulla tanto forte quanto i figli, badando a quale di questi si sia mescolato nelle loro anime; e se un loro figlio nasce con del bronzo o del ferro, non si facciano per nulla impietosire, ma assegnando alla physis il riguardo che le si addice, lo respingano tra gli artigiani o i contadini; e se di contro da questi nasce qualcuno con dell’oro o dell’argento, lo onorino e innalzino l'uno a custode, l'altro ad ausiliario; perché c’è un oracolo per il quale la polis andrà in rovina, quando la custodisca il custode di ferro o il custode di bronzo (415a-c).
Popper ribattezza questo racconto, con una assonanza nazista, il «mito del Sangue e del Suolo», 26 e lo interpreta come una prova del razzismo e del totalitarismo di Platone. Il Socrate platonico, tuttavia, lo espone con esitazione e vergogna (414e) e ha cura di sottolineare che è una menzogna, vergognosa, ancorché nobile. Per quale motivo si sceglie di dichiarare la falsità del mito, in una maniera tale che rimanga in mente anche al lettore più distratto?
Nel mondo di Platone, la falsità letterale dei miti era un’idea acquisita, su cui non occorreva insistere. Una simile precisazione, a proposito di un mito, appare anomala anche all’interno dei testi platonici. Nel Gorgia il mito del giudizio dei morti viene trattato come un logos con l’apparenza di mythos; il mito dell’anello di Gige, o anche quello narrato all’inizio del Protagora, sono introdotti come espedienti per rendere immaginosamente un argomento razionale, spiegato in seguito. Platone avrebbe potuto scegliere di presentare in modo analogo anche questa storia che è in effetti molto simile a miti di fondazione presenti nella tradizione greca.
Contro Trasimaco, Socrate ha sostenuto che il soggetto morale competitivo e prevaricatore raffigurato dal sofista non è un dato naturale, ma un prodotto dell’educazione: una cultura diversa potrebbe renderci diversi. La nostra “natura” non si identifica col modo in cui nasciamo, ma con ciò che finiamo per essere in virtù di un processo storico-culturale. In questa prospettiva, nell’economia dell’argomentazione della Repubblica, il racconto fenicio deve necessariamente essere falso: esso, infatti, fa rispuntare dalla terra un’immagine della natura umana predeterminata e immodificabile, che, se vera, troncherebbe in radice la possibilità di ogni progetto di riforma.
Franco Trabattoni 27 ritiene che il mito fenicio abbia la funzione retorica di far metabolizzare, a un pubblico portato a trovarla inaccettabile, una organizzazione della società fondata sulla “meritocrazia”, e non più sull’aristocrazia della nascita o della ricchezza: le attitudini e le capacità della persone non dipendono dalla classe sociale. Un agricoltore può avere come figlio un uomo d’oro, e un guardiano può essere padre di un uomo di ferro. In questa prospettiva, l’espediente retorico della nascita dalla terra e della conseguente “naturalizzazione” dell’educazione serve a nascondere la storia della formazione dei cittadini entro una rappresentazione – falsa – della natura. La verità è diversa: noi siamo come siamo non in virtù della nostra nascita, ma per la nostra storia e la nostra educazione; le differenze nella gerarchia sociale non dipendono dalla natura, bensì, storicamente e culturalmente, dal nostro merito.
Di vero, alla base del racconto, c’è solo il fatto che la capacità di controllare le nozioni nella nostra mente in maniera vigile e attiva si sviluppa, in ciascuno, in un modo differente. Questa capacità, tuttavia, non spunta dalla terra, né viene trasmessa per via ereditaria, come la proprietà privata o il patrimonio genetico, bensì cresce in un lungo e faticoso processo di educazione e di confronto con gli altri. Ma proprio questa conquista introduce la disuguaglianza – una disuguaglianza che insiste sulla capacità di dominare ciò che si sa. L’elemento esplicitamente falso del racconto è il carattere non storico, bensì innato di questa disuguaglianza.
Il racconto fenicio può essere inteso come volto a legittimare, contro l’idea aristocratica del diritto di nascita, una gerarchia basata sul merito dianoetico-etico, che, ingannevolmente e retoricamente. viene fatto passare per innato. Ma può essere letto ancora in un altro modo: l’oro che è in qualcuno di noi non viene da lui o dalla sua famiglia, ma deriva da un humus comune e indisponibile ai singoli. Questo humus viene, ingannevolmente e retoricamente, fatto passare per natura: esso, in realtà, è frutto della storia – ma di una storia che non dipende esclusivamente dall’azione individuale nella sua originarietà.
Platone vuole costruire una gerarchia politico-sociale di carattere meritocratico. Per questo, è in disaccordo con i fautori di una aristocrazia fondata sulla nascita e si vale, nel racconto fenicio, della legittimazione in base alla nascita solo per motivi retorici, a causa della forza mitica di un simile argomento nella sua tradizione culturale. Questo non significa, tuttavia, che ciò che i singoli conoscono e sanno fare derivi esclusivamente da loro. La base della meritocrazia platonica non è individualistica: i singoli non producono da sé il metallo che è nella loro anima, ma lo ricevono in assegnazione. Nella realtà, l’assegnazione viene compiuta dalla storia che i singoli hanno in comune; nel mito, l’assegnazione viene fatta dal dio, cioè dalla natura. Questa, come leggiamo in 414d-e, è la falsità del racconto. Non è falso, invece, il fatto che ciò che conosciamo e sappiamo fare non derivi interamente da noi, e che, nella distribuzione delle capacità e dei meriti, sia possibile la disuguaglianza.
In questo senso, la bugia di Platone non può ridursi all’esteriorità di un espediente retorico: la disuguaglianza, per quanto sia frutto della storia e non della natura, non è eliminata. Ne segue, pertanto, che, anche se la conoscenza venisse resa, in linea di principio, disponibile a tutti, essa verrebbe fatta propria in maniera disuguale. Ma ciò comporterà una conseguenza molto grave: l’impossibilità di una legittimazione cognitiva che sia effettivamente e consapevolmente riconosciuta da tutti. Questo è il principale paradosso della fondazione del potere sulla conoscenza: chi non sa, vedrà inevitabilmente il potere come qualcosa di opaco e iniziatico. Senza l’universalità attuale della condivisione della conoscenza, ogni pretesa di società trasparente suonerà come una menzogna, agli occhi di coloro che non riusciranno a penetrarne le ragioni.
Tuttavia, dopo aver fatto queste considerazioni, una questione rimane aperta: come può Socrate teorizzare esplicitamente la menzogna, sia pure nella sua funzione di pharmakon, dopo aver riconosciuto che nessuno vuol essere indottrinato?
Questa domanda è tanto più significativa in quanto Platone, a dispetto della possibilità culturale e testuale di tenerla celata, dichiara la menzogna come tale. Per Platone la pubblicazione in forma scritta non era un gesto scontato, ma comportava una scelta consapevole: quella di esporre il suo testo – e dunque, in questo caso, la sua menzogna – al punto di vista esterno ed essoterico di un qualsiasi lettore. Mentre i suoi nemici moderni sembrano convinti di poter giustificare un regime politico con un discorso di fondazione che sia, sul piano comunicativo, perfettamente trasparente e generalmente condivisibile, Platone è meno sicuro di loro: anche chi cerca di costruire nel discorso una polis perfetta deve essere consapevole della disuguaglianza nella distribuzione e nella comprensione del sapere, e della conseguente opacità dello spazio pubblico. Dal punto di vista esterno, Platone non ha mentito.
La Repubblica 412c-417b.
La Repubblica di Platone
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